L’agire pedagogico e la “comunicazione formativa” per prevenire il burnout

 In ProfessioneFormazione, N. 1 - marzo 2017, Anno 8

La comunicazione è una “legge della vita”: la conditio sine qua non per l’esistenza umana. Infatti la relazione comunicativa, sia a livello verbale sia a livello non verbale, è la caratteristica fondamentale dell’uomo come sistema aperto e lo stesso comportamento umano rappresenta un’espressione della comunicazione. L’attività come l’inattività, le parole come il silenzio, le frasi come le pause comunicano, influenzando noi stessi e gli altri (Watzlawick, Beavin & Jackson, 1967). Di conseguenza, il comportamento umano può essere studiato (soprattutto) nel contesto relazionale-comunicativo.

Oltre la libera espressione delle istanze personali, la comunicazione è uno strumento principe per rendere possibili i rapporti interpersonali, con il relativo scambio di opinioni, di sentimenti, di esperienze, di conoscenze, di competenze. La comunicazione interpersonale promuove l’apprendimento, la socializzazione e la realizzazione personale e professionale del soggetto-individuo-persona. L’educazione, l’istruzione e la formazione sono chiamate a presidiare, a tutelare e a valorizzare un’idea alta di comunità e di comunicazione, in una società che è sempre più comunità di gruppi, di etnie, di nicchie. Soprattutto nelle professioni con implicazioni relazionali accentuate è necessario assimilare condizioni ed elaborare modelli, attivando una serie di piste metodologiche affinché la condizione di comunità/comunicazione possa essere attuata secondo i principi della cura, della cura sui, dell’empowerment e della resilienza.

Quattro dispositivi sono particolarmente utili per spiegare/comprendere le dinamiche che caratterizzano la comunicazione intrapersonale e interpersonale, anche nei contesti professionali “a rischio” di burnout: l’ascolto, dal dialogo, il sostegno, l’empatia.

L’ascolto è la struttura-matrice di ogni forma comunicativa, di ogni scambio modellato sulla comunicazione, in quanto in primis lo genera, ma anche lo sostiene e lo regola. Ascolto in quanto preludio al dialogo, in quanto le figure protagoniste si proiettano sulla differenza dell’altro. Ascolto che mette al centro proprio la figura dell’altro e il valore dell’alterità. Non solo: un ascolto attivo, ricettivo e introspettivo è in grado di accogliere, riconoscere e utilizzare anche il proprio sé.

Il dialogo implica verità, apertura, messa-in-discussione, partecipazione e ascolto, traduzione e ri-attivazione del discorso dell’altro, cresciuto, arricchito e maturato, decostruito e rinnovato. Si tratta di attuare quel dialogo già socratico che fa centro sull’interlocutore e lo stimola, lo spinge ad interrogarsi per trasformare il suo panorama interiore. Un dialogo sempre imperfetto, non ideale, ma reale, che produce anche disturbi, resistenze, opacità, chiusure, effetti-eco e che, quindi, va costantemente ri-pensato e regolato, controllato e affinato, partendo dalla frontiera della comprensione che ne costituisce la base di riferimento.

Il sostegno, vale a dire il dispositivo necessario per accompagnare il soggetto, sostenendolo, incoraggiandolo, potenziandolo. In questo modo egli assume la consapevolezza di poter contare sull’altro, di potersi appoggiare su una base sicura e accogliente. Un sostegno (emotivo e cognitivo, relazionale e strumentale) finalizzato alla crescita e allo sviluppo dell’autonomia individuale.

L’empatia, ovvero la capacità di un individuo di comprendere completamente un altro individuo “mettendosi nei suoi panni” e “sentendo nello stesso modo”, rappresenta il punto più alto della modalità comunicativa all’interno della relazione intrapersonale e interpersonale. Nello specifico, a partire dalla propria, il soggetto coinvolto è in grado di percepirsi all’interno di una globalità psicofisica. Ciò apre la strada ad una circolarità dialettica che si scandisce nella “carica” emotiva dell’esperienza interiore e della relazione interpersonale.

Si tratta di quattro dispositivi paradigmatici (incardinati tra educazione, istruzione e formazione) per mettere in gioco i sentimenti, i legami, le forme di impegno, i conflitti, etc., che possono diventare la “materia” di una competenza professionale – comunicativa, relazionale e costruttiva – volta ad affinare il processo comunicativo e allentare i pre-giudizi di ogni soggetto che “abita” nella relazione comunicativa. Qui ogni soggetto raccoglie/restituisce la propria Weltanschauung, i propri valori, il proprio punto di vista, che non va assolutamente irrigidito, ma che deve decentrarsi attraverso un approccio incoraggiante, allo scopo di accogliere le sinuosità, i blocchi, gli scarti e di enfatizzare le convergenze, le consonanze, le affinità.

Tutto ciò significa valorizzare le differenze e creare “ponti” con noi stessi e con le molteplici alterità con cui interagiamo. Ovvero, esplicitare e negoziare (in particolare di fronte a stati ansiogeni e stressogeni) l’organizzazione della comunicazione interiore e della relazione interpersonale, in un’ottica “ecologica”, “complessa”, “olistica”, in vista di una soluzione condivisa dei problemi e di una gestione costruttiva dei conflitti.

 

La comunicazione “preventiva”: un dispositivo di garanzia per la qualità delle relazioni

La definizione di “prevenzione” è sensibilmente modificata nel tempo: da attività mirante a prevenire l’insorgenza delle malattie a intervento atto a promuovere la salute e quindi a favorire il benessere. Il suo campo di azione quindi è orientato a tutti i settori dai quali può originare il rischio per la salute: ambiente, stile di vita, organizzazione umana, sociale e biologica. Ognuno di questi contesti non può prescindere dal considerare determinante per la propria salute la qualità della comunicazione che si genera e circola al proprio interno e che, al pari di un “circuito elettrico” in buona attività, funge da generatore e alimentatore di dinamiche relazionali positive per il proprio sistema di riferimento. Da qui la necessità di investire in una forma di comunicazione “preventiva” da “curare” intenzionalmente e responsabilmente.

Nella nostra specie la comunicazione ha un codice privilegiato nel linguaggio verbale, anche se risulta molto più potente il canale della comunicazione non verbale (gesti, posture, sguardi, mimica facciale, prossimità fisica e orientamento spaziale), con segnali che completano, arricchiscono e a volte contraddicono la stessa comunicazione verbale. Esiste inoltre un codice “non verbale” del verbale, fatto di pause, esitazioni, tono della voce, borbottii, che offrono all’ascoltatore una serie di indicatori da cui potrà dedurre che il suo interlocutore è, ad esempio, imbarazzato, aggressivo, annoiato, poco sincero, spaventato, etc.

Possiamo individuare quattro aspetti principali che compongono la comunicazione non verbale e che possono costituire preziosi indicatori di osservazione: la comunicazione prossemica (si riferisce ai rapporti spaziali tra le persone, quanto sono vicine o lontane tra loro durante uno scambio comunicativo), la comunicazione cinesica (studia i movimenti del corpo, la postura, l’espressione facciale, il contatto oculare, la mimica, i gesti ed il loro significato), la comunicazione paralinguistica (si occupa delle emissioni vocaliche non semantiche, ad esempio gli “mh”, del tono della voce, della sua velocità, dei silenzi e delle
pause), la comunicazione aptica o tattile (analizza il significato dei gesti di contatto, dei toccamenti, nei confronti di noi stessi e degli altri).

Secondo Argyle (1978) la comunicazione non verbale svolge fondamentalmente tre funzioni: comunica stati emotivi (le espressioni del viso, i movimenti degli occhi, della bocca, i gesti delle mani rivelano chiaramente emozioni positive o negative), integra e sostiene la comunicazione (con gesti che possono essere simbolici, descrittivi, espressivi, regolatori), sostituisce il linguaggio verbale (in particolari situazioni, quando ad esempio il rumore o la distanza non permettono di comunicare con le parole). La “potenza” dei comportamenti non verbali è molto maggiore di quanto non si creda. Lo psicologo statunitense Mehrabian (1981) ha constatato che l’impatto globale di un messaggio può essere composto per il 7% dalla componente verbale, per il 38% dalla componente vocale (volume, tono, ritmo) e per il 55% dalle espressioni facciali. Pertanto, l’uso attento di comportamenti non verbali risulta essenziale per mantenere relazioni positive, costituendosi come strumento indispensabile per chiarire, sottolineare o svalutare il significato dei messaggi verbali.

Il clima emotivo che si instaura all’interno di un gruppo è “perturbabile” e dipendente dalle dinamiche organizzative, relazionali, comunicative, affettive che si svolgono al proprio interno. Dunque la comunicazione, verbale e non verbale, è sempre un’attività delicata che può comportare dei rischi. Rischi di fraintendimento, di acutizzazione di un conflitto già esistente, di espressioni inadeguate, di percezioni distorte. Uno degli elementi su cui gli studiosi insistono e concordano è che bisogna lavorare sulle modalità con cui ci si esprime; spesso sappiamo che non è tanto il contenuto ad essere “disturbante” quanto le modalità con cui è presentato quel contenuto. Si può inviare un messaggio anche molto divergente rispetto alle considerazioni dell’altro, ma la modalità adeguata di espressione può far sì che il destinatario non si senta offeso. In questo senso sono importanti – come elementi che migliorano la comunicazione interpersonale in ottica “preventiva” – l’automonitoraggio continuo sulle nostre modalità comunicative e la capacità di accogliere i feedback degli altri, sia in merito alle nostre espressioni verbali ma soprattutto relativamente alle nostre più incontrollate modalità di comunicazione non verbale.

Diversi studiosi hanno sottolineato il ruolo della discussione e della conversazione come momenti fondamentali per il rafforzamento della coesione interna ad un gruppo (Moscovici & Doise, 1992). Una metodologia classica per lo studio dei processi comunicativi che si svolgono all’interno dei gruppi è quella di osservare dall’esterno una riunione di gruppo, cui sia stato “tolto l’audio”. Noteremo subito alcuni scambi comunicativi “senza verbale” particolarmente evidenti: vi sono persone che parlano di più e altre di meno e altre ancora che non partecipano affatto alla conversazione; vi sono persone che mentre parlano ricevono ascolto e attenzione da parte degli altri membri, mentre altre sono poco ascoltate. Osservando poi l’atteggiamento posturale potremo interpretare messaggi che testimoniano sicurezza o reticenza, e ancora, osservando gli sguardi e i contatti oculari potremo cogliere atteggiamenti assertivi, difensivi, aggressivi, indifferenti. Dopo un certo tempo e un certo numero di osservazioni mirate potremo anche intuire quali sono i ruoli e lo status di ognuno, la “gerarchia” interna e il clima affettivo prevalente (caldo/freddo, interessato/disinteressato, collaborativo/competitivo, sereno/teso, etc.).

Il conflitto è una situazione in cui una persona o un gruppo percepisce che un’altra persona o gruppo stia interferendo con il conseguimento del suo obiettivo. Nelle organizzazioni, soprattutto nelle organizzazioni complesse, spesso si sperimentano situazioni di conflitto perché ci si aspetta che le persone lavorino sempre di più in collaborazione, essendo cambiati gli approcci alla leadership: l’efficienza non è più data dalla “direttività” dei dirigenti ma da un approccio di management partecipato, per cui il maggior coinvolgimento del personale a livello decisionale aumenta anche le occasioni di conflitto. Nel modo di pensare comune, il conflitto quasi inevitabilmente rimanda a qualcosa di negativo, che spezza l’armonia di un gruppo e che introduce “spaccature” fra posizioni diverse. In realtà, è importante sottolineare che vi sono conflitti distruttivi e dirompenti, che compromettono l’equilibrio e la coesione del gruppo, ma vi sono anche conflitti costruttivi che, attraverso la negoziazione di posizioni diverse, favoriscono un arricchimento e un’evoluzione positiva della vita di gruppo.

È estremamente difficile riuscire a “scardinare” gli atteggiamenti di resistenza (intesa come meccanismo di difesa caratterizzato dal rifiuto di partecipare, dal sostegno di un cambiamento a parole ma non nei fatti, dallo scarico di responsabilità) mentre è possibile individuare molteplici strategie per riconoscere e gestire efficacemente le situazioni conflittuali. In questa direzione, la comunicazione “preventiva” risulterà efficace agendo sulla promozione della consapevolezza metacognitiva circa i diversi stili di gestione del conflitto. A questo scopo, può essere utilizzato un agile strumento come il Thomas-Kilmann Conflict Mode Instrument (1977) che individua cinque diversi stili di gestione del conflitto partendo dal presupposto che, pur avendo ognuno di noi alcune particolari “preferenze”, nessuno stile è interamente positivo o negativo ma presenta pregi e difetti a seconda delle persone con cui interagiamo e delle situazioni in cui viene usato.

Nello stile competitivo l’obiettivo è quello di vincere, indipendentemente dalle potenziali ripercussioni della strategia. È auspicabile utilizzare questo stile quando sono in gioco questioni etiche importanti o quando un soggetto è veramente certo di aver ragione, mentre gli svantaggi appartengono al suo uso improprio: se una persona utilizza frequentemente la competizione durante i conflitti, gli altri potrebbero gradualmente smettere di interagire in maniera significativa. Lo stile evitante è caratteristico delle persone che di solito cercano di ignorare la discrepanza tra i propri obiettivi e quelli degli altri. Affrontano il conflitto allontanandosi, accogliendo la strategia “seducente” e illusoria che tutto vada bene; in questa situazione il conflitto non viene risolto e l’evitamento ripetuto può peggiorare il conflitto stesso. In alcuni casi tuttavia evitare è consigliabile: se un conflitto è estremamente serio e carico emotivamente o se non c’è abbastanza tempo per affrontare un conflitto in maniera costruttiva, evitarlo temporaneamente può permettere alle persone di ottenere di nuovo un certo controllo delle loro emozioni. Lo stile accomodante caratterizza le persone che mettono da parte i loro bisogni personali per garantire che quelli degli altri vengano soddisfatti. La loro reazione al conflitto è quella di arrendersi credendo che così si possa aiutare a conservare relazioni positive. Questo stile può essere vantaggioso quando la questione è relativamente poco importante.

Gli svantaggi di essere accomodanti comprendono il rischio di avere la sensazione che gli altri possano “approfittarsene”. Lo stile di compromesso caratterizza quelle persone che si arrendono su certi punti, ma insistono che altri facciano la stessa cosa. Il punto di forza di questo stile è la rapidità per cui risulta adeguato quando è disponibile un tempo limitato per gestire un conflitto. Gli svantaggi sono legati all’intrecciarsi co
n altri stili: quando dei professionisti “competitivi” decidono di raggiungere un compromesso, entrambi possono sentirsi insoddisfatti e questo provoca un ulteriore conflitto. Infine, lo stile collaborativo presuppone la conoscenza degli elementi che caratterizzano la collaborazione. La chiave di una collaborazione efficace è riuscire a concentrarsi sul problema e non sulla persona, considerando che l’oggetto dell’interazione non è che una persona vinca e l’altra perda. Anche se questo ha molti aspetti positivi, nelle situazioni conflittuali non è sempre l’approccio da preferire poiché richiede molto tempo e qualunque forma di reale collaborazione può essere intrapresa solo quando le persone abbiano imparato a fidarsi l’una dell’altra.

Mariani presenta alcuni dispositivi il cui utilizzo legittima il carattere di formatività culturale dell’agire comunicativo: «l’interculturalità (per presidiare una problematizzazione costante delle differenze e oltrepassare un mero riconoscimento delle singole comunità); il meticciamento (valorizzando una serie di contaminazioni e di scambi che sono imposti dall’attuale multiculturalismo); l’incontro (per cogliere nell’altro un’occasione di stimolo, di conoscenza, di coscienza e di crescita interiore); il dialogo (come strumento decisivo per un rinnovamento delle identità alla luce di diritti umani e della persona); l’empatia cognitiva (che consiste nell’assumere la prospettiva dell’altro riducendo i pregiudizi nei confronti dell’outgroup); l’empatia emozionale (con la quale si induce a mettere in primo piano il benessere dell’altro sollecitando sentimenti positivi nei suoi confronti); la differenza (in quanto dimensione inarrestabile che spiazza l’unità/unicità e combatte la spirale di quelle forze di identità che ambirebbero a essere assolute, pure e impermeabili); la decostruzione (come punto apicale dell’intercultura, intesa come ambito/frontiera della comunicazione formativa(Mariani, 2012, p. 170).

A sostegno di tali dispositivi formativi è possibile individuare alcuni modelli e strategie di comunicazione efficaci. Per creare climi interattivi “caldi”, che innescano e sostengono una comunicazione “preventiva” di qualità, è necessario innanzitutto porre molta attenzione e “cura” allo spazio, all’ambiente fisico in cui le persone si incontrano. Una consuetudine ormai ampiamente diffusa è quella di lavorare “in cerchio”, per consentire il contatto oculare tra tutti i membri e favorire la circolazione libera e fluida della comunicazione. Inoltre, è preferibile poter interagire in gruppo in una stanza accogliente, con arredi gradevoli, comodamente seduti.

La gestione dello spazio fisico ed emotivo, secondo l’interpretazione ecologico-sistemica basata sui costrutti teorici elaborati da Bronfenbrenner (1986), è uno dei principali aspetti che costituiscono e condizionano la comunicazione e la relazione. A questo proposito, lo studio della prossemica permette di analizzare gli scambi comunicativi attraverso le distante fisiche. Il termine “prossemica” è stato introdotto dall’antropologo Hall nel 1963 per indicare lo studio delle relazioni di vicinanza nella comunicazione interpersonale. Hall ha osservato che la distanza sociale è correlata con la distanza fisica ed ha definito e misurato quattro “zone” interpersonali: la distanza intima (0-45 centimetri) in cui ci si abbraccia, ci si tocca e si parla sottovoce; la distanza personale (45-120 centimetri) tra amici; la distanza sociale (1,2-3,5 metri) tra conoscenti; la distanza pubblica (oltre i 3,5 metri) per le pubbliche relazioni.

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