Messa alla prova del minore: verso una nuova concezione del crimine e del suo autore

 In Sul Filo del Diritto, Anno 3, N. 4 - dicembre 2012

Ispirato al principio della minima offensività, l’istituto della messa alla prova rientra nell’alveo di quegli strumenti, pensati e introdotti dal legislatore unicamente nell’ambito della giustizia penale minorile, che consentono una definizione anticipata del processo penale a carico di un minore senza che venga emessa, nei suoi confronti, alcuna sentenza di condanna.

Il principio di minima offensività, che ha informato l’intera disciplina del processo minorile introdotta con il D.P.R. n. 448 del 1988, impone, infatti, che l’attività processuale a carico del minore venga iniziata o proseguita unicamente ove la stessa risulti oggettivamente necessaria ed altrimenti non evitabile.

Con l’emanazione del D.P.R. n. 444/88, il sistema processuale penale minorile è stato dotato di nuovi strumenti volti alla de-stigmatizzazione della condotta del minore autore di reato, con conseguente efficacia deflattiva delle sentenze di condanna. Tra detti strumenti, accanto all’istituto della messa alla prova, con l’introduzione del quale il legislatore sembra aver maggiormente aderito alle istanze internazionali volte all’attuazione del principio di minima offensività nel processo minorile, vi sono il perdono giudiziale, peraltro già introdotto con il codice penale Rocco del 1930, e la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto.

I tre istituti appena menzionati, la cui applicazione è esclusivamente riservata al processo penale minorile, pur essendo improntati alla stessa finalità, si differenziano sia per la natura giuridica che per le implicazioni che producono nella vita del minore.

Occorre precisare, peraltro, che nell’ambito del processo minorile, con la parola “minore” non si fa indistintamente riferimento a tutti coloro che vengono comunemente definiti come “minorenni”, atteso che tra questi ultimi non tutti possono essere sottoposti ad un processo. Per minori, infatti, devono intendersi, in questa sede, coloro che hanno compiuto i quattordici anni, e sono pertanto considerati dalla legge imputabili, ma non hanno ancora compiuto i diciotto anni di età.

 

Il perdono giudiziale e la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto

Il perdono giudiziale, disciplinato dall’art. 169 del codice penale, configura una causa estintiva del reato, concretizzandosi nella rinuncia da parte dello Stato ad irrogare la condanna che al minore sarebbe stata inflitta per aver commesso un determinato reato.

La concessione del perdono giudiziale, che può avvenire nel corso dell’udienza preliminare, ove il giudice si astenga dal disporre il rinvio a giudizio, ovvero all’esito del giudizio, ed in tal caso il giudice si asterrà dal pronunciare la condanna, è subordinata ad una serie di condizioni.

Oltre alla minore età ed alla necessaria imputabilità dell’autore del reato, infatti, l’applicazione di detta causa estintiva è limitata a coloro che abbiano commesso reati che importano una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni o una pena pecuniaria non superiore ad € 1.549, anche se congiunta a detta pena.

Conseguentemente, la concessione del perdono giudiziale presuppone una cognizione piena del merito dell’accusa ed un effettivo accertamento della colpevolezza dell’imputato e della possibilità di applicare una pena contenuta entro detti limiti.

Ai sensi dell’art. 169 c.p., inoltre, il giudice, al fine di concedere il perdono giudiziale, deve presumere che il minore si asterrà dal commettere ulteriori reati. A tale presunzione l’organo giudicante deve pervenire sulla base di quelli che sono i criteri enunciati dall’art. 133 del codice penale, il quale indica una serie di circostanze che sono dirette a stabilire, per un verso, la gravità del reato e, per altro verso, la capacità a delinquere del reo. Il giudice deve, dunque, compiere un giudizio prognostico, ed ampiamente discrezionale, sul futuro del minore e sulla possibilità che la mancata irrogazione della pena contribuisca al recupero dello stesso in termini di ragionevole prevedibilità. “Tale apprezzamento”, come sancito dalla Corte di Cassazione, «implica necessariamente l’esame oltre che della gravità del fatto e della modalità esecutiva di esso, della personalità del soggetto e del suo comportamento contemporaneo e susseguente al reato, di guisa che […] condizione essenziale per l’applicazione del perdono stesso è la ragionevole presunzione della futura buona condotta».

Benché l’ultimo comma della disposizione in esame sancisca che il perdono giudiziale non può essere concesso più di una volta, la Corte Costituzionale, intervenuta più volte sul tema, con la sentenza n. 154 del 1976 ha esteso la possibilità di concedere il beneficio ai reati commessi anteriormente alla prima sentenza di perdono, quando la pena cumulata con la precedente non superi i limiti di applicabilità del beneficio.

A conferma del carattere de-stigmatizzante dell’istituto in questione, occorre infine rilevare che le iscrizioni nel casellario giudiziale relative alla concessione del perdono, vengono conservate, prima di essere definitivamente cancellate, sino al compimento del ventunesimo anno di età.

Introdotto con il D.P.R. n. 448 del 1988, l’istituto che prevede la possibilità di emettere nei confronti del minore una sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto è espressione, anch’esso, della tendenza, ormai consolidatasi in ambito di giustizia minorile, a garantire il c.d. minimo intervento penale.

L’art. 27 del D.P.R. n. 448/1988, infatti, prevede che nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero possa richiedere al giudice l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere ove risulti la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento del minore, quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minore.

Tanto la dottrina maggioritaria, quanto la giurisprudenza della Corte Costituzionale, individuano in questo istituto una causa di non punibilità, in quanto, pur venendo meno la pretesa punitiva dello Stato, il fatto reato continua ontologicamente ad esistere. A differenza del perdono giudiziale e della messa alla prova, pertanto, l’irrilevanza del fatto non esprime una valenza depenalizzante, intervenendo unicamente sulla reazione sanzionatoria ed impedendo la punibilità del reo. Cionondimeno, lo scopo di questo istituto, al pari degli altri due, è quello di sottrarre il più celermente possibile il minore autore di reato dal circuito penale.

La norma non pone dei limiti di pena per l’applicabilità dell’istituto, limitandosi ad invocare la tenuità del fatto. Il giudizio di tenuità, pertanto, deve essere ricondotto a comportamenti di scarsa gravità, tenuto conto del fatto reato complessivamente considerato e della reazione sociale che lo stesso può provocare. La pena edittale, conseguentemente, costituisce solo uno dei parametri cui il giudice si deve riferire per valutare la tenuità del fatto, dovendosi ad essa aggiungerne altri quali la natura, le modalità e la finalità del fatto, i suoi effetti, nonché la capacità a delinquere del minore. Ne consegue che, sulla base di tali parametri, la tenuità del fatto potrà essere ravvisata anche in relazione a reati per i quali è prevista una grave pena edittale.

La seconda condizione prevista dall’art. 27 è data dall’occasionalità del comportamento. In proposito, occorre rilevare che tale condizione non deve essere valutata sulla base di un criterio cronologico e, dunque, tenendo conto della ripetizione abituale di una determinata condotta, quanto piuttosto rapportando l’occasionalità ad un criterio psicologico. Potrà, pertanto, essere valutata quale occasionale la condotta del minore che ha già commesso altri illeciti penali ove la stessa non risulti il frutto di una volontaria e consapevole scelta deviante, mentre non verrà considerato necessariamente occasionale il primo reato commesso dal minore laddove lo stesso riveli, tuttavia, una esplicita volontà di delinquere e una manifesta tendenza deviante. La pronuncia della sentenza di non luogo a procedere è stata, infine, subordinata dal legislatore alla circostanza che l’ulteriore corso del procedimento non pregiudichi le esigenze educative del minore.

Ancora una volta, pertanto, in ossequio al principio della minima offensività, viene rimarcata la finalità dell’istituto quale strumento diretto a non ledere, se non nella misura strettamente necessaria, il percorso di crescita e le esigenze educative del minore.

Questo istituto, così come si legge nella relazione al testo definitivo del D.P.R. n. 448/1988, costituisce una chiara applicazione del criterio di adeguamento del processo alle esigenze educative del minore. Tale criterio, strettamente connesso al principio di minima offensività, impone che il processo penale minorile sia adeguato alle esigenze di una personalità in piena crescita e tale da non interferire negativamente con il suo armonico sviluppo.

Alla luce di tale principio appare evidente come, davanti a fatti di lieve rilevanza e di scarso allarme sociale, la pretesa punitiva dello Stato debba arretrare a fronte del rischio che il processo si trasformi in un evento eccessivamente responsabilizzante e inutilmente demoralizzante per il minore, provocando un trauma nella formazione della sua personalità.

Per altro verso, l’istituto de quo, consentendo una rapida definizione del procedimento, fa proprie le esigenze di economia processuale e permette una riduzione del numero dei processi, consentendo alla giustizia minorile di incentrare sforzi ed attenzione su situazioni maggiormente critiche e bisognose di cura.

 

La sospensione del processo e la messa alla prova

Grande espressione di civiltà giuridica, l’istituto della messa alla prova ha segnato, con il suo ingresso nell’ordinamento processuale minorile, un’innovazione nel concetto stesso di pena. Abbandonata ormai la concezione retributiva della pena, la ratio di questo istituto prende le distanze anche dalla funzione rieducativa sancita dall’art. 27 della Costituzione, riconoscendone, in qualche modo, il superamento.

Sottesa a questo istituto, vi è infatti la presa di coscienza che la pena detentiva, di per sé, non garantisce affatto la risocializzazione ed il recupero dell’autore del reato, risultando, pertanto, socialmente ed economicamente inutile, se non addirittura dannosa per le conseguenze stigmatizzanti che inevitabilmente produce nella vita del reo.

L’ingresso della messa alla prova nel nostro ordinamento avviene con un notevole ritardo rispetto agli ordinamenti di numerosi altri paesi e riguarda, ad oggi, esclusivamente il processo minorile. Cionondimeno, questo istituto, che trae le sue origini dal modello anglosassone, ha rappresentato una vera e propria innovazione.

Il modello originario della messa alla prova, nato nel diritto e nell’esperienza applicativa anglosassone con la denominazione di probation, viene tradizionalmente fatto risalire al 1841, allorquando, nel corso di un processo che si celebrava davanti alla Corte di Boston negli Stati Uniti a carico di un mendicante, un facoltoso calzolaio dichiarò al giudice la propria personale disponibilità ad offrire al povero imputato un aiuto ed un lavoro, purché venisse sospesa la condanna. La Corte accolse con benevolenza la proposta del ricco calzolaio e volle subordinare la sospensione del processo ad una condizione: l’imputato avrebbe dovuto dimostrare di ottemperare con impegno ai suoi nuovi doveri. Il periodo di prova si concluse con successo e ciò determinò la Corte ad irrogare unicamente una multa simbolica, evitando, ed è questo l’aspetto maggiormente innovativo e rilevante dell’istituto che nacque da questa vicenda, che il mendicante finisse in prigione.

Questa esperienza fu da modello per una serie di successive vicende analoghe, tutte caratterizzate dalla volontarietà e dalla informalità, sino a quando, nel 1878, venne emanata nello stato del Massachusetts la prima legge sulla probation, il “Massachusetts Probation Act”. In seguito all’istituzione dei Tribunali per i Minorenni, il primo dei quali fu quello di Chicago nel 1899, tutti gli Stati introdussero istituti analoghi nel processo minorile.

In Europa il nuovo istituto venne recepito quasi immediatamente. In Inghilterra nel 1847 venne approvato il “Juvenile Offenders Act” che prevedeva che i giudice potesse limitarsi a rimproverare il minore riconosciuto colpevole senza, tuttavia, emettere una sentenza di condanna nei suoi confronti. Solo sessanta anni dopo, nel 1907, venne promulgata la prima legge europea specificamente dedicata al nuovo istituto, il “Probation of Offenders Act”.

Nel resto di Europa l’istituto si diffuse in particolar modo nel decennio tra il 1950 e il 1960, anche in accoglimento di istanze di livello internazionale.

La Risoluzione dei Ministri della Giustizia presso il Consiglio di Europa, la n. 1/65, raccomandava “ai Governi di assicurare che le legislazioni degli Stati membri autorizzino il giudice […] a sostituire la pronuncia limitativa della libertà […] con una misura condizionale, quando si tratta di delinquenti primari e di delinquenti che non hanno commesso reati di particolare gravità”; la stessa Risoluzione raccomandava altresì «ai Governi di intraprendere tutte le iniziative possibili per l’adozione e l’estensione di pronunce di probation o di misure simili che sono di particolare valore in questo campo e offrono il vantaggio di assicurare all’autore del reato di essere aiutato e tenuto sotto supervisione per tutto il periodo della misura, così da favorire la sua riabilitazione e controllare la sua condotta […]».

In Italia l’istituto trova applicazione per la prima volta nel 1975, grazie all’art. 47 della Legge n. 354/75, che disciplina l’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale. Tale ultimo istituto, tuttavia, è stato introdotto, ed è tutt’oggi in vigore, unicamente per i maggiorenni dopo che la condanna è stata loro già inflitta, e, dunque, nella fase di esecuzione della pena.

Per l’introduzione dell’istituto nell’ambito dell’ordinamento minorile, tuttavia, bisognerà aspettare ancora più di un decennio, con la riforma del processo minorile avvenuta nel 1988 ad opera del D.P.R. n. 448.

I diversi modelli di probation diffusisi negli altri paesi hanno dato luogo a figure simili che si caratterizzano, tuttavia, per alcune peculiarità distintive. Tutti i modelli presentano tre tratti comuni individuabili nella sospensione del processo, nell’imposizione all’autore del reato di determinati oneri e nell’affiancamento a quest’ultimo di persone o enti durante il periodo di prova. I diversi modelli si distinguono, invece, l’uno dall’altro in considerazione dei tempi e dei modi nei quali viene disposta la sospensione, la quale, in ogni caso, rappresenta l’elemento costitutivo e distintivo di tutti i modelli di probation.

Occorre rilevare che mentre le diverse forme di probation adottate nei paesi esteri attengono nella maggior parte dei casi alla fase dell’esecuzione, e finiscono per costituire, dunque, una sorta di alternativa all’espiazione della pena, l’art. 28 del D.P.R. n. 448/1988 ha introdotto una forma di probation che può essere definita processuale, intervenendo la stessa nel corso del processo e comportandone la sospensione allo scopo di consentire al giudice di valutare la personalità del minore all’esito della prova.

Ma l’elemento che sicuramente caratterizza maggiormente l’istituto della messa alla prova, dimostrandone il carattere innovativo rispetto ai modelli di probation di origine anglosassone, è dato dalla mancata previsione di un limite di pena per la sua applicabilità.

Il tratto comune alla pressoché totalità dei modelli fatti propri dagli ordinamenti degli altri stati, infatti, è dato dalla necessità che il reato per il quale viene applicato l’istituto non risulti di particolare gravità e la pena astrattamente applicabile sia, dunque, di lieve entità.

Sotto questo profilo, la messa alla prova introdotta nell’ordinamento minorile italiano rappresenta un unicum, atteso che tale requisito non è previsto dalle disposizioni che disciplinano l’istituto, il quale, pertanto, può essere applicato indipendentemente dalla tipologia del reato di cui si sia reso responsabile il minore e dalla pena astrattamente irrogabile per detto crimine.

Per comprendere a fondo la peculiarità della messa alla prova, è necessario analizzare il testo delle norme che lo disciplinano.

Ai sensi del primo comma dell’art. 28, «il giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minore all’esito della prova disposta a norma del secondo comma. Il processo è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per i reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno. Durante tale periodo è sospeso il corso della prescrizione». Il secondo comma prevede che «con l’ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato».

Il primo comma del successivo art. 29 stabilisce che «decorso il periodo di sospensione, il giudice fissa una nuova udienza nella quale dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritiene che la prova abbia dato esito positivo. Altrimenti provvede a norma degli articoli 32 e 33».

Sotto il profilo della natura giuridica, l’istituto della messa alla prova configura, in caso di esito positivo, una causa di estinzione del reato che, in quanto tale, importa il venire meno della punibilità con la conseguente rinuncia da parte dello Stato all’applicazione della pena e delle altre conseguenze penali.

Il carattere profondamente innovativo dell’istituto e la sua natura di causa estintiva del reato hanno provocato, sia in fase di approvazione della norma che nella successiva fase applicativa, notevoli dubbi di legittimità costituzionale. In particolare, si riteneva che l’introduzione di un istituto di natura sostanziale, qual è una causa estintiva, esulasse dall’oggetto della legge delega, la quale prevedeva che venissero formulate esclusivamente norme di carattere processuale. Ancora più in particolare, il Consiglio Superiore della Magistratura, nel parere sul progetto definitivo delle disposizioni sul nuovo processo minorile del luglio del 1988, avanzava riserve in merito alla conformità del nuovo istituto con l’art. 3, lett. a) della legge-delega, il quale si limitava a prevedere la possibilità di sospendere il procedimento, senza tuttavia formulare alcun riferimento ad un eventuale estinzione del reato.

Le riserve avanzate dal Consiglio Superiore della Magistratura, tuttavia, sono state diffusamente censurate dalla dottrina, la quale ha rilevato come il silenzio sul punto della lett. e) dell’art. 3 della legge delega non comporta l’illegittimità costituzionale della noma che disciplina la messa alla prova. Oltretutto, e tale orientamento non può che essere condiviso, è stato rilevato che l’estinzione del reato in caso di esito positivo della prova costituisce la logica e necessaria conseguenza del «dovere del giudice di valutare compiutamente la personalità del minore, anche ai fini dell’apprezzamento dei risultati degli interventi di sostegno», con la possibilità di sospendere il processo a tale scopo. L’apprezzamento dei risultati conseguiti dal minore nel periodo di prova, infatti, non può che importare, quale logica conseguenza, che una valutazione positiva incida sulla possibilità di dichiarare l’estinzione del reato. A conferma di quanto detto sinora, occorre rilevare che, sino ad oggi, nessuna pronuncia della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma e le numerose eccezioni formulate dai giudici, sia in sede di legittimità che di merito, sono state pressoché costantemente rigettate. Al contrario, la Corte Costituzionale, chiamata a decidere sulla legittimità della sospensione del processo anche in caso di giudizio abbreviato e di giudizio immediato, ne ha esteso l’ambito di applicazione, finendo così per confermare implicitamente la legittimità costituzionale dell’istituto della messa alla prova.

Venendo ora ad esaminare i presupposti della messa alla prova, occorre preliminarmente rilevare che il D.P.R. n. 448/1988 non stabilisce se la sospensione del processo e la conseguente messa alla prova siano subordinate alla necessità di un previo accertamento di responsabilità del minore autore di reato. In proposito, tuttavia, appare di tutta evidenza che la messa alla prova costituisce una misura penale. Con essa, infatti, il minore viene sottoposto ad una limitazione della libertà personale, attraverso l’imposizione di determinati obblighi di fare e la prescrizione di astenersi da determinate condotte, oltre alla previsione di una vigilanza sul minore da parte di un organismo di carattere penale quale il servizio sociale. Tutto ciò, si badi bene, in una fase nella quale ancora non è stata pronunciata alcuna sentenza di condanna. Orbene, ove tutto ciò fosse consentito in assenza di un preventivo accertamento di responsabilità penale del minore, si dovrebbe necessariamente sostenere che l’istituto della messa alla prova si pone in contrasto sia con i più basilari principi che ispirano il processo penale, quale quello di legalità, sia con il principio di presunzione di innocenza dettato dal secondo comma dell’art. 27 della Carta Costituzionale.

A ben vedere, tuttavia, non si viene a creare alcun contrasto, atteso che il Tribunale per i Minorenni dispone la messa alla prova solo dopo aver accertato l’esistenza di prove consistenti della colpevolezza del minore. È, infatti, pacificamente condivisa l’opinione che il giudice, al fine di poter disporre la sospensione, debba essere in possesso di elementi che siano sufficienti a non far ritenere l’accusa infondata. Anche perché, in caso contrario, l’applicazione della messa alla prova sarebbe comunque preclusa, dovendo il giudice in tale evenienza emettere altro tipo di provvedimento, quale un decreto di archiviazione, ovvero una sentenza di non luogo a procede ai sensi dell’art. 425 c.p.p.

La sospensione del processo richiede, altresì, che il minore abbia prestato il proprio consenso. Tale requisito viene considerato fondamentale per il buon esito della messa alla prova, in quanto garantisce che il minore partecipi attivamente al programma propostogli dal giudice senza percepire le prescrizioni dategli come una imposizione. In questo senso, infatti, deve interpretarsi il dettato del primo comma dell’art. 28, il quale prescrive al giudice di sentire il minore consentendogli, in mancanza di un consenso esplicito, di interpretare la volontà del minore di aderire al progetto anche sotto forma di consenso tacito. Appare evidente che il consenso del minore, quale sia la forma in cui esso viene prestato, costituisce un passaggio imprescindibile nell’applicazione dell’istituto, non potendosi plausibilmente prevedere che il minore che non acconsenta alla messa alla prova, magari negando la propria responsabilità o le ragioni della vittima, consegua, nel corso del periodo di prova, un’evoluzione in positivo della propria personalità.

Logico presupposto della necessità che il minore presti il proprio consenso è dato dall’essere il minore stesso capace di intendere e di volere. L’accertamento di tale requisito, non espressamente richiesto dalle norme in esame ma frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, si impone in primo luogo in quanto, in assenza della capacità di intendere e di volere, il minore non sarebbe imputabile e, dunque, andrebbe prosciolto. Inoltre, richiedendo la messa alla prova che il minore presti il proprio consenso al progetto propostogli, appare necessario che tale consenso sia validamente prestato, cosa che potrà verificarsi unicamente laddove si tratti di un soggetto sufficientemente consapevole e maturo.

La messa alla prova è, infine, subordinata ad una valutazione discrezionale del giudice, il quale, formulando un giudizio di tipo prognostico sulla personalità del minore e sull’opportunità di emettere il provvedimento di cui all’art. 28, dovrà valutare se sussiste la possibilità che il minore prenda le distanze dalla scelta deviante operata mediante la commissione del reato.

A tal fine, il giudice, ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. n. 448/1988, potrà acquisire «elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari sociali ed ambientali del minorenne” allo scopo di “disporre le adeguate misure penali». La giurisprudenza della Corte di Cassazione, inoltre, ha elaborato una serie di criteri cui il giudice deve avvalersi, nella sua pur ampia discrezionalità, nel formulare la valutazione sulla personalità del minore. In particolare, spetterà al giudice prendere in considerazione la tipologia di reato di cui si è reso autore il minore, nonché le sue modalità di attuazione, i precedenti penali del minore, il suo carattere il suo stile di vita ed ogni altro elemento che possa risultare utile per la formulazione che l’organo giudicante è chiamato a compiere.

Così il giudice potrà decidere di non concedere la messa alla prova laddove ritenga che il contesto ambientale in cui è inserito il minore sia talmente compromesso da non consentirne il recupero mediante l’istituto in esame. Allo stesso modo, come è avvenuto in relazione alla tristemente nota vicenda di Erika e Omar, la messa alla prova potrà essere negata quando, proprio in considerazione dei criteri sopra indicati ed in particolare per l’estrema gravità del delitto e per le spaventose modalità di esecuzione, si ritenga che si sia «creata tra gli imputati e la società una frattura, che non può essere risolta e superata nel termine di tre anni previsto dalla legge».

Occorre, tuttavia, sottolineare che nella propria valutazione il giudice, come detto, non è vincolato da limiti di pena legislativamente imposti. La messa alla prova potrà essere concessa tanto al minore che ha commesso una semplice contravvenzione quanto a quello che si è macchiato di un grave delitto, rilevando piuttosto il giudizio prognostico sulla capacità e sulle possibilità di recupero del minore. La discrezionalità del giudice, pertanto, trova un limite non già nel titolo di reato, quanto, piuttosto, nella possibilità che la prova si possa rivelare utile per il minore in considerazione della sua personalità.

Oltre a quelli sinora indicati, non vi sono altri requisiti sanciti dalla legge per l’applicazione dell’istituto della messa alla prova. Né è necessario che il minore sia privo di precedenti penali e giudiziari, dovendosi procedere, di volta in volta, ad una valutazione diversificata delle molteplici variabili che caratterizzano una personalità in via di sviluppo quale è quella di un adolescente. Conseguentemente, anche l’esito negativo di una precedente prova non preclude che il giudice possa applicare successivamente una nuova messa alla prova, potendo la stessa essere giustificata da un intervenuto cambiamento delle condizioni personali ed ambientali del minore.

Venendo ad esaminare il contenuto della messa alla prova, occorre fare riferimento all’art. 27 delle disposizioni di attuazione del D.P.R. n. 448/1988, il quale stabilisce che la decisione di sospendere il processo per mettere alla prova il minore deve essere assunta sulla base di un progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali. Tale progetto deve prevedere, anzitutto, «le modalità di coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita».

La legge attribuisce, dunque, un ruolo senza dubbio preminente ai servizi sociali per i minorenni, struttura amministrativa del Ministero della Giustizia che è chiamata ad una funzione di “mediazione giudiziaria”, nonché allo svolgimento di un’attività di raccordo tra i diversi soggetti interessati. Il buon esito della messa alla prova, infatti, è strettamente legato alla capacità dei servizi, sia giudiziari che locali, di interagire con le parti interessate e di fare interagire queste ultime tra loro, con l’ulteriore e fondamentale compito di dare un corpo all’istituto formulando uno specifico progetto di prova. Una volta predisposto il progetto, spetterà agli stessi servizi minorili, diretti referenti del giudice, in collaborazione con quelli locali, prendere in affidamento il minore ed avviare le necessarie attività di osservazione, trattamento e sostegno. Il contenuto del progetto, che si sostanzia nell’oggetto della prova, riguarda l’osservanza di specifiche condotte, relative ad una determinata l’attività lavorativa, di studio, di volontariato, sportiva, ai contatti con il servizio sociale ed al sostegno psicologico del minore. L’art. 28 prevede, altresì, che il giudice possa impartire delle prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato.

All’esito del periodo di prova, il giudice fisserà un’udienza nel corso della quale, ai sensi dell’art. 29, sarà necessario procedere a due tipi di accertamento. Il primo di essi riguarda il comportamento tenuto dal minore durante la prova. Non è necessario che lo stesso abbia pedissequamente osservato tutte le prescrizioni impostegli, quanto, piuttosto, che abbia dimostrato, con la sua condotta, una piena adesione al progetto. Sono, infatti, tollerate alcune trasgressioni, purché non gravi ed isolate. Il giudice dovrà inoltre verificare la maturazione psicologica conseguita dal minore nel corso della prova, e, solo in caso di esito positivo, verrà emessa una pronuncia di proscioglimento.

Ove, viceversa, l’esito dell’accertamento compiuto dal giudice sia negativo, ai sensi dell’art. 29, il processo proseguirà nelle sue forme ordinarie.

 

Considerazioni conclusive

L’istituto della messa alla prova, in accoglimento delle istanze formulate tanto a livello nazionale che internazionale dirette a far sì che il processo penale minorile sia finalizzato al recupero del minore autore di reato, è certamente la maggior espressione del principio di minima offensività. Anzi, la messa alla prova appare essere la vera espressione dei principi cui è stata informata la disciplina del processo minorile dettata dal legislatore del 1988. La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 125 del 1995, ha ritenuto che la messa alla prova sia l’istituto che più di ogni altro risponde alle esigenze della giustizia minorile, favorendo il reinserimento sociale del minore, nella certezza che il processo possa essere, il più delle volte, un evento demoralizzante e stigmatizzante per un adolescente.

L’istituto rispecchia un nuovo modo di interpretare il crimine ed il suo autore che, passando attraverso il superamento della concezione afflittiva e retributiva della pena, si spinge oltre, mediante la presa di consapevolezza dell’inutilità della pena detentiva ai fini della rieducazione del reo. Allo stesso tempo, l’istituto della messa alla prova, lungi dal configurare uno strumento di clemenza, riesce a coniugare, sintetizzandole, le istanze punitive con quelle educative. Il minore messo alla prova, infatti, viene responsabilizzato, riconoscendosi in lui la possibilità di una crescita e di una evoluzione positiva che lo portino a prendere le distanze dall’atto criminogeno compiuto attraverso lo svolgimento di un percorso che gli consenta di rimettersi, o di porsi per la prima volta, in rapporto con una realtà sociale sana. Nello sviluppo di una personalità in crescita il singolo atto trasgressivo non può e non deve necessariamente essere considerato quale sintomo di una scelta deviante, rendendosi necessario che al minore venga riconosciuta la possibilità di riabilitarsi da quello che, altrimenti, finisce per essere considerato quasi come una sorta di peccato originale.

Le potenzialità di questo istituto, peraltro universalmente riconosciute, si scontrano, purtroppo, con le difficoltà legate alla sua concreta applicabilità. La messa alla prova, infatti, per giungere ad esiti positivi, necessita del coinvolgimento di varie figure ed organismi esterni e della dell’effettiva sussistenza e qualità delle risorse familiari, sociali ed istituzionali che si devono mobilitare intorno ed insieme al minore. La prassi ha, infatti, dimostrato che laddove non vi siano sufficienti strutture pubbliche e private, competenze adeguate e professionalità, l’applicazione dell’istituto viene inevitabilmente compromessa. In altri casi sono le stesse condizioni sociali del minore che rendono impraticabile le messa alla prova o che, comunque, ne compromettono l’esito. Ciò si verifica tutte le volte in cui il minore non sia circondato da una famiglia presente ovvero sia proprio la famiglia a costituire, in qualche modo, la causa stessa della devianza, come avviene per i minori che crescono in realtà sociali nelle quali il crimine viene considerato uno stile di vita generalmente condiviso.

Tali variabili hanno dimostrato come vi sia un elevato rischio di insuccesso nel caso di minori stranieri, spesso privi di fissa dimora e senza un adeguato controllo familiare. Pertanto, benché le statistiche dimostrino che la maggior parte delle prove si concludono con esito positivo, con una media percentuale annua dell’ 80,3% nel decennio che va tra il 2000 e il 2010, l’istituto rischia, ad oggi, un’applicazione asimmetrica con il pericolo di una conseguente disparità di trattamento dei minori autori di reato.

Cionondimeno, appare auspicabile che il principio e le finalità sottese a questo istituto siano di ispirazione per l’introduzione di strumenti analoghi anche nel processo che si svolge a carico di imputati maggiorenni. In questo senso pare dirigersi il decreto legge denominato “svuota carceri” sulla messa alla prova e le misure alternative alla detenzione sottoposto all’esame del parlamento nel mese di dicembre dell’anno appena trascorso.

In particolare, il decreto introduce l’istituto della messa alla prova per chi si sia reso responsabile di un reato per il quale sia prevista una pena massima di quattro anni, purché non si tratti di imputato recidivo. Detto disegno di legge, tuttavia, approvato dalla Camera a larga maggioranza i primi giorni del mese di dicembre, probabilmente non vedrà purtroppo la luce in tempi stretti, attesa la decisione della conferenza dei capigruppo del Senato di escludere il disegno di legge dai provvedimenti che saranno adottati prima della fine della legislatura.

 

Bibliografia:

T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, Milano, Giuffrè, 1991.

F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Milano, Giuffrè, 1989 (2ª ediz. 1991, 3ª ediz. 2002).

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Cass., Sez. I Pen., 9 aprile 2003 – 24 aprile 2003, sent. n. 19532.

Cass., Sez. I Pen., 23 febbraio 2006, sent. n.7781.

Cass., Sez. V Pen., 7 dicembre 2007, sent. n. 4134.

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Cass., Sez. VI Pen., 19 febbraio 2009, sent. n. 14173.

Cass., Sez. II Pen., 21 maggio 2009, sent. n. 35937.

Cass., Sez. V Pen., 25 febbraio 2010 – 11 giugno 2010, sent. n. 22587.

Cass., Sez. II Pen., 23 giugno 2012 – 30 agosto 2010, sent. n. 32430.

Cass., Sez. II Pen., 13 luglio 2010 – 6 settembre 2010, n. 32692.

 

Sitografia:

Giustizia Minorile, Dipartimento per la Giustizia Minorile, La sospensione del processo e messa alla prova (art. 28 D.P.R. 448/88) Analisi Statistica – Anno 2010, www.giustiziaminorile.it/statistica/Messa_Alla_Prova_2010.pdf

 

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