Mare Nostrum
L’interesse corrente per le Politiche di controllo migratorio le porta ad essere una parte fondamentale del processo di gestione della sicurezza e dell’ordine pubblico soprattutto per la situazione di anomia che si sta ripetendo in questi mesi nel Mediterraneo. Un esempio concreto è il ruolo attuale del dispositivo presente nel Canale di Sicilia cui è deputata la fase che è stata chiamata dal governo “Mare Nostrum”.
Cercherò in questo breve saggio di identificare e analizzare i modi e le forme con cui le organizzazioni coinvolte, che si occupano di ordine pubblico e più in generale di contrasto al crimine, gestiscono la situazione; quali sono i limiti e quali invece i punti di forza.
Prendere in esame questo argomento potrebbe sembrare un gesto poco originale ‑ anche se di grande attualità ‑ poiché quella dei boat people è parte di una tematica che è stata raccontata molte volte in questi anni.
Tuttavia, il mio interesse è nato, in primo luogo, a partire dalla constatazione della consistente quantità di studi in proposito, che lasciavano presagire l’opportunità di un lavoro sintetico e proficuo attorno al tema; in secondo luogo, mi è parso interessante sviluppare un discorso che, in generale, risulta essere meno trattato di quanto non appaia, e cioè il controllo sociale di larghe fasce di popolazione anche tramite l’utilizzo dei moderni sistemi biometrici di identificazione.
Gli sbarchi nel Canale di Sicilia: un effetto della globalizzazione
Il sociologo Douglas Massey ha scritto che i grandi flussi migratori tendono ad “autoespandersi”, cioè viene da pensare che «arrivino a generarsi oltre qualsiasi aspettativa e forma di controllo sia posta in essere per arginarli»(Giddens, 1999).
Ciò che non stupisce più è il fatto che gli sbarchi, anche quando raggiungono notevoli dimensioni demografiche, continuano a rappresentare, da almeno vent’anni, un’ininterrotta presenza nell’area mediterranea: ovverosia ci troviamo di fronte a una tendenza che si manifesta con un’evoluzione oscillante ma ricorrente (secondo le fonti del Ministero dell’Interno le due annate più significative in questo senso sono state il 1999, anno durante il quale le statistiche ufficiali hanno registrato 49.999 sbarchi; e il 2011 con 48.036 arrivi). In altre parole si sta parlando di un fenomeno eccezionale e straordinario ma al tempo stesso ripetitivo, nonostante abbia un andamento scostante in termini numerici.
Cosa impedisce di avere un pieno controllo su di esso?
In realtà il fenomeno degli sbarchi è talmente esteso e complesso che risulta impensabile che possa essere affrontato (e magari normalizzato) da un singolo stato-nazione. Governare le migrazioni di massa vuol dire ‘non’ considerarle come un dato di fatto, bensì come un fatto sociale globale. In altri termini sono un effetto della globalizzazione e come tale vanno gestite: cioè attraverso politiche comunitarie e interventi strutturali che coinvolgano quanti più attori possibili.
È evidente che fatti sociali globali come le migrazioni di intere masse di popolazione rientrano secondo la Risikogesellschaft (Beck, 2005) in un ambito ben definito della postmodernità (che da molte parti viene indicato come ‘società’ o ‘Sociologia del rischio’), ovverosia sono effetti di una società globale in cui vengono a mancare le certezze consolidate della tradizione, che determinano l’aumento di rischi incontrollabili e di esiti inattesi.
La tesi proposta da Beck, Giddens e Bauman, per citare solo alcuni, è che il pianeta, e in particolare l’occidente, sta attraversando una fase di trasformazione che vede le società industriali mutare in società del rischio (o della postmodernità o della seconda modernità), cui segue la perdita della capacità di controllare il proprio destino.
Che cosa sia la globalizzazione del pianeta è alla base di un discorso molto vasto – evidentemente non solo sociologico – che interessa in modo sempre più penetrante ogni ambito del vivere e del pensiero umano.
Ma è pur vero che la globalizzazione condiziona le scelte: nessuna riflessione politica può dirsi tale senza tenere conto delle cause e degli effetti che le trasformazioni in atto stanno alimentando. In altri termini qualsiasi istituzione deve oggi fare i conti con aspetti spesso imprevedibili o rischiosi.
Si pensi solamente alla caduta dei due regimi nordafricani: quello di Ben Ali in Tunisia e quello di Gheddafi in Libia. I governi di quei paesi hanno garantito, con modalità mai chiarite e mai indagate, per alcuni anni un controllo sulle coste africane che ha di fatto ridotto in modo sensibile il fenomeno degli sbarchi.
Tuttavia il governo ricerca da tempo nuovi accordi con le autorità libiche e tunisine per interrompere le partenze dei vettori dalle coste africane, ma l’attuale instabilità politica di quei paesi rende vano ogni tentativo.
Una cosa sembra certa: la mondializzazione di alcuni fenomeni macro, come la mobilità di enormi masse di persone da un continente a un altro, rende i singoli stati nazionali sempre più inadatti alla salvaguardia dell’ordine pubblico e dell’equilibrio sociale, in cui la debolezza è collegata proprio all’appartenenza ad un sistema mondo eterogeneo e mutevole.
Cambiamenti globali dei macrosistemi, come la caduta dei regimi politici, le guerre e le carestie, determinano trasformazioni delle politiche nazionali e locali. Di conseguenza, la messa in scena del rischio mondiale dà luogo a una nuova costruzione sociale della realtà (per dirla con Berger e Luckmann), che si traduce anche nella produzione di una vasta serie di provvedimenti, leggi, regolamenti, decisioni politiche molto complesse sotto il profilo giuridico.
Il quadro politico e legislativo
Le Politiche di controllo migratorio per quanto attiene gli sbarchi che violano la frontiera marittima del Canale di Sicilia, poggiano su due capisaldi normativi della UE a cui i governi nazionali italiani hanno aderito assumendosi oneri e onori: il Trattato di Shengen e la Convenzione di Dublino.
A partire dagli anni Ottanta del ‘900, con poche e sfumate differenze nei vari stati-nazione che hanno sottoscritto il Trattato di Shengen, la governance delle Politiche di controllo migratorio si è sviluppata principalmente attorno a tre punti cardine:
1) in primo luogo, per mezzo del controllo ‘esterno’ delle frontiere extra Shengen, esercitato col provvedimento amministrativo di polizia chiamato ‘respingimento’, che consiste nell’impedire l’ingresso nello spazio comune a tutti coloro che non sono in possesso di alcuni requisiti (passaporto, visto, possesso di denaro, ecc.);
2) in secondo luogo, tramite il controllo ‘interno’, cioè quello messo in atto nei confronti dello straniero che è riuscito a entrare nello spazio Shengen e vi permane senza avere i titoli per farlo; in questo caso il provvedimento di polizia adottato è detto ‘espulsione’ verso il paese d’origine (A seconda dei momenti storici e delle alternanze politiche lo status di ‘irregolare’ o ‘clandestino’ è stato sanzionato ora come illecito amministrativo, ora come contravvenzione penale);
3) infine, tramite quella che viene comunemente chiamata procedura di ‘esternalizzazione’ (Colombo, 2012), che consiste principalmente nel coinvolgimento di altri paesi, grazie a trattati o convenzioni siglate tra gli stati-nazione ‘Shengen’ e quelli di origine dei migranti, oppure da cui partono gli sbarchi; questo strumento di controllo è senza dubbio quello che negli anni si è rivelato più efficace.
Come è noto esistono alcune eccezioni a queste regole generali che riguardano per esempio i minori, oppure i richiedenti asilo politico, i rifugiati, ecc. Tuttavia queste categorie di persone mettono in luce un’altra serie di questioni e di riflessioni: chi ha diritto ad ottenere lo status di rifugiato o asilante? Quale paese deve occuparsi dei bisogni di queste persone e includerle nella società?
La risposta a questi interrogativi è apparentemente semplice: infatti uno degli obiettivi fondamentali della Convenzione di Dublino, sottoscritta anche dai governi italiani, prevede che la richiesta di asilo politico sia inoltrata e accolta esclusivamente nel primo paese di arrivo in cui lo straniero mette piede, e inoltre non possa essere avviata una seconda volta in un altro paese della UE.
Inoltre per lo Stato gli asilanti «sono persone che, trovandosi fuori dal Paese in cui hanno residenza abituale, non possono o non vogliono tornarvi per il timore di essere perseguitate per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le loro opinioni politiche. Possono richiedere asilo nel nostro Paese presentando una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato[1]».
Stando a questa definizione, praticamente il diritto di asilo dovrebbe essere concesso a tutti. Ma non è così.
In senso più esteso, quando si parla di politiche migratorie bisogna anzitutto considerare che si sta facendo riferimento a una vasta serie di provvedimenti molto eterogenei sotto il profilo politico.
Una prima considerazione riguarda il fatto che gli stati-nazione devono far fronte a tre problematiche spesso in contrasto tra loro: da una parte, gli stati devono stabilire quanti cittadini stranieri possono essere accolti sul territorio nazionale in rapporto soprattutto alla richiesta di posti di lavoro disponibili in quel momento storico (sono le c.d. ‘politiche degli ingressi’, che si concretizzano principalmente con l’individuazione anno per anno dei flussi, ovverosia delle quote).
Un secondo aspetto riguarda la necessità di gestire sul territorio nazionale la presenza degli stranieri attraverso le ‘politiche di integrazione’ che comprendono tutte le decisioni inclusive sotto il profilo giuridico, sociale, di welfare, ecc.; in altre parole i diritti e i doveri di coloro che dopo essere entrati in uno stato, vi risiedono (Colombo- Sciortino, 2004).
Infine un terzo livello ha a che fare con i doveri etici in capo ai singoli stati-nazione di salvaguardare, accogliere, prestare assistenza e dare asilo a rifugiati, profughi, richiedenti asilo politico e più in generale a tutti coloro che fuggono dalle guerre, dalle dittature o sono mossi dalla disperazione e si riversano sulle coste italiane (per esempio la Convenzione di Ginevra e la stessa Convenzione di Dublino o l’articolo 10 della Costituzione italiana).
La prima e più evidente contraddizione ha a che fare col fatto che secondo gli accordi europei e le norme vigenti i migranti che non hanno i requisiti per entrare nello spazio Shengen andrebbero respinti, cioè nel caso specifico riportati sulle coste libiche o tunisine (ad eccezione dei minori); ma nella quasi totalità dei casi si tratta di persone che godono dello status di ‘richiedenti asilo’ quindi protette dagli accori internazionali come la Convenzione di Ginevra; inoltre non avendo il passaporto, non possono essere rimpatriati perché non si conosce la loro identità né provenienza.
La mission di Mare Nostrum, il ruolo della Polizia di Stato
La condizione di anomia nell’area mediterranea oggi è così vasta che tende in maniera sempre più evidente a sfuggire al controllo. Cercare di bloccare una simile sequenza di eventi deve essere compito di una comunità di stati più ampia possibile.
La mission di Mare Nostrum è quella che in modo sintetico ma efficace viene indicata nel sito web della Marina Militare italiana[2]: «[…] garantire la salvaguardia della vita in mare; assicurare alla giustizia tutti coloro i quali lucrano sul traffico illegale di migranti»; che coincide per altro con quanto detto dal Ministro Alfano nella conferenza stampa di presentazione del 18 ottobre 2013: «Abbiamo tre livelli per affrontare i flussi migratori: il primo è la cooperazione internazionale tendente a fare di tutto perché non partano le navi dei mercanti di morte; il secondo è il controllo della frontiera che è europea e non solo italiana; il terzo è l’accoglienza e il dispiegarsi del dispositivo nazionale. Da settimane e mesi diamo il meglio a livello nazionale, stiamo facendo un discorso molto duro e chiaro con l’Europa, questa sera abbiamo puntato sul livello di protezione della frontiera».
Questi sono sinteticamente i punti di forza dell’operazione. Ma quali sono i difetti?
Va detto che con l’avvio della fase operativa di Mare Nostrum, il numero accertato dei naufragi sembrerebbe essere diminuito sensibilmente; e questo è un importante obbiettivo conseguito.
Tuttavia l’enorme dispositivo militare messo in campo, almeno fino ad oggi, non ha avuto alcun effetto deterrente nei confronti del numero di vettori che prendono il mare dalle coste libiche, tunisine, algerine, egiziane.
Fonti ufficiali di Frontex (l’Agenzia internazionale per il coordinamento del pattugliamento delle frontiere esterne degli Stati della UE) parlano di un aumento dell’823% (circa 25.000 persone) degli arrivi di migranti verso l’Italia rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Inoltre l’operazione risulta molto onerosa (il Ministro della Difesa Pinotti ha parlato di nove milioni di euro al mese, ma si stima che i costi complessivi siano molto superiori, considerando anche che insieme al dispositivo militare si deve poi gestire l’accoglienza nei centri di permanenza e dare seguito a tutte le istanze di asilo politico, tema quest’ultimo in cui il paese non ha mai dato un’immagine molto edificante di sé, tant’è che esistono numerose procedure di infrazione da parte della UE).
L’assenza di sostegno logistico e economico da parte della UE è un altro elemento richiamato da più parti dal governo italiano, ma proprio in questi giorni l’Agenzia Frontex tramite il portavoce del commissario UE Malmstrom ha ribadito che non è consentita una riserva di fondi extra perché non è prevista dalle procedure sottoscritte.
L’identificazione di polizia tramite il sistema ‘Eurodac’
Quando nel 1892 l’Istituto di Sociologia Urbana fondato da Albion Small, noto ai più come Scuola di Chicago, iniziò la sua fruttuosa attività di analisi della devianza e del crimine urbano (soprattutto grazie ai successivi contributi di William Thomas, Park e Burgess), l’identificazione forense tramite le impronte digitali, fece il suo esordio, dimostrandosi – da subito – un fattore tanto controverso quanto fondamentale nelle politiche di controllo sociale.
Nel medesimo anno, il Governo degli Stati Uniti d’America, inaugurò presso il Castle Garden Immigration Depot di Ellis Island, al largo delle coste della città di New York, la più imponente struttura per il controllo dei flussi migratori che la storia umana abbia mai conosciuto. Nel 1902, il New York Civil Service Commission, adottò sistematicamente l’uso della classifica delle impronte digitali a Ellis Island.
L’antropometria non è quindi una nuova conoscenza, così come non è recente il suo utilizzo ai fini della sicurezza e della giustizia; è piuttosto l’esempio di una conoscenza applicata, che utilizza la tecnologia (anche sotto il profilo simbolico) per scopi identificativi. Infatti, nella modernità, per “identificazione” si intende sempre più spesso il medium attraverso cui essa è concepita, quindi va considerata anche come un fenomeno sociale e politico contestualizzato.
Uno degli ambiti di applicazione della dattiloscopia preventivariguarda il “controllo sociale”, cioè un insieme di norme poste in essere estendendo l’utilizzo di un dato biometrico a intere categorie di persone (ad esempio agli stranieri attraverso la Legge 189/2002; oppure si pensi ai sistemi di protezione per l’accesso a luoghi sensibili come istituti di credito, uffici, ecc., o ancora alla possibilità di dotare i documenti di riconoscimento di un dato biometrico per impedirne la falsificazione o la sostituzione).
Sotto il profilo normativo e giuridico quella dei i boat people italiani risulta una condizione piuttosto difficile da descrivere.
Tecnicamente si tratta di persone che per ragioni umanitarie (richiedenti asilo politico in fuga da paesi in guerra o rifugiati), attraversano illegalmente una frontiera che separa lo spazio Shengen da un paese non appartenente all’area Shengen. Quindi persone prive di documenti che entrano in Europa non avendo i requisiti per farlo; ma essendo richiedenti asilo il loro status non permette di adottare provvedimenti di respingimento o espulsione; inoltre di loro si sa solamente che sono partiti dalle coste africane ma se ne ignora l’esatta provenienza e l’identità.
Insieme alla richiesta di asilo politico cominciano poi tutte le procedure amministrative – tra cui l’accertamento dell’identità dattiloscopica – che sono compiute dalle varie prefetture con l’impiego di personale del Dipartimento Pubblica Sicurezza, principalmente nelle sue articolazioni che riguardano la Direzione Centrale dell’Immigrazione, la Polizia di Frontiera, e la Polizia Scientifica per quanto concerne l’accertamento dell’identità degli stranieri.
In ogni società moderna, organizzata secondo un ordinamento giuridico, l’identificazione personale (intesa come l’insieme dei dati necessari e sufficienti che permettono di individuare e riconoscere, specie dal punto di vista burocratico e anagrafico, la persona) corrisponde all’identificazione giuridico-amministrativa, e quindi all’assegnazione delle generalità personali (Intini-Picozzi, 2009); l’identità certa di una persona può essere rilevata solo attraverso il rilievo di caratteri somatici immutabili; ovverosia associando alle generalità di una persona un dato biometrico che le appartiene.
Come già spiegato altrove[3] esiste una serie di prescrizioni riguardanti le leggi o gli articoli di legge mirati al controllo dell’identità intesa essenzialmente come “potere-dovere” dell’Autorità (Giudiziaria o di Pubblica Sicurezza) di individuazione-riconoscimento di una persona: vale a dire attribuire ad ella le «esatte e complete generalità anagrafiche» (Intini, 2003); in cui la dattiloscopia forense preventiva «cura, pertanto, l’elencazione e l’aggiornamento dei cosiddetti elenchi dei precedenti dattiloscopici, funzionali a molteplici attività di Polizia e, più in generale, di Giustizia» (Intini-Picozzi, 2009).
L’Identificazione “Eurodac” (Regolamento CE n. 2725/2000) dei paesi aderenti al Trattato di Schengen è contemplata nell’ordinamento giuridico italiano proprio per la gestione a livello europeo delle richieste di asilo politico (Convenzione di Dublino), e consiste nell’accertare l’identità dattiloscopica tramite un sistema biometrico che ha un database condiviso dai paesi aderenti al Trattato di Shengen, pertanto le richieste di asilo politico possono essere inoltrate esclusivamente in uno solo degli stati-nazione firmatari.
L’identità preventiva è quindi in questo caso intesa essenzialmente come “potere” di individuazione-riconoscimento di una persona, vale a dire «attribuire ad essa le esatte e complete generalità anagrafiche» (Intini, 2003).
In altri termini essa serve nell’ambito previsto dalla Convenzione di Dublino all’accertamento dell’identità dattiloscopica per scopi amministrativi, indipendentemente dalla commissione di un reato, principalmente per stabilire quale stato-nazione della UE debba accogliere la richiesta di asilo.
Bibliografia
Bauman Z. (2000), La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano.
Beck U. (2005), La società del rischio Verso una seconda modernità, Carocci, Roma.
Colombo A. – Sciortino G. (2004), Gli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna.
Colombo A (2012), Fuori controllo?, Il Mulino, Bologna.
Giddens A. (1999), Il mondo che cambia, Il Mulino, Bologna.
Giddens A. (2006), Fondamenti di sociologia, Il Mulino, Bologna.
Intini A.–Picozzi M. (2009), Scienze forensi. Teoria e prassi dell’investigazione scientifica, Utet, Torino.
Loubet Del Bayle J. (2008), Polizia e politica. Un approccio sociologico, L’Harmattan Italia, Torino.
Stiglitz J.E. (2002), La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino.
Sitografia
www.poliziadistato.it
www.marina.difesa.it
www.interno.gov.it
[1] www.interno.gov.it
[2] www.marina.difesa.it [3] www.onap-profilig.org