Giovani e psicopatologia del virtuale

 In @buse, N. 2 - giugno 2012, Anno 3

Nell’Indagine conoscitiva sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia, condotta da Telefono Azzurro e EURISPES [1] nel 2010, in cui vengono tracciati gli identikit del bambino e dell’adolescente di oggi, leggiamo: «I cambiamenti intervenuti a modificare i modelli sociali, la cultura e l’economia negli ultimi anni, soprattutto in relazione alla massiva presenza di nuovi strumenti tecnologici e di comunicazione, hanno in buona parte ridefinito i concetti dell’infanzia e dell’adolescenza. I mutamenti nelle strutture familiari, i rapidi avanzamenti tecnologici, la grave instabilità economica hanno influito profondamente sul modo in cui i bambini e gli adolescenti vivono, sulle sfide che si trovano ad affrontare, sul modo in cui sono accuditi, educati, aiutati a crescere, sulla speranza con cui possono guardare al futuro».

Da questo studio, realizzato con il contributo della scuola su tutto il territorio nazionale, con 3.100 studenti dai 7 ai 19 anni di età delle scuole primarie e secondarie, sono emersi elementi di grave criticità nella funzione educativa della famiglia e degli adulti significativi, talvolta tanto latitanti da concluderne che bambini ed adolescenti appaiono disorientati e sempre più soli a fronteggiare non solo la quotidianità, con le incombenze che inevitabilmente la scandiscono, ma soprattutto le pressioni e le urgenze interne che caratterizzano il percorso evolutivo.

La società adulta sembra però tendere a non assumersi pienamente la responsabilità del vuoto educativo cui spesso costringe bambini e ragazzi, in questo contesto di profondo cambiamento psicosociale, limitandosi per lo più a prendere atto dei propri – inevitabili – sensi di colpa e cercando di giustificare l’atteggiamento di distrazione frettolosa con cui spesso viene gestito il rapporto con le giovani generazioni.

Dall’indagine citata traspare con dolorosa evidenza che la solitudine dei nostri figli è strettamente connessa con il venir meno di ascolto, confidenza ed intimità all’interno del rapporto affettivo con le figure primarie, ormai caratterizzato da una diffusa difficoltà di comunicare a livello profondo con i genitori, mettendo in gioco pensieri e soprattutto emozioni, e da una sporadica se non assente condivisione di interessi ed attività:

«I bambini, ad esempio, riferiscono di raccontare ai genitori episodi relativi alla vita scolastica (72,2%), ma di rado parlano delle proprie paure (35,2%) o aspirazioni (38,2%). Gli adolescenti, invece, nel 46,5% dei casi hanno un dialogo assente (5,1%) o assai sporadico (41,4%) con i genitori. Pochissimi parlano apertamente con gli adulti di paure (27%), questioni sentimentali (12,8%) o sessualità (8,9%). […] Eppure, e qui emerge l’ambivalenza, i bambini e gli adolescenti temono più di ogni altra cosa – più delle catastrofi naturali, più della paura di ritrovarsi in condizioni di indigenza, di non trovare in futuro un lavoro oppure l’amore – di deludere i genitori».[2]

La costruzione dell’Identità, il lento processo che ci accompagna attraverso una parte consistente dell’esistenza, non può prescindere dall’essere riconosciuti dall’altro come individui, in quanto essenziale conferma di sé che l’adolescente esperisce nelle varie forme di confronto relazionale con l’adulto e che se viene meno può comportare conseguenze psicologiche anche molto gravi. Solo riconoscendo nell’esasperato individualismo e nello sfilacciamento della solidarietà, che condizionano la nostra cultura, le radici dell’odierna, profonda e dilagante crisi sociale, si potrà tentare di mettersi nuovamente in ascolto dell’Altro che alberga in noi, e trovare finalmente il tempo per ripensare, a partire dal rapporto con i nostri figli, una diversa dimensione socializzante.

I genitori, da parte loro invece, anche se non dispongono di grandi possibilità economiche, sembrano soprattutto preoccupati di colmare questo vuoto cercando di soddisfare sempre e comunque ogni desiderio materiale espresso dal figlio, in un bisogno quasi compulsivo di rispondere ad ogni costo, di esaudire – se non addirittura anticipare – le richieste avanzate da bambini e ragazzi; si tende cioè ad ‘accumulare’ beni ed oggetti che sembrano riempire, oltre allo spazio fisico, anche quello psichico e relazionale, compensando le carenze di intimità affettiva.

Ecco quindi che, attorno ai desideri dei bambini e degli adolescenti, considerati interessanti categorie di consumatori di prodotti dalle notevoli potenzialità, ruotano imponenti business economici: i mercati, soprattutto quello tecnologico, eleggono adolescenti ed anche bambini a target specifici delle loro strategie commerciali, con un’offerta, soprattutto mediatica, estremamente capillare e variegata.

D’altra parte i bambini apprendono sempre più agevolmente l’utilizzo delle nuove tecnologie, dimostrano familiarità con i nuovi mezzi di comunicazione, anche perché i computer sono divenuti parte integrante delle nostre case, dove, insieme all’utilizzo di Internet, si fruisce di cellulari, della tv digitale e satellitare, delle consolle per videogiochi, di musica e lettura in formati digitali.

«Quasi tre bambini su quattro giocano abitualmente con le consolle per videogiochi, sempre più sofisticate e con un’offerta multiprodotto. Se nel 2009, il 41,1% dei bambini di 7-11 anni non giocava con le consolle, ad un anno di distanza la quota è scesa al 25,8%. I “nativi digitali” sono quindi naturalmente votati a condividere la quotidianità con le tecnologie e rappresentano un target da conquistare e fidelizzare per chi pianifica le strategie di marketing. Accanto alla diffusione delle nuove tecnologie, del cosiddetto hardware, crescono l’attenzione e l’interesse per le modalità di socializzazione che esse supportano. È il caso del social networking e, più in particolare, del fenomeno Facebook. La rilevazione di quest’anno ci indica che l’84% dei ragazzi dai 12 ai 19 anni ha un profilo su Facebook, nel 2009 erano il 71,1%. In generale, i social network attraggono anche i bambini dai 7 agli 11 anni, che navigando su Internet li usano nel 42% dei casi». [3]

L’utilizzo delle nuove tecnologie ha come effetto un progressivo e profondo mutamento delle modalità cognitive dei ragazzi (apprendimento, memoria, pensiero, linguaggio), con la conseguente radicale trasformazione della comunicazione. Il termine ‘rivoluzione’ non è applicato in senso solo metaforico, ma l’avvento di Internet ha comportato davvero la sintonizzazione su piani di comunicazione e strumenti totalmente nuovi: l’accostamento entro un ossimoro dei due termini antitetici ‘realtà’ e ‘virtuale’ rappresenta in senso simbolico tutte le contraddizioni ed insieme la complessità creativa di questa dimensione, in cui anche il linguaggio diviene metaforico e, mutuando dalle più disparate aree semantiche i termini, poi li modella e li contamina, piegandoli alle proprie esigenze, in un processo di trasformazione continua.

Parallelamente sono cambiate le modalità di apprendimento, ormai divenute multi-processuali (multitasking), che se da un lato amplificano le potenzialità dei ragazzi sia sul piano cognitivo sia nell’esplorazione di nuovi orizzonti e strumenti futuribili, dall’altro producono uno stato di tensione ed oscillazione, una sensazione di muoversi tra infinite possibilità, una sovrabbondanza che può avere come risultato ultimo un’overdose di input, un overfilling cognitivo, capace di produrre blocchi emotivi ed il rallentamento delle funzioni mentali. I sentimenti e le emozioni, in questa perenne ricerca, rischiano sempre di essere compressi entro tali meccanismi, che paiono veicolarli seguendo percorsi spesso alternativi ed antagonisti della realtà di fatto, con la conseguente scissione e proiezione all’esterno dei contenuti profondi:

«Se il 17% dei bambini fino a 11 anni – che nel 40% dei casi naviga da solo in Internet – dichiara di preferire in Youtube filmati con scene forti, è inevitabile domandarsi che posto occuperanno e come verranno gestiti “mentalmente” dal bambino gli script di azione appresi nei videogiochi e su Internet che non sono codificabili nella vita reale (come war games e combattimenti). È sorprendente come i genitori sembrino invece ignorare completamente questi effetti a breve e a lungo termine, adottando comportamenti di acquisto dei videogiochi centrati sulla preferenza del figlio (come dichiarato dal 29% dei bambini)». [4]

Viene spontaneo chiedersi, nel quadro delineato dai ricercatori, quale sia il ruolo della scuola odierna in tale preoccupante prospettiva.

Tra gli studiosi è diffusa la convinzione che purtroppo ciò cui si assiste nell’attuazione dei programmi educativi scolastici è una sempre maggiore focalizzazione da parte dei docenti sul processo di acquisizione di informazioni e nozioni, a discapito delle emozioni e dei sentimenti, la cui espulsione dalle aule trasforma i nostri ragazzi in individui sempre più alienati dai propri contenuti interni, sempre meno compresi e riconosciuti, costretti ad essere competitivi in un apprendimento che appare quasi esclusivamente orientato all’informazione piuttosto che ad una reale formazione. La formazione di un ragazzo, la sua educazione, dovrebbe prevedere una preparazione alla vita, che senza tenere conto di emozioni e stati d’animo, non può che produrre alienazione. Purtroppo anche gli insegnanti dovrebbero essere a loro volta formati e non solo informati:

«Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita». [5]

In questa inquietante realtà quotidiana, quindi, i pericoli rintracciabili nell’utilizzo di Internet non sono pericoli isolati e svincolati da un contesto psicosociale più ampio, in cui gli adulti – genitori, nonni, insegnanti, educatori, animatori – o sembrano scarsamente capaci di protagonismo educativo, o recuperano la propria autorità solo per esercitare varie forme di ‘controllo’: dobbiamo invece chiederci che funzione svolga per gli adolescenti quella immersione nella medialità, quale spazio vuoto vada a riempire, che bisogno intimo esprima. Dovremmo insomma interrogarci sulla voragine di accudimento emotivo scoperchiata da noi adulti, quanto la nostra presenza fisica tenda a dissimulare un’assenza di contatto intimo e di condivisione:

«Il discorso sui pericoli di Internet continua ad essere centrato su pedopornografia e rischi di adescamento, mentre si sottovalutano le questioni relative alla salute mentale, allo sviluppo cognitivo, emozionale e relazionale, dimenticando quanto questi aspetti siano strettamente correlati con lo sviluppo fisico. Una delle conseguenze dirette di queste difficoltà emozionali, relazionali e dello sviluppo morale è il fenomeno del cyberbullismo, che sta iniziando a dare, nel mondo virtuale, segnali di sostanziale pervasività, proprio come accade nell’approccio face-to-face dei più giovani con gli episodi e le azioni di bullismo. […] Il trend in crescita riguarda soprattutto le prepotenze subite dai ragazzi per via telematica: al 18,1% di essi è capitato almeno una volta di scoprire, navigando in Rete, la presenza di informazioni false diffuse sul proprio conto, al 7,8% di messaggi, foto o video offensivi o minacciosi e il 5,5% è stato invece escluso intenzionalmente da gruppi online». [6]

I nostri ragazzi devono combattere non solo con l’assenza di riferimenti, col disorientamento, con l’insicurezza strutturale della nostra società, ma anche con i pregiudizi, l’ignoranza, l’egoismo del mondo dei grandi, che non sembra offrire alternative di speranza al loro futuro, ma pare sempre più costringerli e relegarli in una dimensione in cui è difficile pensare ed immaginare il futuro. Osservando i nostri figli e nipoti nel fluire della quotidianità, nelle case e nelle scuole, ai giardini, nei locali, è inevitabile constatare quanto concretamente diffuso sia il loro disagio di vivere, un’insicurezza ontologica che permea le nostre civilizzate società. Appare per sempre tramontata l’epoca degli aquiloni, degli spazi aperti, delle bambole e dei ghiaccioli.

La vita ha cambiato decisamente sapori e colori, gli scenari della crescita: negli ultimi sessant’anni abbiamo vissuto una grande trasformazione e questo cambiamento, che molti chiamano con un eccesso di ottimismo ‘progresso’, accelera sempre più i nostri ritmi, abbrevia fino all’inverosimile i tempi di reazione, di maturazione, di responsabilizzazione, ha inasprito l’attenzione e le difese verso i mille pericoli che incombono sulla collettività, portandoci a trascurare le risorse umane ed affettive. Le interazioni sociali hanno risentito inevitabilmente di questa trasformazione e della rivoluzione tecnologica, tanto che il nostro linguaggio ha subito una poderosa contaminazione lessicale, in un movimento di contrazioni, stratificazioni, neologismi, volgarizzazioni, e chi non è capace di tenersi al passo con tale cambiamento diviene immediatamente identificabile e riconoscibile, tanto evidente appare l’incapacità di decodificare le interazioni comunicative tra gli altri individui del suo gruppo di appartenenza da risultarne emarginato. Sebbene ciascuno sia alla fine libero di condividere o meno la crescente tecnologizzazione della realtà, e di utilizzarne con disinvoltura variabile gli strumenti, di fatto essi sono divenuti – ci piaccia o meno – parte integrante del nostro quotidiano, e persino nell’ostracismo ostinato ed un po’ elitario di una piccola minoranza di persone, orientate intellettualmente, si nasconde una forma di dipendenza al contrario. Chi non si sente spoglio senza cellulare o limitato senza la possibilità di scaricare la posta elettronica? Telegrammi e lettere sono ormai in disuso. Ed è sorprendente come in pochi click si possano raggiungere realtà lontanissime, compiere operazioni complesse in modo comodo ed agevole, come la nostra vita sia stata “semplificata”.

La tecnologia è entrata nella nostra ritualità quotidiana con prepotenza, tanto che non possiamo più farne a meno: torniamo a casa la sera, facciamo una pausa al lavoro, ci regaliamo un momento di relax ed accendiamo, se già non li stiamo usando per lavoro, gli oggetti del desiderio, computer molto ‘personal’, detti ‘pc’ con affettuosa abbreviazione, cellulari, televisori; non ci separiamo senza sofferenza dai nostri fedeli mezzi – GPS, ipod, ipad, iphone, e chi più ne ha più ne metta – di statica e solitaria, ma insieme dinamica e poliedrica comunicazione. Un paradosso? Solo in apparenza, poiché addensa in sé simbolicamente la complessa multiformità e la scarsa integrazione della dimensione sociale che stiamo vivendo. Adolescenti irrequieti per aver dimenticato l’ipod o il cellulare vivono come una sorta di annoiata nudità l’essere costretti a farne a meno e ad affrontare il quotidiano sprovvisti di quella ormai indispensabile strumentazione, da sentirsi ‘non a posto’, quasi la loro identità sociale ne fosse un’appendice. Lo spettacolo che si offre agli occhi di chi si pone come spettatore all’interno della metropolitana di New York, la culla per eccellenza della tecnologia, è un insieme ordinato di corpi-involucri, magari in contatto fisico, ma ciascuno accuratamente isolato nel suo guscio impenetrabile ed in perenne collegamento col virtuale: ipad, cellulari, consolle, ipod. Ognuno vive isolato nel suo ristretto spazio in mezzo agli altri.

In queste nostre evolute società, percorse da brividi di esasperazione (le guerre africane, gli indignados spagnoli, i nostrani cortei anti-TAV, le prese di posizione coraggiose delle donne arabe, le manifestazioni di piazza di quelle italiane, le recentissime guerriglie urbane londinesi), in questo nostro devastato pianeta, in cui anche gli elementi infuriano e gridano vendetta, natura non si oppone più con certezza ad artificio, realtà a virtuale, personale a sociale, passato a futuro, in un infinito continuum spazio-temporale che ci confonde e ci regala insieme un pericoloso senso d’onnipotenza.

Mentre la tecnologia, il virtuale, spalancano di fronte ai nostri sguardi lusingati ed esterrefatti la porta dell’infinito, la fede illuministica incondizionata ed ottimistica lascia irrimediabilmente il posto alla multidimensionalità, integrazione e molteplicità possibilistica, un labirinto in cui è facile perdersi, soprattutto per i giovani, gli adolescenti, che evolutivamente già si muovono su terreni paludosi, foreste inesplorate, hanno personalità non ancora emancipatesi dalla dipendenza dagli adulti, attraversate da conflitti interiori, bisognose e vulnerabili.

Dalle risposte che gli adulti saranno capaci di fornire ai giovani e da come la collettività saprà gestire questa loro fragile interiorità, dipenderà cosa questi ragazzi – ed insieme la società di cui rappresentano il futuro – diverranno.

 

Sfuggire all’invisibilità

«Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi. Adesso avvicinatevi tutti, e guardate questi visi del passato. Li avrete visti mille volte, ma non credo che li abbiate mai guardati. Non sono molto diversi da voi, vero? Stesso taglio di capelli, pieni di ormoni, come voi, invincibili, come vi sentite voi. Il mondo è la loro ostrica, pensano di essere destinati a grandi cose, come molti di voi, i loro occhi sono pieni di speranza, proprio come i vostri. Avranno atteso finché non è stato troppo tardi per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale? Perché vedete, questi ragazzi ora, sono concime per i fiori. Ma se ascoltate con attenzione, li sentirete bisbigliare il loro monito: carpe… carpe diem… cogliete l’attimo, ragazzi… rendete straordinaria la vostra vita… » [7]

L’adolescenza è un periodo delicatissimo, in cui la vita, l’esperienza, i fatti, le persone e le relazioni (oltre al nostro patrimonio genetico) decidono che tipo di persona diventeremo. È un momento denso di drammaticità e di superficialità, di passioni e controllo della logica, di dipendenza ed autoaffermazione, di assoluta incoerenza. È l’epoca del Forse-che-sì-forse-che-no, lo stato che Barrie (2004) ha voluto attribuire a Peter Pan nella sua prima versione “Peter Pan nei giardini di Kensington”, quella terra di confine tra passato e futuro, essere e non essere, desideri e paure, pulsioni e controllo, la Middle-earth (la Terra di mezzo) de “Il Signore degli Anelli” di J. R. Reuel Tolkien, popolata da elfi, maghi, uomini, umanoidi, nani, orchi, in cui si svolgono le epiche e drammatiche lotte avventurose dei protagonisti. Nel periodo adolescenziale si sviluppa un grande, drammatico conflitto per la conquista dell’autonomia, dell’Identità e di un futuro in cui ci si possa sentire a casa propria, riscattati della fatica e degli sforzi compiuti; è quel percorso che dovrebbe condurre al dispiegamento delle proprie ali, un processo che per compiersi, come afferma Peter Pan, ha necessità di poggiare sulla fiducia nelle proprie capacità, quella che gli psicologi chiamano autostima, perché tutti potrebbero volare se avessero profonda fiducia nella propria capacità di farlo, perché “avere la fede è avere le ali”.

L’adolescenza è una cruciale fase di transizione in cui anche le tensioni aggressive, la trasgressione e la sfida dell’adulto, al fine di sondare i propri e gli altrui limiti, rivestono un ruolo fondamentale nello sviluppo del rispetto di sé e dell’altro, in cui l’insicurezza che la caratterizza in maniera fisiologica può cronicizzarsi e portare verso comportamenti disfunzionali e devianti. Di che cosa, quindi, in questa nostra frenetica e farneticante società, stiamo privando i nostri ragazzi? Cosa non riusciamo a coltivare con sufficiente pazienza e dedizione nel rapporto con loro? I ragazzi sembrano materializzarsi come presenza fisica e psichica solo nelle nostre aspettative e richieste, come se il disattenderle da parte loro corrispondesse alla disconferma delle nostre capacità educative. In più siamo sempre troppo presi da noi stessi e dalle nostre ‘sfide’ quotidiane per fermarci ad ascoltarli, per aiutarli ad esprimere le loro difficoltà ed i loro sogni. Ci dibattiamo tra disattenzione e fretta ed iper-protezione, tra la superficialità e la richiesta di perfezione. Mancanza di ascolto, di attenzione, di affettività, di contatto, può produrre disastri psico-evolutivi, che aprono voragini interiori che raramente riescono ad essere colmate senza difficoltà. I nostri ragazzi rischiano quotidianamente l’invisibilità ed il vuoto. Come acutamente ha sottolineato Galimberti (2007), il disagio si sta trasformando da disagio psicologico a disagio culturale, la crisi non rappresenta più l’eccezione ma la regola della società, e questa crisi si esprime in «un cambiamento di segno del futuro: dal futuro-promessa al futuro-minaccia».

Per sconfiggere l’impotenza, la paura, il vuoto – la morte psichica – che gravano sulla quotidianità, i ragazzi spesso si lasciano scivolare in quella dimensione gruppale di amplificazione sensoriale che induce artificialmente benessere, anestetizza il dolore, trasforma le visioni in azioni, apre le porte al piacere, ci fa entrare nello sfrenato mondo dionisiaco, scandito dal ritmo selvaggio della possessione psichica. Si può cercare di sfuggire all’invisibilità, la si può sconfiggere in molti modi, divenendo protagonisti di una scena che spesso, purtroppo, si tinge di nero: i ritmi della tecno bombardanti, le sostanze, i rave party, le corse a folle velocità, i video game, i giochi di ruolo, le chat, il cybersex. Quando l’invisibilità e la negazione di riconoscimento – la negazione dell’Identità – divengono cronici allora bisogna necessariamente ricercarli altrove, rimuovendo, frustrando, proiettando e traslando i propri bisogni, creandosi alternative di fuga, per rompere la solitudine e l’angoscia del vivere. Un insegnante, Marco Lodoli, in un articolo pubblicato su La Repubblica, spiega come ci si possa sentire falliti già a quattordici, quindici anni, pedine di un gioco socioeconomico, rotelle di ingranaggi di potere che non possono essere scalfiti, invece che protagonisti della propria vita solo consumatori di merci, perché la logica imposta dalla società è quella che ‘o si è dentro, o si è fuori’, complice tutta la tv spazzatura dei reality, e per chi non ce l’ha fatta non resta altro che la condanna a rimanere per sempre spettatori. [8] Noia, solitudine e perdita di riferimenti stimolano il bisogno di comportamenti ‘border’, che attraversando pericolosamente il confine della morte, riattivino, in brevi momenti di acuta sofferenza, proprio la percezione di quel limite invalicabile, del fluire spazio-temporale, di sensazioni forti. Come avviene per la personalità borderline, che impiega atti di autolesionismo per riacquistare il controllo delle proprie emozioni e la sensazione di esistere. Una società che costringe all’invisibilità affettiva, conduce alla messa in atto di comportamenti che richiamino l’attenzione, che traggano violentemente fuori dall’anestesia e dal torpore, facendo fare un poderoso salto al di qua (e purtroppo spesso al di là) della sottile linea di demarcazione tra la vita e la morte.

 

La “realtà” del virtuale

Andrea Bencini (2005) definisce la Rete il luogo dell’ubiquità sedentaria, una dimensione liquida, immateriale, ma anche ambiziosamente sovrapposta alla realtà materiale, in cui vengono abbattute tutte le barriere, sovvertito il fluire temporale naturale, nella ricerca dell’istantaneità assoluta, che toglie realtà al tempo perché lo appiattisce e lo schiaccia, rendendolo privo di profondità, un affollarsi di informazioni e di fatti in tempo reale. Questo mondo così rigorosamente strutturato e contemporaneamente evanescente ed inafferrabile perché passibile di continua revisione, viene indifferentemente rappresentato in metafora come “rete”, “mare”, “spazio”, “libreria”, ma ciò cui additano tali rappresentazioni come significato ultimo è quello del labirinto. Ed è davvero un labirinto, anch’esso in continua trasformazione, tanto da segnare irreversibilmente una linea di demarcazione netta tra le generazioni, tra chi appare limitato dal proprio analfabetismo e chi maneggia con destrezza gli strumenti ed il linguaggio di Internet. Il virtuale diviene l’equivalente di una nuova forma di immaginazione, che scatta nell’oltre celato ed amplificato dallo schermo, che attiva emozioni arcaiche, profonde ed incontrollate, anche in chi è normalmente pacato ed equilibrato (vengono elicitate spesso emozioni collegate ad esempio alla sessualità o l’aggressività).

L’esperienza di trascorrere del tempo in collegamento ad Internet, con le sue multiformi attività di navigazione, appare connotata dalle seguenti caratteristiche:

  • una significativa limitazione della percettività sensoriale, cui corrisponde un’amplificazione dell’emotività;
  • una modalità comunicativa asincronica, che stimola vissuti proiettivi e fantasie, per certi versi paragonabile alla situazione che si crea nel setting psicoterapeutico;
  • la condizione di anonimato e la possibilità di assumere altre identità consentono di esprimere parti di sé che nella realtà possono essere nascoste o represse, e portano a considerare l’altro, più che una persona reale, come una parte del proprio mondo interno;
  • un livellamento dello status sociale degli attori;
  • l’ampliamento dei limiti spazio-temporali, con il superamento delle coordinate reali di riferimento, ed un’alterazione dello stato di coscienza vigile, esattamente come avviene nella produzione onirica;
  • una coesistenza di relazioni multiple che, come in un rito, assume il carattere di cerimonia di gruppo: i cybernauti, legati da affinità, si ‘trovano’ e ‘ritrovano’ nel cyberspazio;
  • la possibilità di mettere in atto fantasie di trasgressione;
  • una predisposizione alla dipendenza, una sorta di fenomeno di ‘possessione’, al pari di altre attività collettive ritualizzate.

Da tutto ciò si evince come lo spazio virtuale possa flettere i confini tra conscio e inconscio: la dimensione psico-esistenziale che viene a determinarsi assume caratteristiche che trascendono sensibilmente la realtà oggettiva, componendo una realtà alternativa, che si tinge di colorazioni fantastiche, oniriche, rituali, trasgressive e marcatamente proiettive. La realtà virtuale, proprio perché consente il sovvertimento dei limiti oggettivi, personali e sociali, e la realizzazione dei desideri inconsci, appare tanto più appetibile quanto più allarga il ventaglio delle possibilità individuali. In questo senso gli altri fenomeni ‘orgiastici’ del mondo moderno, come la discoteca, la partita di calcio, i concerti rock, si differenziano dalla frequentazione della Rete in quanto più assimilabili ai riti antichi, che prevedevano un setting definito e ruoli ben chiari attribuiti ai partecipanti; i fenomeni moderni appena citati assomigliano a quelli dell’antichità anche per il grande spazio concesso al corpo e all’espressione fisica delle emozioni, mentre in Internet si assiste ad una sorta di cassazione della parte corporea dell’esperienza.

Il rischio in cui si può incorrere ad immergersi in maniera acritica nel cyberspazio sembra così coincidere prevalentemente con lo smarrimento – di sé, dell’oggettività, delle relazioni sociali – e lo straniamento, in quanto allontanamento dal contatto intimo con se stessi e con l’altro: come ultimo e più grave esito di questa attività protratta, si può avere la perdita della propria identità, rimanendo alla fine prigionieri della maschera che si è creata.

 

Sfidare il vuoto

Quanti genitori hanno fatto esperienza di un adolescente che trascorre troppo tempo davanti ad un computer o una game-station? Quanti si sono sentiti impotenti e si sono posti domande sul proprio ruolo genitoriale?

L’eccessiva permanenza dei figli davanti al computer può essere un segnale di disagio, su cui è bene interrogarsi per trovare risposte da fornire ai ragazzi, ma la psicopatologia è ben riconoscibile. La IAD, Internet Addiction Disorder, presenta sintomi ben delineati: desiderio incontrollabile (craving), problemi sociali e relazionali, isolamento e ritiro autistico, difficoltà nell’attenzione e nella concentrazione, riduzione delle prestazioni, alterazioni dell’umore (irritabilità o abbassamento del tono), perdita di controllo, sintomi astinenziali.

Mark Griffith (2000) ha identificato sei livelli, caratterizzati da specifici indicatori:

1. Salienza: l’attività occupa in maniera predominante la sfera cognitiva, affettiva e comportamentale;

2. Modificazioni del tono dell’umore: l’attività può avere effetti di arousing o tranquillizzanti;

3. Tolleranza: il soggetto impegna un intervallo di tempo progressivamente più ampio;

4. Astinenza: l’allontanamento dall’attività produce una classica sindrome da astinenza;

5. Conflitti: a causa dell’attività prolungata insorgono conflitti nello svolgimento di altri compiti o nelle relazioni;

6. Recidiva: vi è una tendenza a perpetrare in maniera compulsiva l’atto con continue ricadute.

Per quel che riguarda l’epidemiologia, emerge che i soggetti più a rischio per lo sviluppo della IAD sembrerebbero avere un’età compresa tra i 15 e i 40 anni, prevalentemente uomini, ed in particolare con carenze comunicative e problematiche psicologico-relazionali preesistenti. Rappresenterebbe quindi un comportamento di evitamento, attraverso cui il soggetto elude le proprie difficoltà dedicando un tempo progressivamente sempre maggiore alle attività Internet-correlate, fino, in alcuni casi più gravi, ad estraniarsi completamente dalla vita concreta.

Ed i rischi non sono soltanto nelle aberrazioni sessuali, in quell’indulgere nella dimensione di un piacere tanto trabordante quanto dolente, come pornografia, cybersesso, o nel possibile adescamento da parte di adulti deviati, come i pedofili. Il rischio maggiore che un ragazzino può correre nella Rete è la sfida mediatica del vuoto esistenziale percepito nella realtà concreta, il perdersi nella diffrazione tentacolare delle finestre-vetrine (blog, social network, giochi di ruolo, chat), in una bulimia autodistruttiva.

L’immersione nella virtualità coincide con lo scivolamento in un mondo parallelo, che simula la vita reale, dove però ciascuno può essere ciò che vuole e può, attraverso il proprio avatar, manifestare le proprie abilità: nel non-tempo e nel non-spazio, nei luoghi paludosi del non essere (o dell’essere tutto, che è la stessa cosa), ciascun adolescente può vivere molti altri sé, la diffrazione dell’identità e la perdita del confine tra lecito ed illecito, sano e malato, benefico e distruttivo, piacere e dolore: sette, perversioni, suicidio e autolesionismo, cyberbullismo, sono solo alcune delle manifestazioni di questo smarrimento del senso della vita. Le degenerazioni mediatiche possono attivare ideazioni e comportamenti che, se diventano stili relazionali, possono facilmente tradursi in devianza e criminalità.

L’aggressività, la violenza appartengono all’adolescenza come componenti transitorie di autoaffermazione, di tutela dell’identità e come espressioni di una sessualità turbolenta ed inesplosa, insieme ad altri comportamenti di passaggio, anche rituali (la sfida, il ritiro autistico, la malinconia struggente, la paura dell’altro, il rifiuto del diverso): l’evoluzione di questi vissuti e comportamenti dipende dalla qualità educativa del contesto in cui si esplicano e dall’affettività del contenitore evolutivo che li accoglie. Se adeguatamente elaborati, gli agiti gradualmente evolvono in manifestazioni più mature e consapevoli, se invece i ragazzi non sono sufficientemente coadiuvati nell’espressione di sé e della propria emotività, o vengono sottoposti a controllo e repressione, queste modalità possono cristallizzarsi e divenire devianza:

«L’anaffettività costituisce il terreno di cultura di forme anche estreme di comportamenti devianti, i quali vanno dall’uso di droghe all’immersione in dinamiche di violenza la cui radicalità è spesso oggetto della cronaca nera. […] Spesso le forme devianti sono figlie naturali di processi di socializzazione gregaria che vede ragazzi prestarsi a modalità di devianza feroci, pur di essere accettati dal gruppo» (Acone G.).

Anche da questo punto di vista si spiega l’accanimento di molti di loro sul proprio corpo, nel fare e nel farsi male: tatuaggi, metalli conficcati dappertutto, piercing, droghe, violenza su di sé e sugli altri, la costruzione di una psiche, per così dire, artificiale. In questo senso la latitanza affettiva e formativa della famiglia e degli adulti in generale, con l’esperienza di devastante solitudine che l’accompagna, produce nei giovani un disagio psicologico ed un disadattamento che prorompono in una multiformità di espressioni sociali, e che trovano spesso la loro vetrina privilegiata proprio in quello spazio-tempo ‘altro’ rappresentato dalla Rete.

Per concludere, nell’era digitale l’intimità appare ormai uno spazio troppo angusto ed antiquato per essere di una qualche utilità, con la dominante proiezione verso l’immagine, l’esibizione, l’apparenza: the show must go on. La virtualità ospita così le tracce dell’estremo grido di dolore di giovani che hanno perso la capacità non solo del piacere e della sensorialità, del contatto intimo, rispettoso, con il proprio e l’altrui corpo, con l’interiorità, ma anche semplicemente di ‘stare dentro’ i binari della propria esistenza.

Bibliografia

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[1] EURISPES, Telefono Azzurro, Indagine conoscitiva sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia, sintesi per la stampa, anno 2010, p. 3
[2] Ibidem, p. 4
[3] Ibidem, p. 5
[4] Ibidem, p. 5
[5] Dead Poets Society (L’attimo fuggente), 1989
[6] EURISPES, Telefono Azzurro, Indagine conoscitiva sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia, cit., pp. 5-6
[7] Dead Poets Society (L’attimo fuggente), 1989. Cit.
[8] Lodoli M., I jeans a vita bassa delle quindicenni, in La Repubblica, 18 ottobre 2004

 

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