Le nuove dipendenze comportamentali

 In @buse, N. 1 - marzo 2017, Anno 8

Nel trattare l’ampio argomento della dipendenza, negli ultimi anni, accanto alle principali forme di dipendenza legate a sostanze, sempre più si fa riferimento anche alle dipendenze cosiddette comportamentali, in cui non è implicato l’intervento di una sostanza chimica.

In queste “nuove” forme, da qui la dizione inglese “New Addiction”, normali attività come navigare in Internet, shopping, sport, sesso, lavoro ecc, possono divenire per alcune persone oggetto di dipendenza, andando a compromettere il funzionamento dell’individuo sul piano emotivo, affettivo-relazionale, cognitivo, nonché economico, al punto da creare forme di disagio clinicamente significative. Le “New Addiction”, vengono indagate, da un punto di vista clinico, soltanto da pochi anni proprio per il fatto che esse, di per se, derivano da attività lecite e accettate socialmente, ma sulle quali l’individuo perde il controllo del proprio comportamento.

Ad oggi, nonostante gli studi e l’osservazione clinica di casi che denotano una tendenza a sviluppare dipendenza, non esiste una classificazione ufficiale che permetterebbe di inquadrare queste condotte disfunzionali in precise categorie diagnostiche (Caretti, La Barbera, 2012).

Ad eccezione del disturbo da gioco d’azzardo, che nel DSM-5 è compreso nel capitolo delle dipendenze, altri comportamenti eccessivi come quelli sopra indicati non sono compresi a causa della mancanza di sufficiente letteratura. Nello specifico il DSM-5 nel capitolo “Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction” recita così: “In aggiunta ai disturbi correlati a sostanze, questo capitolo comprende anche il disturbo da gioco d’azzardo, riflettendo l’evidenza che i comportamenti legati al gioco d’azzardo riescono ad attivare sistemi di ricompensa simili a quelli attivati dalle sostanze di abuso e producono alcuni sintomi comportamentali che sembrano comparabili a quelli prodotti dai disturbi da uso di sostanze. Sono stati descritti anche altri modelli di comportamento eccessivo, come il gioco d’azzardo su Internet, ma la ricerca su questa e altre sindromi comportamentali è meno chiara. Così, gruppi di comportamenti ripetitivi, da cui il termine dipendenze comportamentali, con sottocategorie quali “dipendenza da sesso”, “dipendenza da esercizio fisico” o “dipendenza da acquisti” non sono compresi perché allo stato attuale non vi è sufficiente letteratura basata sulle evidenze per stabilire criteri diagnostici e descrizioni di decorso necessari per identificare questi comportamenti come disturbi mentali”.

Chiaramente la mancanza di criteri specifici pone delle difficoltà nell’individuazione e nella classificazione delle dipendenze comportamentali, principalmente nello stabilire un confine tra comportamenti normali e comportamenti additivi con caratteristiche patologiche. Come affermano Caretti e La Barbera (2012) a complicare il già difficile lavoro di valutazione diagnostica, si aggiunge la società attuale che tende a mascherare e a volte anche a promuovere comportamenti eccessivi, ritardando l’identificazione del disagio clinico e di conseguenza rendendolo più grave. Tra gli addetti ai lavori, è noto constatare che la maggior parte delle persone le quali giungono ad una richiesta d’aiuto clinica siano in una fase in cui la condotta di abuso si è già sviluppata da diversi anni. E frequentemente è un familiare colui che chiede aiuto, proprio perché la dipendenza è arrivata al punto da avere ripercussioni in ambito familiare, lavorativo, sociale.

Per completezza d’informazione occorre riportare la distinzione che esiste nella lingua inglese, tra i termini dependence e addiction, i quali in italiano vengono tradotti con la stessa parola. Il termine dependence indica la dipendenza fisica e chimica, con addiction si intende definire la condizione generale in cui la dipendenza psicologica spinge alla ricerca dell’oggetto o dell’attività (Guerreschi, 2005). Da questa distinzione è possibile dedurre che i due termini non necessariamente compaiono insieme, ovvero è possibile sviluppare la dipendenza da un’attività, o un oggetto senza che esso agisca dal punto di vista chimico, nel caso di addiction senza dependence. Oppure d’altra parte si può avere dipendenza fisica senza addiction (Guerreschi, 2005).

Nel presente lavoro saranno trattate le forme di nuove dipendenze comportamentali più studiate dalla letteratura scientifica e che al momento non sono comprese all’interno di un manuale diagnostico, tralasciando perciò il gioco d’azzardo patologico, già inserito, come sopra accennato, nel DSM-5. Possiamo al riguardo solo aggiungere che l’inclusione del gioco d’azzardo all’interno delle condotte patologiche, fa uscire il soggetto giocatore dalla sfera del “vizio del gioco” per inserirlo all’interno di un possibile disturbo psichico (Caretti, La Barbera, 2012). Visione credibilmente estendibile anche ad altre forme di dipendenze comportamentali.

 

Dipendenza da Tecnologie

Tra le varie forme di dipendenza comportamentale, quella che presenta più studi in letteratura è quella da Internet. Più in generale possiamo parlare della dipendenza da tecnologie, ovvero da Internet, cellulare, televisione, e-mail. È indubbio che l’avvento della tecnologia, con i suoi innegabili risvolti positivi, abbia portato con se anche radicali modifiche nelle modalità comunicative, nonché negli stili di vita con ricadute sociali ed educative non sempre migliorative. Infatti, assistiamo ad un incremento di comportamenti a rischio da parte di giovani e non, legati ad un suo utilizzo distorto o disfunzionale con conseguenti effetti psichici, a volte psicopatologici: fondamentale mantenere la distinzione tra virtuale, reale e immaginario, quando questa differenziazione si assottiglia fino a dissolversi la patologia inizia potenzialmente ad affacciarsi nella mente del soggetto.

Il problema si presenta quando Internet diventa il principale interesse nella vita di una persona, arrivando in alcuni casi ad un progressivo isolamento. La rete diventa un rifugio per non affrontare i propri disagi ed il bisogno di connettersi può lasciare spazio ad un’ossessione. La rete, in questi casi, rischia di diventare per alcune persone un mondo parallelo, un’alternativa alla realtà dove non c’è più fisicità (Tonioni F., 2011). Tenendo chiaramente conto dei limiti delle attuali conoscenze, dietro a questa forma di dipendenza si cela una soddisfazione immediata di bisogni e scopi dell’utente, che in alcuni casi possono portare a dei veri e propri disturbi (Parsi et al, 2009).

La dipendenza da Internet è stata descritta per la prima volta da Ivan Goldberg nel 1995 da lui nominata Internet Addiction Disorder (IAD). Il soggetto dipendente spende, in maniera progressiva, la maggior parte del tempo in rete, venendone completamente assorbito, con ricadute sia nella sua sfera affettiva, relazionale e famigliare che in quella lavorativa o scolastica. Kimberly Young, considerata una delle principali studiose della dipendenza da Internet, in una sua ricerca condotta nel 1996, in accordo con quanto sostenuto da Goldberg, conferma che i soggetti dipendenti fanno un uso eccessivo della rete, passando online una maggiore quantità di ore rispetto ai non-dipendenti. Ella definisce questo fenomeno come un disturbo nel controllo degli impulsi (Caretti, La Barbera, 2012), sostenendo che, mentre nelle dipendenze da sostanze spesso ci sono implicazioni mediche, nella dipendenza da Internet le conseguenze più gravi sembrano essere quelle psicol
ogiche, con conseguenti ricadute familiari, lavorative ed economiche (Cardoso, 2014). Elementi come anonimato, accessibilità, sensazione di eccitamento, sembrano fungere da facilitatore se non anche come “rinforzo” per coloro che hanno difficoltà interpersonali: quella che in origine poteva essere vissuta come una “fuga” nella rete, può trasformarsi, specialmente per gli individui psicologicamente più vulnerabili, in un amplificatore del disagio, facendo emergere, alcune volte, anche aspetti psicopatologici (Caretti, La Barbera, 2012).

La dipendenza da Internet sembra instaurarsi rapidamente, sin dai primi accessi, complice la iniziale e normale curiosità nei confronti della rete, per cui i nuovi utenti sono considerati più a rischio di sviluppare un disturbo di dipendenza. Mentre coloro che riescono a superare la prima fase di fascinazione sembrano manifestare meno attrazione nei riguardanti di Internet (Guerreschi, 2005). Considerazioni che portano con se una necessaria riflessione, ovvero: la dipendenza da Internet è una manifestazione secondaria che cela un precedente disturbo patologico sottostante, o siamo di fronte ad una dipendenza tecnologica scaturita da un abuso di Internet? La risposta potrebbe contemplare tutte e due i quesiti. Certo è che individui con disturbi di dipendenza sono sicuramente più vulnerabili rispetto alla fascinazione della rete. Ma anche persone, specialmente i più giovani, con assenza di disturbi pregressi possono sviluppare una dipendenza interattiva dallo stare giornalmente ore e ore on-line.

 

Dipendenza sessuale

Anche se la dipendenza da sesso non è inserita nel DSM-5 a causa, si afferma, di scarsa ricerca in merito ai criteri diagnostici, Goodman [1], uno dei più importanti studiosi di dipendenza sessuale, dichiara che essa sia: “una condizione nella quale una certa forma di comportamento sessuale, che può funzionare sia per produrre piacere sia per alleviare affetti dolorosi, viene attuata secondo uno schema caratterizzato da due elementi chiave: (1) la ricorrente incapacità di controllare il comportamento sessuale e (2) la persistenza del comportamento sessuale nonostante significative conseguenze dannose”.

Le conseguenze negative di tali comportamenti si riversano sul piano sociale, relazionale, emozionale, fisico, finanziario, legale e lavorativo. Queste condotte sessuali disfunzionali possono essere così riassunte:

  • masturbazione compulsiva;
  • promiscuità compulsiva;
  • eccessive richieste sessuali al partner, le quali creano problemi all’interno della relazione;
  • coinvolgimento in ambienti connessi a pratiche sessuali;
  • ricerca di materiale pornografico, chat erotiche, funzionali per espletare l’attività sessuale.

Al pari delle altre forme di dipendenza, anche nel disturbo di dipendenza sessuale, coesistono aspetti impulsivi e compulsivi. Il sesso diventa un pensiero fisso, una pulsione incontrollata, non dettata da una scelta ponderata. In particolare, l’impulsività ha un ruolo centrale soprattutto nelle fasi iniziali del processo di dipendenza: l’individuo agisce in risposta ad un impulso sessuale irrefrenabile, mosso da un piacere che deve essere soddisfatto nell’immediato. E questo indipendentemente dalle conseguenze negative che il suo comportamento può provocare sia a sé stesso che agli altri (Cardoso, 2014). La compulsività emergerebbe, invece, nelle fasi avanzate del processo, quando l’individuo si trova a fare i conti con vissuti personali fatti di sensi colpa e vergogna. (Caretti, La Barbera, 2012). Il rituale, o meglio, la coazione a ripetere nella sua ciclicità sempre uguale a se stessa comprende un iniziale euforia, che dura tanto quanto il rituale sessuale, seguita da un senso di vuoto emotivo foriero di sentimenti negativi di autosvalutazione, colmabili solo con la rimessa in atto della ricerca del piacere. Fuga che porta in se il seme dell’insoddisfazione di relazioni ‘intime’ che il soggetto non è in grado ne di gestire ne di mantenere (Cantelmi et al., 2004).

In assenza di un inquadramento nosografico ufficiale in merito alla dipendenza sessuale, risulta molto interessante la proposta dei criteri diagnostici di Cantelmi, Lambiase, Sessa (2004), i quali propongono dei criteri, facendo riferimento a quelli della dipendenza. Ai fini di una valutazione è comunque necessaria un’attenta diagnosi differenziale con patologie che presentano quadri sintomatologici parzialmente sovrapponibili.

 

Dipendenza da lavoro

La dipendenza da lavoro non va confusa con altre forme di lavoro eccessivo che tuttavia non sono sintomo di dipendenza. Risulta ovvio che normalmente tutte le persone lavorano per potersi guadagnare da vivere, molte possono investire molte energie nel lavoro per una competizione al successo e/o alla promozione di se stesse, ma al bisogno riescono comunque a stabilire i propri limiti. Nella dipendenza da lavoro, l’atteggiamento è disfunzionale, la persona ha perso completamente il controllo sulla sua attività lavorativa, è incapace di tenere conto delle conseguenze negative che derivano da un comportamento non più rispondente alla reale condizione vissuta (Guerreschi, 2005). Il discrimine sta proprio nell’impossibilità di controllarsi di darsi delle regole: ogni spazio della giornata è dedicato al lavoro. La particolarità di questo disturbo è rintracciabile nel non fare riferimento ad un oggetto di gratificazione, presente invece nelle altre dipendenze senza sostanza, ma in un’attività che richiede il compimento di uno sforzo per ottenere un prodotto, in cambio del quale viene ricevuto un corrispettivo economico o un altro tipo di appagamento (Alonso-Fernandez, 1999).

Il passaggio da comportamento normale a patologico è anche qui progressivo, in particolare vengono identificate tre fasi (Cardoso, 2014):

  • Fase iniziale: la persona pensa solo al lavoro, ed inizia un progressivo isolamento trascurando amici, familiari ed altre attività e interessi che non sono connessi alla sfera professionale.
  • Fase critica: passaggio da uso e abuso a dipendenza. La persona è totalmente coinvolta nell’attività lavorativa. I sintomi fisici, accompagnati da depressione, iniziano ad aggravarsi.
  • Fase cronica: totale dipendenza. Il soggetto lavora sempre, di notte, feriali e festivi, non smette mai. Non ci sono mai momenti di stacco: “lavorare per vivere” è stato sostituito da “vivere per lavorare”.

Al pari delle altre dipendenze, difficilmente la persona riconosce di avere un problema, è presente la negazione e conseguentemente una visione distorta della realtà. Esiste solo il lavoro, il quale diventa progressivamente un’ossessione. Il lavoratore dipendente ne ha bisogno per riempire la sua vita (Alonso-Fernandez, 1999).

Questo tipo di dipendenza comportamentale, è abbastanza recente e come per le altre forme non ha ancora trovato una definizione all’interno della classificazione ufficiale, ciò rende la diagnosi ancora più difficile. A questa difficoltà, va aggiunta una sintomatologia che facilmente può essere scambiata per semplice ed ovvio impegno lavorativo.

Segnali importanti sono l’ossessione e l’eccesso nei confronti di un duro lavoro, che porta ad un lavoro compulsivo, ad una sopraffazione nei confronti degli altri domini della vita. Spesso vengono tolte sempre più ore al sonno notturno, con sbalzi d’umore e facile irritabilità. Fattore importante è che questo eccessivo lavoro non è giustificabile n
é dal punto di vista finanziario, né da aspettative altrui, in quanto non è economicamente necessario e non è neanche richiesto dall’ambiente lavorativo. Il comportamento ossessivo del dipendente lo porta ad essere perfezionista, critico e aggressivo con i colleghi e quindi ad un progressivo isolamento da loro. Inoltre non sempre il risultato è soddisfacente, in quanto spesso il tempo viene gestito male perdendosi in dettagli irrilevanti (Cardoso, 2014).

Il dipendente da lavoro si rifugia in quell’attività che lo fa sentire adeguato, efficiente. Il lavoro è l’unico mezzo per affermare la propria identità. Per alcuni, l’unico in grado di colmare l’insicurezza in se stesso e la difficoltà ad esprimere e comunicare le proprie emozioni. L’unica maniera per dimostrare a se stessi e agli altri il proprio valore. L’unico mezzo da cui dipende la propria autostima (Cardoso, 2014). La dipendenza da lavoro permette di estraniarsi dal mondo, ma soprattutto dai rapporti affettivi e dal contatto con i propri sentimenti ed emozioni. Permette di mascherare insicurezza, vergogna, inadeguatezza tramite il controllo, l’iperattività, il perfezionismo. I dipendenti da lavoro raccontano cosa fanno per comunicare come si sentono (SIIPAC).

 

Dipendenza da sport

Lo sport ed il regolare esercizio fisico sono “abitudini salutari”, ma se portato all’eccesso, il desiderio di “essere in forma” può portare ad effetti negativi, che assumono connotati riconducibili ad una sorta di dipendenza (Caretti, La Barbera, 2012).

L’attività fisica diventa un’ossessione, totalizzante al punto da interferire con gli altri campi della vita, inoltre a volte l’impegno è condotto in modo non sicuro o non salutare, provocando anche un danneggiamento fisico. Non c’è più controllo. Le normali responsabilità quotidiane riguardo la vita lavorativa, sociale e familiare sono completamente trascurate.

Come sostengono Caretti, La Barbera (2012), il solo abuso di sport non rappresenta un sintomo che garantisce certezza in merito alla presenza di una dipendenza da esercizio fisico. Gli autori delineano alcuni segnali importanti:

  • l’aumento di tempo. L’attività fisica tende ad essere progressivamente crescente fino a compromettere ogni altra attività quotidiana;
  • il cambiamento di comportamenti e abitudini sociali. Viene impiegato sempre meno tempo per gli altri contesti di vita;
  • la propensione ad allenarsi anche se infortunati o in cattiva salute. Con forme di sovra-allenamento, in cui il corpo è sottoposto a sforzi molto intensi e ravvicinati;
  • esigenza ad allenarsi da soli. Modalità che permette di non essere osservati o criticati se ne abusano. Con tendenza a mentire riguardo le proprie abitudini di allenamento. Inoltre la presenza dei compagni potrebbe interferire con la qualità dell’allenamento;
  • ossessione dell’aspetto fisico. A volte è presente un’ossessione per il miglioramento del proprio aspetto corporeo, che può manifestarsi sia con problemi alimentari, che con un tentativo di avvicinarsi ad una linea fisica ideale.

Giova ribadire che la presenza di questi singoli segnali elencati non è un requisito che da solo può soddisfare un’individuazione del problema. Anche questa forma di dipendenza comportamentale, non è presente nei manuali diagnostici, nonostante ciò, diversi autori (Hausenblas, Downs, 2002; Caretti, La Barbera, 2012) sostengono che possa soddisfare i criteri tipici della dipendenza, quali:

  • Tolleranza: tramite l’aumento dell’esercizio per raggiungere l’effetto desiderato.
  • Astinenza: la mancanza dell’attività fisica può portare ad effetti negativi, con sintomi fisici e psicologici.
  • Prolungamento: degli allenamenti.
  • Perdita di controllo: impossibilità a ridurre l’attività fisica.
  • Tempo: grande quantità di tempo speso in attività connesse allo sport.
  • Riduzione: di altre attività importanti.
  • Perseveranza: l’allenamento continuativo nonostante un problema fisico o psicologico.

Spesso, il problema della dipendenza dall’esercizio fisico si presenta in rapporto ad altre problematiche che si manifestano insieme ad esso. In modo particolare, nelle donne, a volte si presenta associata a disturbi del comportamento alimentare, come anoressia nevosa o bulimia nervosa, dal momento che sia i problemi alimentari che la “mania” dell’allenamento si riferiscono al tentativo di controllare il peso corporeo. Mentre gli uomini mostrano una preoccupazione connessa al controllo dell’immagine corporea, i quali inseguono modelli che li inducono più facilmente a sviluppare il problema della cosiddetta “bigoressia” o “anoressia inversa”, un disturbo che rientra tra i disturbi di dismorfismo corporeo (Caretti, La Barbera, 2012).

Nella dipendenza da sport è fondamentale riuscire a capire la motivazione per cui si pratica sport, e a volte, anche la responsabilità del contesto sociale, in termini di rinforzo di questo comportamento.

La persona deve riuscire a riconoscere che quel comportamento sta diventando un problema, per poterlo poi risolvere. L’obiettivo qui non sarà un allontanamento totale dall’origine del problema, ma una ristrutturazione di un rapporto moderato e controllato con lo sport, attraverso un percorso che aiuti a stabilire una nuova relazione con l’esercizio fisico, in modo da trarne effetti positivi.

 

Dipendenza da shopping

Lo shopping ed il conseguente acquisto è spesso un premio che ci regaliamo, un momento di auto gratificazione, si compra un oggetto che esprime noi stessi e la nostra identità. A tutti capita di comprare anche cose di cui poi non abbiamo bisogno e che rischiano di rimanere inutilizzate, non sono di certo episodi d’interesse clinico. Il problema si pone quando invalida la vita sociale, familiare, finanziaria e relazionale.

La dipendenza da shopping o shopping compulsivo, si riferisce ad un quadro psicopatologico caratterizzato da preoccupazioni e impulsi irrefrenabili rivolti alla ricerca e all’acquisto eccessivo di beni spesso inutili o di un valore superiore rispetto alla propria disponibilità economica (Caretti, La Barbera, 2012). La persona, assalita da una tensione crescente, da un impulso incontrollabile ed in preda ad un’ossessione, compra per alleviare ansia e tensione, anche in quei casi in cui sono presenti difficoltà finanziarie (Cardoso, 2014).

In questa forma di dipendenza fare acquisti impegna la persona per un tempo che aumenta progressivamente, e spesso, con esso, anche il denaro speso, tanto da comportare una compromissione del normale funzionamento sociale e lavorativo. Il tutto aggravato da conseguenti problemi finanziari accompagnati da sentimenti di colpa e vergogna che invece di essere forieri di ripensamenti danno vita a comportamenti di carattere compulsivo, attestante la dipendenza sottostante (Caretti, La Barbera, 2012). Aspetto quest’ultimo interessante, perché sottolinea le caratteristiche di tolleranza, craving, incapacità a resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento ‘dovuto’. E, come spesso accade nelle dipendenze, la compulsione all’acquisto diverrà sempre più predominante. La persona consumerà progressivamente sempre più tempo e denaro nello shopping, in cerca di un’immediata gratificazione, nel tentativo di alleviare la tensione e la connessa ansia. Quel
la che inizialmente poteva essere una piacevole necessità o un semplice passatempo è diventata un’esigenza improcrastinabile, unica modalità in grado un’intensa eccitazione (Cardoso, 2014). Probabilmente è proprio l’eccitazione e la gratificazione, con la conseguente riduzione della tensione e dell’ansia, che agisce come rinforzo negativo, innescando quel meccanismo che porta a ripetere il comportamento ogni volta che si avverte l’impulso.

Alcuni studiosi ipotizzano che alla persona dipendente da shopping questa attività serva per colmare un vuoto e soprattutto per alleviare intensi sentimenti di depressione, ansia, noia (Caretti, La Barbera, 2012). In particolare, sembra esistano diversi motivi per ipotizzare che lo shopping compulsivo possa rappresentare una strategia messa in atto dalla persona per alleviare una depressione sottostante (Cardoso, 2014). Alcuni studiosi hanno rilevato che gli shopper dipendenti mostrano livelli di autostima molto più bassi rispetto ai normali acquirenti, ciò farebbe ipotizzare che per loro fare acquisti potrebbe essere un modo per aumentare la propria autostima e combattere l’umore depresso (Cardoso, 2014).

Quando il comportamento diventa molto frequente, è possibile che sentimenti di grandiosità aiutino l’individuo a credere di essere immune dagli effetti negativi, questa negazione dell’evidenza, viene utilizzata come meccanismo difensivo (Pani, Biolcati, 2006).

In riferimento all’insorgenza, spesso è in corrispondenza con la prima disponibilità di un proprio reddito, l’età media pare collocarsi nella tarda adolescenza o prima età adulta, il decorso nella maggior parte dei casi sembra essere cronico e continuo (Caretti, La Barbera, 2012).

In merito ai prodotti scelti dallo shopper compulsivo, alcuni studi segnalano che le donne comprano prevalentemente vestiti, scarpe, gioielli, cosmetici, oggetti quindi legati all’immagine esteriore; mentre gli uomini prediligono attrezzature tecnologiche e sportive e accessori per l’automobile, legate quindi all’apparenza e al potere.

Il segnale di una dipendenza, quindi, non è solo dato dalla quantità di ciò che la persona compra, quanto anche da cosa compra e perché compra. Ovvero, se sono cose che servono o se è un modo di acquistare compulsivo e incontrollato che nasconde motivazioni altre: per alcuni, per esempio, può servire a riempire un vuoto, ad altri a sentirsi potenti, ad altri ancora per dimostrare una sedicente appartenenza ad uno status.

Ulteriormente possiamo aggiungere che questa patologia non è ancora compresa appieno, difficile da classificare, soprattutto perché questo disturbo presenta alcune caratteristiche comuni con aspetti ossessivo-compulsivi, depressivi, insieme ad altri caratterizzanti la dipendenza. Interessante argomento di riflessione per la futura ricerca.

 

Dipendenza affettiva

Anche nella dipendenza affettiva, possiamo ritrovare molte caratteristiche riscontrabili nelle dipendenze in generale. Essa si differenzia però da quest’ultime, in quanto si sviluppa nei confronti di una persona, e ciò la rende ancora più difficile da riconoscere.

Giova premettere che, chiaramente, è del tutto normale che all’interno di una relazione di coppia, soprattutto durante la fase dell’innamoramento, ci sia un determinato livello di dipendenza, che tende man mano a diminuire con la stabilizzazione della relazione. Al contrario nella dipendenza affettiva permane nel tempo; il dipendente ha bisogno di “dosi”, in termini di presenza e tempo da trascorrere insieme all’altro, sempre maggiori (Guerreschi, 2011). Si tratta di una forma patologica di amore, in cui il soggetto dedica tutto sé stesso al partner, elemosinando attenzioni e continue conferme, in una sorta di sudditanza, per contrastare la propria impotenza, vuoto affettivo e disagio. Ovvio che la completa dedizione all’altro porta a ridurre la propria autonomia ed induce ad un progressivo isolamento. Si tratta solitamente di donne, evidentemente fragili e con bassa autostima, il cui partner, spesso “problematico”, ha il ruolo di salvatore, tanto da diventare il fulcro e la guida della propria esistenza. Vengono trascurate le normali attività quotidiane per poter trascorrere il tempo con l’altro, ossessionate dal pensiero di perderlo. Di perdere il proprio rifugio. Un’altra caratteristica è la paura di qualsiasi cambiamento, che li porta a soffocare i propri desideri, alla spasmodica ricerca, nell’altro, della sicurezza (Guereschi, 2011). Non sono rari i casi in cui la dipendenza è reciproca, ovvero la coppia vive di se stessa escludendosi dal resto del mondo.

Una conseguenza della dipendenza affettiva è la fusione con l’altro, la propria identità è associata a quella del partner. Questo coinvolgimento totale porta ad una gelosia eccessiva e ad un desiderio di possesso, necessari però per colmare quel vuoto e placare la paura dell’abbandono. Ma si tratta di richieste che vengono solitamente deluse: l’altro, idealizzato, non riempirà quel vuoto, non soddisferà quel bisogno d’amore probabilmente antico, spesso infantile. E così l’evitamento del rifiuto attraverso la propria totale accondiscendenza, rischia di diventare una profezia che si autoavvera. Chiaramente nella dipendenza affettiva, il così chiamato amore, non è l’amore adulto, ma sovente è la ricerca di un appiglio, a cui aggrapparsi disperatamente.

Alcuni autori spesso identificano la dipendenza affettiva con la co-dipendenza, in realtà sarebbe opportuno tenerli distinti. Il termine co-dipendenza si è evoluto da quello di co-alcolista, utilizzato in riferimento a familiari molto coinvolti o a persone eccessivamente dipendenti da un alcolista (Guerreschi, 2005). Questo tipo di relazione tende a crearsi con qualsiasi tipo di dipendenza: la persona co-dipendente, che ha un rapporto stretto con una personalità dipendente, tende spesso a sviluppare anch’essa una sua forma di dipendenza, che si esplica nel bisogno irrefrenabile di controllare e prendersi cura dell’altro (Guerreschi, 2005). Qui il co-dipendente assume l’atteggiamento del salvatore, ruolo che lo gratifica, ma che al contempo permette al dipendente, il quale gode delle cure e attenzioni dell’altro, di comportarsi da irresponsabile, boicottando i suoi tentativi di controllo. Entrambi gli attori sono dominati dalla dipendenza, fermi in una condizione che rischia di far persistere il disturbo.

 

Adolescenti e dipendenze

L’adolescenza, delicata fase della vita in cui si viene a costituire l’identità e dove si prova a conquistare l’autonomia e la consapevolezza di sé. Essa è inoltre caratterizzata da trasformazioni rispetto alla propria immagine corporea, alle relazioni con i genitori e con i pari: tutte le certezze raggiunte fino a quel momento iniziano ad essere ridefinite (Caretti, La Barbera, 2012). Questo fa si che la sua condizione psicologica possa essere particolarmente vulnerabile, facilmente esposta a condizioni di dipendenza. Rischio che nasce non solo dall’età, data dall’adolescenza, ma a questa va a sommarsi ad un panorama costituito spesso da precarietà, incertezza, obiettivi e progetti poco chiari, dove tutto appare provvisorio ed instabile. Situazione che porta a chiedere quanta percezione hanno gli adolescenti del rischio, ovvero se hanno le abilità necessarie per poterlo valutare. Nonostante che, in linea di massima, gli adolescenti sono consapevoli di essere più vulnerabili degli adulti, la letteratura scientifica asserisce che, in generale, gli adolescenti sono in grado di riconoscere che dete
rminate attività o comportamenti sono in realtà rischiosi. Consapevolezza che aumenta gradatamente con la crescita (Couyoumdjian et. al., 2011). Comunque, da analisi epidemiologiche, relative a forme di dipendenza patologica, emerge che adolescenti e giovani adulti (dai 15 ai 25 anni) risultano la popolazione maggiormente a rischio rispetto a varie forme di dipendenza (Couyoumdjian et. al., 2011). Questo dato vale sia per le dipendenze da sostanze, sia per quelle comportamentali. Quelle maggiormente rilevanti in adolescenza risultano essere la dipendenza da tecnologia, la dipendenza relazionale, assieme a quella da esercizio fisico e da shopping.

Nella dipendenza tecnologica il rischio principale per l’adolescente che trova rifugio nella rete, garantito inoltre dall’anonimato, è quello di crearsi una maschera più che un’identità, e come nell’adulto, il virtuale può sostituire il reale, portando ad un progressivo isolamento. Un isolamento oltremodo dannoso perché l’adolescente, per costruire la sua identità e la sua autonomia ha bisogno proprio di vivere il sociale, nel sociale.

Un estremo ritiro dal mondo reale è dato dal fenomeno dell’Hikikomori, molto diffuso in Giappone, da qualche tempo si sta affacciando anche da noi. Si tratta di un vero e proprio isolamento da tutto e da tutti, in cui gli adolescenti vivono segregati nelle loro stanze per mesi o addirittura anni e in cui l’unica forma di comunicazione avviene tramite il computer. Oltre alla rete, nell’adolescente assume rilevanza anche il cellulare, la cui età media di utilizzo e di possesso si è abbassata, arrivando tra gli otto e i dodici anni (Caretti, La Barbera, 2012). Gli adolescenti attribuiscono grande importanza al cellulare ormai smartphone, non lo abbandonano mai, è il principale strumento di comunicazione con gli altri, provano un estremo malessere se il cellulare non è carico, fino a raggiungere a volte aspetti/episodi ansiosi (Cardoso, 2014).

Da sottolineare che l’utilizzo costante del cellulare non è necessario, ma serve all’adolescente per entrare in relazione con l’altro, per tenere sotto controllo il compagno e per essere in continuo contatto con qualcuno. Il problema si pone quando il cellulare comporta danno scolastico, familiare o relazionale e in alcuni casi anche psicologico.

Tenere sotto controllo il compagno tramite il cellulare ci offre lo spunto per introdurre la dipendenza relazionale. In una fase della vita in cui uno dei compiti principali è proprio lo sviluppo dell’autonomia e dell’indipendenza, parlare di dipendenza relazionale è fondamentale. Chiaramente al ragazzo (ma anche all’adulto) non è richiesta una assoluta autonomia e indipendenza, dovranno essere in grado di strutturare rapporti in cui si è capaci di appoggiarsi agli altri, ma senza perdere la propria individualità. Per la formazione dell’identità la relazione con gli altri è necessaria. Un rischio possibile è che in questa fase dello sviluppo possono essere riscontrati tratti di co-dipendenza, in cui un adolescente (generalmente le ragazze) si sente attratto o stabilisce una relazione con un coetaneo con problematiche legate all’uso di sostanze, con tanto di aspirazioni salvifiche (Couyoumdjian et. al., 2011). Il rischio è che questo legame porti a trascurare i propri impegni, anche scolastici, ma soprattutto, sotto la pressione del partner, faciliti il coinvolgimento in comportamenti a rischio o all’uso di sostanze pur di non essere lasciate (Couyoumdjian et. al., 2011).

La fragilità dell’adolescente passa anche nella dipendenza da esercizio fisico. È chiaro come per gli adolescenti tra le preoccupazioni principali ci sia l’aspetto fisico. La ricerca a tutti i costi del corpo considerato ideale porta gli adolescenti ad utilizzare condotte maladattive. In particolare, sarebbero le ragazze ad avere una maggiore insoddisfazione per il proprio aspetto rispetto ai ragazzi. In riferimento alla dipendenza da esercizio fisico, le ricerche sostengono che gli adolescenti che maturano presto, sia femmine che maschi, siano quelli che più probabilmente adottano strategie per diminuire il peso e quindi risultano più a rischio dipendenza (Couyoumdjian et. al., 2011).

Anche la dipendenza da shopping è caratteristica in adolescenza. L’acquisto a questa età assume un significato particolare per ricercare la propria identità. Gli oggetti materiali sono un mezzo di identificazione e hanno la funzione di comunicare agli altri chi si è. Il comprare quindi fa acquisire all’adolescente uno status sociale di supporto a un’identità ancora incerta e da definire, esponendolo però alla dipendenza negativa dagli oggetti (Couyoumdjian et. al., 2011).

 

Conclusioni

Nelle nuove dipendenze, la mancanza di una classificazione nei manuali diagnostici sommata ad un numero limitato di strumenti di valutazione validati statisticamente, mette a dura prova la diagnosi ed il successivo intervento.

C’è poi l’aggravante se la dipendenza è la diagnosi primaria o secondaria, ovvero: la dipendenza è un fattore di rischio per un disturbo psichico, oppure il disturbo psichico diventa terreno fertile per poter sviluppare una dipendenza?

Le nuove dipendenze hanno molte caratteristiche tipiche della dipendenza. In riferimento a questo aspetto, Goodman (1998) ipotizza che tutti i disturbi da dipendenza condividano una tendenza persistente e molto forte a mettere in atto comportamenti che producano piacere, allevino gli affetti dolorosi e regolino l’autostima.

Ci auspichiamo che le ricerche future spingano per approfondire aspetti ancora non certi tra vecchie e nuove dipendenze, ma anche tra sintomatologie che inducono facilmente in errore in fase diagnostica.

Da questo breve lavoro emerge che tutte le forme di dipendenza descritte sono accomunate da parole come: tolleranza, astinenza, perdita di controllo, tempo, impulsività, compulsività, ossessione, soddisfazione immediata, isolamento, conseguenze negative. Parole chiave per poter fare una valutazione diagnostica, tenendo conto di eventuali comorbilità e di diagnosi differenziali.

Le cosiddette nuove dipendenze hanno però anche altre parole in comune: vuoto, frustrazione, alleviare affetti dolorosi, disagio, mancanza di autostima, rifugio, senso di colpa, vergogna, impotenza. Anche queste sono parole chiave, e sono anche un punto di congiunzione tra le ‘vecchie’ e ‘nuove’ dipendenze. Spesso sono quello che si cela dietro a determinati comportamenti. E così quel senso di vuoto va allontanato attraverso la continua ricerca di stimoli forti. Il piacere deve essere soddisfatto nell’immediato, non può essere rinviato, perché la persona è incapace di tollerare la frustrazione. Per alleviare affetti dolorosi, o disagio, o mancanza di autostima, la persona trova rifugio ‘ubriacandosi’ di qualcosa. Negando che la situazione è sfuggita al controllo, finché non servono ‘dosi’ sempre maggiori, e da quel piacere iniziale comincia a far capolino il senso di colpa, la vergogna, l’impotenza e probabilmente di nuovo il vuoto. E si ricomincia.

 

Bibliografia

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Sitografia

www.siipac.it

 


[1] Goodman A. (1998), La dipendenza sessuale. Un approccio integrato, Astrolabio, Roma.

 

    

   

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