Vittime di reato e individuazione fisiognomica

 In ScienzeForensi, N. 2 - giugno 2013, Anno 4

Vittime di reato e riconoscimento del reo

In ogni società moderna, organizzata secondo un ordinamento giuridico, l’identificazione personale corrisponde all’identificazione giuridico-amministrativa e quindi all’assegnazione delle generalità personali (Intini-Picozzi, 2009, 330).

Si pensi agli articoli 66 e 68 del codice penale nel nostro ordinamento giuridico. Nel primo caso (art. 66 co 2), si legge: «L’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di alcun atto da parte dell’autorità procedente, quando sia certa l’identità fisica della persona». Ma l’articolo 68 recita: «Se risulta l’errore di persona, in ogni stato e grado del processo il giudice, sentiti il pubblico ministero e il difensore, pronuncia sentenza a norma dell’art. 129 (Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità)».

È naturale che l’identificazione dell’autore di un reato debba essere supportata da prove. Capita che la prova scientifica, da sola, non sia sufficiente a stabilire la realtà giudiziaria dei fatti, oppure accade che la prova scientifica non sia proprio presente negli atti d’indagine. Inoltre, non va mai dimenticato che la verità processuale è sempre una sintesi sistemica e “multi-causale”.

La vittima diventa in questo modo, suo malgrado, una fonte primaria d’informazioni che tuttavia esigono di essere avvalorate in modo imparziale e connotate di attendibilità, affinché possano essere utilizzate come prove. Ecco che il binomio criminale-vittima – tanto caro ai vittimologi fin da von Henting   diviene una sorta di dimensione privilegiata (e a volte unica) per la soluzione del caso.

In tutti i casi in cui sia assente la prova scientifica negli atti processuali (casi che sono la maggioranza) non è sbagliato parlare di “paradigma indiziario”; in essi risulta dominante la circostanza del “riconoscimento mnemonico” da parte dei testimoni siano essi vittime o meno, e riguarda tutte quelle ipotesi in cui l’autore del reato sia sconosciuto (la certezza che è proprio quella determinata persona e non un’altra a aver compiuto il reato).

Naturalmente in questo contesto parlare di “individuazione” del reo e di “riconoscimento” da parte della vittima fa riferimento al ruolo che ella assume nell’ambito dell’indagine di polizia giudiziaria, cioè all’aspetto più tecnico e direttamente osservabile (il riconoscimento tramite una fotosegnaletica). In altri termini situare la vittima all’interno della criminalistica anziché della vittimologia o della psicologia sociale significa conferirle scopi e compiti direttamente collegati alle ricerche e all’investigazione di polizia e non altri.

Significa cioè porla in un ambito di “interventi di situazione” ma non do “problema”. Per la legge italiana il riconoscimento e l’individuazione del reo da parte dei testi è un atto d’indagine preliminare che serve per stabilire se una persona di cui è certa l’esistenza (ma non l’identità!) sia la stessa che la vittima ha indicato quale autrice del reato e si invita chi deve compierla a descrivere la persona sospettata indicando tutti i particolari, i connotati e i contrassegni che ricorda. Il riconoscimento di soggetti finalizzato all’accertamento dell’identità deve basarsi su rilevazioni che possono essere sia fisionomiche (connotati e contrassegni, caratteristiche cromatiche, ma anche caratteri funzionali come l’atteggiamento e il modo di camminare, ecc.), sia metriche (misure antropometriche del volto o dell’altezza).

L’accertamento fotografico (o ricognizione fotografica, prevista dall’art. 213 del c.p.p.) è di norma un’attività compiuta dagli organi di polizia o dai testimoni e appartiene ai c.d. indizi.

Si realizza mettendo a confronto diretto i soggetti interessati (c.d. confronto all’americana) o, più spesso, sottoponendo il testimone a una sequenza di immagini fotografiche ricavate dalle fotosegnaletiche presenti nell’archivio criminale (individuazione fotografica o lineup).

In altri casi si può ricorrere al procedimento tramite identikit che com’è noto è una sorta di “segnalamento descrittivo” dal quale si ricava un’immagine; un’attività che nasce dall’interazione tra il testimone e il disegnatore della polizia scientifica ed è attuata con lo scopo di ottenere una prima ‏serie d’informazioni e il maggior numero di elementi essenziali e distintivi che permettano la realizzazione di un album fotografico di persone sospettate (si pensi ai contrassegni e ai connotati salienti che a volte sono sufficienti da soli all’identificazione).

D’altra parte l’obiettivo dell’identikit non è tanto riconoscere il colpevole, quanto diminuire progressivamente il numero dei sospetti e dirigere le ricerche nel giusto verso; anche una somiglianza generica può essere sufficiente agli investigatori per scoprire l’autore del reato se è già noto agli inquirenti.

Un accertamento di questo tipo, basato unicamente sulla testimonianza, risulta fortemente sbilanciato sui testi che risultano sovraesposti data la gravosità del loro ruolo. Quindi non è sbagliato affermare che ogni deposizione possiede un valore nomologico e fallibile poiché si basa unicamente sull’affidabilità e sul ricordo degli osservatori; in molti casi, infatti, non è sufficiente determinare la colpevolezza in conformità di una sola testimonianza. Il giudice, prima di assumere la prova, invita anche il teste a descrivere verbalmente la persona da individuare facendogli indicare tutti i particolari che ricorda.

Gli studi della psicologia investigativa rilevano che l’epicentro della ricerca rispetto alla capacità mnemonica delle vittime di reato e dei testimoni, deve essere posto nella differenza fra percezione soggettiva e realtà rispetto all’evento.

La memoria è influenzata sia da fattori soggettivi (genere, età, personalità, ma anche pregiudizi e bias), che oggettivi (caratteristiche dell’evento: ad esempio la presenza di armi da fuoco), che sistemici (possibilità di suggestione, tecniche di interrogatorio e intervista), i quali possono dare luogo a alterazioni o falsificazioni più o meno volontarie del racconto.

La testimonianza è sì una prova per eccellenza, tuttavia essa consiste nella “narrazione” dei fatti e non nel loro reale svolgimento: «Il contenuto di un ricordo testimoniale deve essere considerato come qualcosa che non può mai essere pura riproduzione fotografica di un fatto obiettivo, ma è sempre il prodotto di una molteplicità di coefficienti, in parte soltanto dati dagli elementi di quel fatto obiettivo, ma in parte costituiti dalla natura stessa della personalità psichica del testimonio, e da tutti gli elementi esteriori che hanno agito nel passato e che attualmente agiscono sul testimonio stesso» (C.Musatti, 1931).

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