Famiglia e condotte giovanili devianti

 In ProfessioneFormazione, N. 3 - settembre 2014, Anno 5

Scrive Jean-Jacques Rousseau ne “L’Emilio”: “Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo”. In maniera semplice si può così intendere il pensiero del filosofo: l’uomo nasce buono e solo un’educazione sbagliata e la corruzione della società lo rendono incline al male.

Diversamente, ne “Le confessioni”, Sant’Agostino scrive: “Io ho visto e considerato a lungo un piccino in preda alla gelosia: non parlava ancora e già guardava livido, torvo, il suo compagno di latte (…) Ciò nonostante si tollerano con indulgenza questi atti, non perché siano inconsistenti o da poco, ma perché destinati a sparire col crescere degli anni. Lo prova il fatto che gli stessi atti, sorpresi in una persona più attempata, non si possono più tollerare con indifferenza”. Secondo San’Agostino già nei bambini è possibile rilevare dei segnali premonitori di un futuro comportamento antisociale, anche se poi non tutti i bambini aggressivi sono destinati a diventare degli adulti delinquenti (Barbagli, Gatti, 2005).

Uno dei compiti della criminologia minorile è quello di analizzare le dinamiche e le motivazioni che spingono il minore ad attuare delle condotte devianti ‑ intendendo con questo termine quell’insieme di comportamenti accomunati dalla loro valenza trasgressiva e non sempre coincidenti con condotte illegali (Scardaccione, 2003) ‑ dando, se si può, una risposta alla domanda che nasce dalla diversa concezione della natura umana di Rousseau e Sant’Agostino, ovvero: a quale età si manifestano le condotte antisociali e quali ne sono le cause.

Gran parte della letteratura criminologica propende per ritenere valida la concezione di Sant’Agostino. I comportamenti aggressivi si manifestano molto presto nella vita degli uomini, raggiungendo il picco all’età di due anni (Barbagli, Gatti, 2005), riducendosi in seguito grazie all’insegnamento dei genitori per poi ricomparire in età adolescenziale, in particolare in quei ragazzi che da bambini hanno avuto dei disturbi della condotta.

Naturalmente ciò non porta a credere ad una derivazione deterministica, magari in rapporto a basi genetiche per cui un bambino aggressivo è destinato a diventare obbligatoriamente un adolescente altrettanto aggressivo, poiché bambini con disturbi dell’attenzione e della condotta hanno avuto in seguito comportamenti e risultati diversi in rapporto all’ambiente nel quale sono cresciuti. Infatti, nel comportamento del bambino influiscono numerosi fattori, sia di natura individuale che sociale (Berti 1997) e un posto di rilievo occupa la famiglia con le sue dinamiche.

Come agente della Polizia di Stato mi sono interessato di adolescenti autori di reato, per questo, mosso da curiosità, sono andato alla ricerca, per quanto possibile, delle intime motivazioni che inducono ragazzi “normali” a mettere in atto delle gravi condotte devianti. Naturalmente non ho trovato alcuna risposta del tutto soddisfacente. Quello che ho rilevato direttamente e con preoccupazione, oltre al disagio del minore -effettivamente esistente-, è stata l’inadeguatezza della famiglia. Non faccio riferimento all’inadeguatezza economica, anzi, in molti casi si tratta di famiglie benestanti, bensì alla carenza degli strumenti psicologici e più in generale affettivi, intesi nell’accezione più generale del termine che stanno a fondamento di ciò che Erikson (1984) definisce “fiducia di base”, cioè il sentire che i propri bisogni sono soddisfatti e che il mondo è un luogo buono e piacevole.

Genitori presenti fisicamente ma non comunicanti con il figlio o comunicanti con un linguaggio emotivo confuso, oppure genitori che applicano quello che Bandura (1986) chiama disimpegno morale nella forma della distorsione delle conseguenze: ma si, in fondo il ragazzo non ha fatto niente di grave, i cattivi siete voi poliziotti che vi accanite contro dei minori che non sanno come difendersi.

La famiglia

Nel tempo, diversi autori hanno cercato di spiegare quanto la famiglia e le sue dinamiche abbiano influenza sullo sviluppo del comportamento deviante del minore, andando ad analizzare di volta in volta le differenti tipologie familiari: la famiglia disgregata, la famiglia autoritaria, la famiglia non autoritaria, ecc.

In estrema sintesi si può dire che non è disturbante per i figli né una famiglia autoritaria (che non significa naturalmente famiglia maltrattante) né una famiglia “libera”. Ciò che invece è disturbante è l’incoerente approccio situazionale dei genitori. Infatti, se di fronte ad un problema i genitori non si comportano di comune accordo e sempre allo stesso modo, è facile ottenere effetti peggiori di una grande permissività o di una grande severità, creando nel bambino un’enorme confusione.

I genitori sono inoltre fondamentali riguardo all’acquisizione del senso morale, che avviene intorno ai 5/6 anni d’età attraverso una continua interazione con il figlio. Inizialmente il bambino non ha alcun senso morale, vuole essere solo soddisfatto nei propri bisogni; ad un certo punto, quando i genitori lo sgridano per una cosa fatta male o lo lodano per una cosa fatta bene, lentamente, da questo approccio, introietterà il concetto di bene e di male.

Ecco quindi l’importanza per i genitori di instaurare una relazione adeguata ed emotivamente soddisfacente con il bambino, presupposto per l’acquisizione di nozioni normative di base, del senso morale, del senso del giusto e dello sbagliato, del senso della realtà dei fatti.

Il ruolo del padre

Considerato da alcuni autori un “genitore dimenticato” (Ross 1979), il padre assume invece un ruolo determinante nelle diverse fasi di vita del bambino: ha un ruolo appena il bambino nasce, supportando la madre e favorendo la separazione madre-bambino; ha un ruolo perché dà il cognome alla famiglia; ha un ruolo importantissimo perché sarà una figura di identificazione forte, sia per il maschio che per la femmina, tanto che quest’ultima identificherà nel padre il partner. Quante volte abbiamo visto una donna figlia di padre etilista che a sua volta sposa un etilista, in una coazione a riproporre e ricercare quelle relazioni primarie, anche di tipo sadico e narcisistico, che è probabile ne abbiano caratterizzato l’infanzia.

Oltre a ciò il padre riveste l’importante figura di autorità normativa, tanto che per questo motivo, in alcuni casi, ragazzi con una grande difficoltà identificativa e che commettono reati hanno tentato di costruirsi un’identità propria cercando di indossare una divisa. Giovani che hanno provato ad arruolarsi nelle forze dell’ordine o nelle forze armate, ovviamente senza riuscirci, motivati dalla necessità interiore di darsi un’identità derivante dalla figura paterna che è mancata.

Il ruolo della madre

Bowlby, Spitz, Klein, solo per citare alcuni eminenti autori, hanno lavorato sulla problematica della relazione con la madre, sull’importanza delle cure materne, sulla formazione dell’identità e sui processi di separazione.

Vero è che una carenza di cure materne comporta spesso una difficoltà di relazioni oggettuali, tant’è che la letteratura –magari di nicchia- spiega i reati di appropriazione come eventi legati anche a questo tipo di deprivazione (Winnicott, 1986).

La scarsità di cure materne, la carenza di relazioni oggettuali, la necessità di avere degli oggetti al posto di relazioni soddisfacenti non necessariamente la ritroviamo solo in chi commette reati. È rilevabile, ad esempio, nelle vicende che riguardano le separazioni tra coniugi, ove persone professionalmente super impegnate manifestano l’intimo bisogno di raccogliere “tante cose” tramite la realizzazione di una brillante carriera lavorativa, ciò al solo scopo di riempire la loro carenza di relazioni oggettuali, che sarà però anche alla base di un fallimento sul piano personale.

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