L’agito aggressivo: la gestione della situazione di crisi

 In Psico&Patologie, N. 1 - marzo 2014, Anno 5

Le precedenti riflessioni inducono a ritenere che un’adeguata modalità di approccio a situazioni di crisi non possa prescindere dalla comprensione del «senso dell’agire violento» (Ceretti, 2011, p. 6), secondo il modello criminologico proposto dallo studioso statunitense Lonnie Athens e recentemente ripreso da Ceretti e Natali (2009). Detta prospettiva teorica suggerisce una prudente interpretazione dei processi sottesi alle «esperienze sociali violente, al di là di una rigida distinzione fra normalità e psicopatologia, e tra individuo e società» (Ceretti, 2011, p. 6). L’intento è quello di superare il rigido determinismo tra malattia mentale e reato, unitamente alla logica semplificatrice che vede l’atto violento quale prodotto necessario di una società violenta, in favore della ricostruzione di «itinerari interpretativi (…) a partire dalla prospettiva di chi li ha vissuti, restituendo dei tracciati di “senso” in una certa misura intellegibili e avvicinabili» (Ceretti, 2011, p. 6). A tal proposito, l’Autore introduce il concetto di «soliloquio» con riferimento a quel dialogo ideale che il soggetto intesse con la sua «comunità-fantasma» ‑ una sorta di «parlamento interiore» costituito dagli Altri significativi ‑ che, nel Sé dell’attore violento, è composto da interlocutori sostenitori della violenza quale modalità di risoluzione dei conflitti interpersonali (Ceretti, 2011).

Recenti studi scientifici sembrano militare in favore di un siffatto modello esplicativo allorché negano l’esistenza di un nesso di causalità diretta tra disturbo mentale e condotta violenta: quest’ultima sarebbe, infatti, il risultato di una caratteristica temperamentale o di personalità preesistente al disturbo stesso, divenuta incontrollabile a causa della condizione morbosa (Biondi, 2005). Analogamente, il tradizionale paradigma sociologico ‑ polarizzato sull’identificazione delle sole componenti macrosociali nella genesi dell’agito violento e, più ampiamente, criminoso – ha dimostrato la sua insufficienza, soprattutto in relazione alla differente soglia di vulnerabilità soggettiva ai fattori ambientali potenzialmente sfavorevoli (Ponti, 1999), preconizzando la necessità di un approccio integrato, individuale e sociale, anche per la comprensione del fenomeno di cui si tratta.

L’incontro ideale con l’attore violento ‑ mediante l’analisi del percorso individuale che lo ha condotto a selezionare l’azione violenta come modalità risolutiva del conflitto in atto[11] (Ceretti, 2011) ‑ potrebbe essere così anticipato dalla fase valutativa, sede privilegiata per una ricostruzione criminogenetica e criminodinamica dell’evento delittuoso, alla fase precedente dell’acting out auto e/o eteroaggressivo. Evidentemente, ciò richiederebbe l’elaborazione di modelli teorico-interpretativi per categorie omogenee di condotte violente e, successivamente, lo sviluppo di protocolli operativi corrispondenti. Non di rado, infatti, la gestione di situazioni critiche è rimessa all’esperienza professionale dell’operatore e alle sue capacità individuali. Le significative percentuali di episodi di violenza fisica in danno di personale medico e paramedico all’interno di strutture psichiatriche ad alta sicurezza e reparti di emergenza psichiatrica, come riportato dalla letteratura internazionale, hanno richiesto l’elaborazione di modalità di intervento a breve termine in situazioni critiche ‑ c.d. short-term management (Nivoli, Lorettu & Sanna, 1999) – che potrebbero essere validamente applicate anche in contesti operativi differenti, principalmente attività di polizia: in tal caso, tuttavia, le peculiarità di settore imporrebbero una serie di necessari «aggiustamenti» del protocollo, sia sul piano operativo che deontologico. L’intento è quello di implementare le conoscenze acquisite dagli operatori di polizia nel corso della propria formazione professionale, tenendo conto dell’assenza, allo stato attuale, di un protocollo standardizzato per ciascun tipo di intervento. All’interno di una simile cornice di riferimento, l’attribuzione di significato alla condotta aggressiva potrebbe costituire un valido strumento metodologico per la predisposizione di più efficaci strategie di contenimento e di neutralizzazione sia dell’agito violento che del suo autore.

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[1] Esulano dalla presente trattazione quelle forme di aggressività (verbale, simbolica, strumentale, ecc.) con finalità costruttiva, ossia tesa a rimuovere qualsiasi ostacolo allo sviluppo dell’integrità psicofisica di un organismo vivente (Maremmani, Di Muro & Castrogiovanni, 1999).

[2] «L’intenzione di far del male è considerata come l’aspetto fondamentale per poter definire il comportamento aggressivo» (Maremmani, Di Muro & Castrogiovanni, 1999, p. 619).

[3] All’aggressività ostile Feshback contrappone quella strumentale, nella quale l’offesa altrui costituisce il mezzo per il conseguimento di una finalità che non si identifica con l’offesa stessa.

[4] Manifestazioni aggressive quali la violenza sessuale, il terrorismo o l’insulto verbale non possono essere omologate in base ad una generica nozione di offesa, posta la diversità degli effetti della condotta nonché dei processi affettivi e cognitivi in essa coinvolti (Arcuri, 2008).

[5] L’espressione è mutuata da Ceretti & Natali (2009, passim).

[6] In tali casi, «solo un’orchestrazione ottimale di attenzione, pensiero, memoria, anticipazione, assicura il successo delle attività aggressive» (Arcuri, 2008, p. 353).

[7] Dall’inglese cue, nel senso di suggestione, spunto.

[8] Dall’inglese arousal, nel senso di attivatore di una determinata condotta.

[9] In particolare, ciò contribuirebbe a dimostrare come l’uccisione intraspecifica sia condizionata dai legami (pre)esistenti tra aggressore e vittima – nel senso di appartenenza di quest’ultima alla specie umana – sebbene gli stessi possano oscillare, nel tempo e nello spazio, tra le differenti polarità amore/odio (Andreoli, 1996).

[10] Come nel caso del sequestro degli atleti israeliani da parte del gruppo terrorista palestinese “Settembre Nero” alle Olimpiadi di Monaco del 1972, in cui trovarono la morte sia gli ostaggi che i loro sequestratori.

[11] Quel «percorso di “violentizzazione” (…) scandito da quattro fasi – brutalizzazione, belligeranza, prestazione violenta e virulenza – che conduce una persona inizialmente non violenta a diventare un “pericoloso criminale”» (Ceretti, 2011, p. 7).

 

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