Gioco d’azzardo patologico. Nuove normative per la salvaguardia della salute e del minore

 In Psico&Patologie, N. 1 - marzo 2013, Anno 4

“Una delle tendenze più antiche, universali e costanti dell’uman genere è certamente quella del gioco, il quale non è sempre un perditempo figlio dell’ozio e della noia, ma, soprattutto, nelle prime età della vita, è un modo geniale di esercitare le forze fisiche e le facoltà della mente”

Ritengo utile partire da questa citazione ripresa dai lavori preparatori del Codice di Procedura Penale del Ministro Zanardelli (1889;che pur puniva i giochi d’azzardo) e non da illustri sociologi e psicologi, proprio per  affermare che l’attività ludica ha avuto effettivamente sempre delle valenze positive riconosciute e innegabili anche negli ambienti istituzionali. Fin quando si tratta di generalizzare sull’attività di Gioco, tutti sono concordi nell’individuarne soprattutto gli aspetti positivi. L’ambiguità effettivamente nasce solo nel momento in cui il gioco si lega all’azzardo, specie quando per azzardo si intende una qualche effettiva, sostanziosa assunzione di rischio, quantificabile in beni e in denaro. Ora, l’aspetto pregnante, specie in questo periodo di recessione, è che, essendo il gioco un’attività condivisa da una pretora di utenti eterogenea e sempre più in crescita, questa diventa di fatti una fonte di entrate rilevante per l’erario dello Stato nel momento in cui colleghiamo tale fonte a scommesse in denaro. Il comportamento dello Stato ‑ non solo ovviamente quello italiano ‑ è sempre stato dettato dalla forte ambivalenza tra il proibire e il legalizzare. Il 25 febbraio del 1522, ad esempio, il Sanudo annota:

..in questa terra di Rialto non si atende ad altro ch’à meter ducati su lothi”. I premi sono diventati sempre più ricchi: tessuti pregiati, ambre, perle. Le autorità si fanno attente, si controlla che vengano messe “le robe al preciojusto” e che le estrazioni siano regolari. Questa è una delle primissime testimonianza in Italia del futuro gioco del lotto nella Serenissima Repubblica di Venezia. A Venezia non passa molto, ed appena tre giorni dopo la situazione sembra essere così fuori controllo da obbligare il Consiglio dei Dieci ad ordinare che dall’indomani nessuno possa più organizzare nuovi lotti, pena cinquecento ducati e due anni di prigione. La motivazione era che “non si può più tolerar questo nuovo zuego d’alcun zorni in qua trovato, de trazer denari da questo e da questo altro, chiamato lotho”.

Tale motivazione sembra appropriata nel garantire la tutela del patrimonio del popolo, sennonché da lì a poco e precisamente il 7 marzo, fu il governo stesso a bandire un grande lotto, mettendo in palio addirittura i gioielli dati in pegno dal duca di Milano alla Signoria. Il divieto era stato, in sostanza, la premessa al monopolio. Questa breve, ma significativa vicenda veneziana ci prospetta alcuni meccanismi ai quali siamo abituati nel guardare al rapporto complesso, spesso incerto, fra gioco pubblico e strutture statali: la continua oscillazione fra divieti, concessioni, gestioni in proprio e istanze moralistiche.

D’altra parte il problema torna periodicamente all’attenzione da secoli, sollecitando reiterati dibattiti, ma è soprattutto oggi che quest’attenzione si è andata sempre più focalizzando sull’aspetto della tutela alla salvaguardia della Salute e del minore.

L’approccio che ha aperto la strada ad una classificazione, e quindi al riconoscimento in ambito medico psichiatrico, è avvenuta di fatti solo nel 1980, quando nel DSM III (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) l’APA (American Psychiatric Association) riconosce la categoria diagnostica autonoma, “Pathological Gambling”, appartenere alla classe dei “disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove”.

Abbastanza significativo, a questo proposito, è il fatto che in un primo tempo il termine “Pathological Gambling” sia stato tradotto in italiano con “impulso patologico al gioco d’azzardo”, locuzione che sottolinea fortemente la presunta natura impulsiva del disturbo.

I criteri diagnostici del DSM III per il cosiddetto impulso patologico al gioco d’azzardo sono stati poi successivamente modificati dal punto di vista qualitativo e quantitativo nel DSM III R del 1987. Più precisamente, nel DSM del 1980 i criteri diagnostici si articolavano in tre gruppi riguardanti: l’incapacità di resistere all’impulso di giocare; i danni prodotti nell’ambito della famiglia e del lavoro, nonché gli eventuali illeciti commessi per via del gioco; l’esclusione di un Disturbo Antisociale di Personalità come causa del gioco.

Nel DSM III R, invece, venivano inseriti nove ulteriori sintomi tutti imperniati, questa volta, sui disagi del paziente, mostrando quantomeno uno spostamento di “centramento” di definizione del disturbo, dal concetto di “impulso” a quello di comportamento mal adattivo.

A questa variazione seguirà quella del DSM IV del 1994 che riconfermerà la primitiva collocazione del “Pathological Gambling” all’interno della classe dei disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove, con la variazione della scomparsa, in questa categoria, del disturbo Esplosivo Isolato e a favore dell’inserimento dei disturbi del controllo di Tricotillomania che vanno ad aggiungersi alla Cleptomania, al Disturbo Esplosivo Intermittente, alla Piromania e al Disturbo del Controllo degli Impulsi non altrimenti specificato, facenti già parte della stessa.

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