Un mostro chiamato Girolimoni

 In SegnaLibro, N. 2 - giugno 2013, Anno 4
F. Sanvitale, A. Palmegiani, Un mostro chiamato Girolimoni, Sovera Edizioni, 2011

F. Sanvitale, A. Palmegiani, Un mostro chiamato Girolimoni, Sovera Edizioni, 2011

È una storia, un libro con triplice chiave di lettura quello del giornalista investigativo Fabio Sanvitale e dell’esperto di scena del crimine Armando Palmegiani. Un mostro chiamato Girolimoni, si sviluppa su tre livelli distinti ma allo stesso tempo intrecciati: c’è la narrazione, la ricostruzione storica e l’indagine investigativa. A fare da collante fra i tre aspetti, la forma dialogica adottata come strategia espositiva dai due autori, un continuo confronto interprete della voce e degli interrogativi del lettore e che, pagina dopo pagina, si arricchisce degli interventi di altri esperti. Il medico legale Giorgio Bolino che, sulla base di tre delle quattro autopsie ritrovate, spiegherà le esatte cause di morte e il modus operandi del mostro; la psicologa Chiara Camerani esperta in psicopatie sessuali che analizzerà la figura del pedofilo; il criminologo Ruggero Perugini, già capo della squadra antimostro negli anni del mostro di Firenze che traccerà il profilo reale dell’“ombra”. Figure che, con le loro competenze, integrano la lettura e la rilettura delle tracce, dei referti e dei fascicoli del caso.

Sembra di sentirle e vederle, nel rigirare tra le mani i giornali dell’epoca con quel “a morte l’assassino” urlato durante i funerali di Bianca di soli tre anni, le sette piccole vittime, di cui quattro uccise dall’ombra dopo essere state violentate. Come sembra di respirare l’aria degli anni Venti di quella Roma che non c’è più. Una Roma fatta di campi di cicoria e orti, lontana e sparita come il Ponte del Soldino, chiamato così per via del soldino che andava pagato come pedaggio, e sotto il quale venne trovato il corpo di Elsa Berni, sei anni. Una Roma di botticelle che segnano i sanpietrini, di botteghe, strilloni e camicie nere, con Mussolini che vuole dare l’idea di un’Italia invincibile e infallibile che dal 1926, in nome del “consenso” e della garanzia della sicurezza, arriverà a tacere o minimizzare le notizie sul mostro, e nella quale paura, delirio collettivo e politica si rincorrono in un crescendo di accuse, prove costruite, di giudizi e pregiudizi.

Il mostro, il “satiro immondo” elegante, con i baffi e gentile che scivolava via portando con sé le bambine e la loro ingenua fiducia, andava trovato e se non trovato, andava costruito. Ecco i sospetti, la lettura frettolosa degli indizi, la ricerca di caratteristiche che connotassero qualcosa di diverso, tratti mentali e somatici disperati e disparati che stigmatizzassero l’abominio dello stupro e dell’infanticidio. Ecco quindi Gino Girolimoni, un nome che ancora oggi è marchio di infamia e sinonimo di maniaco, un nome che, nel suo pronunciare “onomatopeicamente sinistro” come rileva il Prof Vincenzo Mastronardi nella prefazione, è già di per sé adatto a prestarsi al bisogno.

La censura fascista dura sino al maggio 1927 quando viene annunciato che la caccia all’uomo è terminata, che le prove sono schiaccianti e che l’assassino ha un nome : Gino Girolimoni.

Trentotto anni, fotografo, mediatore, Girolimoni vive persino nella zona dei delitti e ha una macchina con la quale può facilmente portar via le piccole. “Uno strano individuo” con un ricco guardaroba che ne fa un abile trasformista, amante della dissimulazione e del travestimento tanto da tagliarsi – ovviamente – anche i baffi per non essere riconosciuto. Che dire poi dei cioccolatini e delle caramelle rinvenute nelle sue tasche, strumenti fondamentali per l’adescamento…

È un marito tradito a segnalarlo alla polizia, accusandolo di attenzioni nei confronti della sua cameriera dodicenne. In realtà Girolimoni si rivolgeva alla ragazzina per consegnarle dei bigliettini destinati alla sua padrona, ma tanto basta per dare il via al linciaggio e alla distruzione morale di un uomo. Encomio per il capo della polizia e per il questore, il regime è salvo.

Nel frattempo, negli undici mesi della carcerazione di sor Gino, le testimonianze e le accuse iniziano a vacillare. I fascicoli degli omicidi continuano a passare sulla scrivania di Giuseppe Dosi, funzionario della polizia che non crede alla colpevolezza di Girolimoni, e che, rileggendo le prove e i rapporti dei sopralluoghi, individua in un sacerdote inglese molestatore di bambine, baffuto sessantenne ma atletico e giovanile, il possibile assassino. Puntualmente assolto grazie ai rapporti che Mussolini tentava di instaurare con l’Inghilterra, il pastore Ralph Lyonel Brydges, venne estradato mentre Dosi fu condotto dalla sua stessa determinazione e desiderio di giustizia al ricovero in manicomio, da cui uscì solo dopo la caduta del fascismo.

Fu comunque grazie a lui che il 1928 portò, in sordina, alla scarcerazione di sor Gino che morì nel 1961, poverissimo e mai del tutto scagionato agli occhi del tribunale popolare e della sua memoria.

 

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