Il comportamento prosociale in età evolutiva

 In FocusMinori, N.2 - giugno 2022, Anno 13

La funzione positiva della prosocialità nel favorire il benessere individuale durante l’intero il ciclo di vita (Caprara et al., 2005), sia in un’ottica di sviluppo positivo dei giovani, sia per il benessere collettivo delle persone, è emersa da tempo negli studi di settore (Midlarsky & Kahana, 1994; Caprara & Steca, 2005). Negli ultimi anni, si è infatti registrato un crescente interesse in ambito psicologico per lo studio dei comportamenti prosociali, nonostante i contributi su questa tematica siano meno numerosi se paragonati a quelli riguardanti i comportamenti aggressivi o, più in generale, antisociali. Posta la complessità dell’argomento, nel presente articolo si approfondirà lo sviluppo del comportamento prosociale ed i benefici ad esso correlati, anche ai fini dell’adattamento psicologico e sociale. Ci si soffermerà, in particolare, su quella caratteristica della prosocialità che riguarda il costrutto della competenza emotiva: nello specifico, saranno approfonditi gli aspetti dell’empatia e della regolazione delle emozioni.

Sviluppo e benefici del comportamento prosociale

Il termine «prosociale» raggruppa gli aspetti dell’aiuto, del prendersi cura, del cooperare e del condividere (Hay, 1994; Schaffer, 1998). Generalmente, con l’espressione «comportamento prosociale» si intende, infatti, un comportamento volontario volto ad arrecare un beneficio ad altri (Eisenberg, Fabes & Spinrad, 2006). I comportamenti prosociali compaiono precocemente nel corso dei primi anni di vita ed il loro sviluppo si protrae fino all’età adulta. Alcuni autori (Burleson, 1994) assegnano alla matrice biologica e alla maturazione del sistema nervoso centrale un ruolo fondamentale nello sviluppo di tale tipologia di condotta. Il potenziale biologico interagisce costantemente con l’ambiente con cui il bambino si relaziona ed è l’interazione tra questi due aspetti a determinare la propensione individuale al comportamento prosociale (Vecchione & Picconi, 2006).

La propensione alla prosocialità nelle diverse fasi evolutive presenta caratteristiche specifiche. Innanzitutto, occorre chiarire che i comportamenti prosociali possono essere distinti in tre principali forme, ossia comportamenti di aiuto, di condivisione delle proprie risorse e azioni di conforto o consolazione nei confronti di chi si trova in difficoltà (Brazzelli et al., 2018). I primi atti consapevoli di aiuto e condivisione si manifestano durante il secondo anno di vita, tra i 18 e i 24 mesi (Vecchione & Picconi, 2006) mentre, tra il secondo ed il terzo anno di vita, con lo sviluppo delle capacità di riconoscimento delle emozioni, i bambini possono iniziare a sperimentare forme di connessione empatica assumendo la prospettiva dell’altro (Zan-Waxler & Radke-Yarrow, 1990; Hoffman, 2000; Mori & Cigala, 2016; Brazzelli et al., 2018). L’empatia risulta essere una delle più importanti determinanti della motivazione all’aiuto e al comportamento prosociale (Feshbach, 1982a).

Tra il secondo ed il terzo anno di vita, si osserva un incremento significativo delle capacità dei bambini di offrire conforto e consolazione come risposta al malessere fisico o alla sofferenza emotiva altrui (Svetlova et al., 2010; Vaish, et al., 2009; Brazzelli et al., 2018). In particolare, il contesto sociale in cui il bambino è inserito – la famiglia, il gruppo dei pari e le persone che interagiscono quotidianamente con lui – forniscono i modelli di comportamento e gli standard ai quali conformare la propria condotta unitamente ai rinforzi (Vecchione & Picconi, 2006). Inoltre, l’incremento delle interazioni nei primi anni scolastici e la conseguente disponibilità di modelli anche al di fuori della famiglia favoriscono l’apprendimento di norme sociali e l’adeguamento della condotta alla situazione concreta e al ruolo sociale rivestito. Infine, l’esperienza rinforza e consolida i modelli di comportamento, concorrendo alla stabilità e alla coerenza del funzionamento individuale.

Le variabili che concorrono allo sviluppo della prosocialità sono molteplici e i percorsi evolutivi sono soggettivi. Sul punto, Vecchione e Picconi (2006) affermano come «lo sviluppo del comportamento prosociale sia il risultato del complesso intreccio che viene a crearsi tra molteplici fattori, e del modo in cui essi interagiscono, determinando la traiettoria dello sviluppo degli atti prosociali, influenzandone la frequenza e la complessità, decretandone la continuità piuttosto che il cambiamento». In ogni caso, la prosocialità riveste un ruolo fondamentale nel promuovere e favorire l’adattamento psicologico e sociale della persona (Midlarsky & Kahana, 1994; Caprara & Steca, 2005). Sebbene la maggior parte dei dati attestanti la funzione protettiva ed i benefici che possono derivare dal comportamento prosociale riguardino ricerche compiute su bambini e adolescenti, recentemente, l’interesse degli studiosi si è esteso all’indagine della prosocialità anche in età adulta (Eisenberg et al., 2002).

In età scolare, la prosocialità correla con maggiori probabilità di successo durante la carriera scolastica garantendo relazioni positive con i compagni (Caprara et al., 2000, Wentzel, 1993; Gerbino, 2014); al contrario, la loro assenza denota rifiuto sociale e difficoltà di adattamento (Lacourse et al., 2006; Grazzani & Ornaghi, 2015). I bambini prosociali risultano meno esposti al rischio di sviluppare problemi sia di tipo esternalizzante che internalizzante, poiché la capacità di aiutare, condividere, confortare e supportare i compagni si è rivelata fondamentale per sostenere l’autostima e contrastare tendenze aggressive e depressive (Zuffianò, et al., 2014; Caprara, 2014; Kokko, et al., 2006; Pulkkinen & Tremblay, 1992); aspetti, questi ultimi, che rappresentano importanti fattori di protezione nei confronti dell’insorgere di problematiche psicologiche nel corso dello sviluppo legate a fenomeni di bullismo fisico, prevaricazione tra pari ed esclusione (Green et al., 2005; Greenberg et al., 2003; Grazzani & Ornaghi, 2015).

Ricerche di tipo longitudinale, che hanno interessato soggetti nella transizione dall’infanzia all’adolescenza fino all’età adulta, hanno dimostrato come la tendenza prosociale correli positivamente con autoefficacia, e negativamente con depressione, aggressività e delinquenza (Bandura et al. 1996; Bandura et al. 1999), confermando la funzione protettiva rivestita dalla prosocialità anche nelle fasi successive della vita. Dalla letteratura emerge, quindi, l’importanza di indagare aspetti quali la genesi e le funzioni che la prosocialità può svolgere con riferimento al benessere, al successo individuale e al suo ruolo nei confronti dell’adattamento. Conoscere queste informazioni è utile anche ai fini della progettazione e realizzazione di mirati ed efficaci percorsi atti a promuovere e incrementare l’orientamento alla prosocialità.

Prosocialità: i contributi dell’empatia e della regolazione delle emozioni

Come accennato precedentemente, l’empatia è un’importante determinante all’aiuto ed al comportamento prosociale (Feshbach, 1982a). Inoltre, da alcuni dati emerge che essa non solo favorisce il comportamento di aiuto, ma contribuisce ad ostacolare l’aggressività e la capacità di manipolare gli altri (Hoffman, 2008). L’empatia può essere definita come «l’abilità cognitivo-affettiva che permette di porsi nella prospettiva dell’altro e comprenderne la richiesta di aiuto (Caprara et al., 2005)».

Offrire aiuto denota complesse capacità cognitive e affettive, potendosi parlare di una dimensione prevalentemente cognitiva, consistente nella capacità di assumere in modo consapevole la prospettiva di un’altra persona, e di una dimensione prevalentemente affettiva dell’empatia quando ci si sintonizza con lo stato emotivo dell’altro (Barone, 2019). Come per le competenze prosociali, anche per le manifestazioni delle competenze empatiche esiste una variabilità individuale in cui concorrono fattori biologici e contesto sociale. Le prime manifestazioni di questo costrutto sono molto precoci: la letteratura ha individuato il secondo anno di vita come il momento in cui possono essere riscontrati i primi segni riconoscibili di empatia. Durante lo sviluppo, la capacità empatica si modifica, riflettendo le capacità cognitive che il bambino ha raggiunto fino a quel momento (Schaffer, 1998) e, con l’incremento delle capacità cognitive, il bambino sviluppa forme sempre più complesse di comportamento empatico (Vecchione & Picconi, 2006).

Sul punto, Hoffman (1987) ha elaborato un modello dell’empatia, in base al quale, nel secondo anno di vita circa, possono essere riscontrati i primi segni riconoscibili dell’empatia: il bambino, infatti, in presenza di un compagno che manifesta uno stato di disagio, potrebbe cercare di aiutarlo per confortarlo. Lo farà, però, con modalità poco efficaci, a causa dei limiti di natura cognitiva, in quanto la distinzione tra sé e l’altro non è del tutto compiuta: pertanto, il bambino non riesce a decentrare completamente il proprio punto di vista rispetto a quello dell’altra persona (Barone, 2019). Successivamente, grazie all’acquisizione di nuove abilità cognitive, il bambino diviene consapevole del fatto che gli altri hanno sentimenti distinti e che i bisogni altrui possono essere diversi dai propri. Il senso del sé e degli altri si differenzia in maniera crescente ed i sentimenti empatici dei bambini diventano sempre più sofisticati (Schaffer, 1998). Dalla tarda infanzia, l’affetto attivato empaticamente è combinato sulla base della rappresentazione mentale delle condizioni dell’altra persona. Tutto ciò richiede una valida capacità immaginativa e si consolida durante l’adolescenza grazie alle maggiori capacità di astrazione (Hoffman, 1987; Schaffer, 1998; Barone, 2019).

Il modello di Hoffman sull’empatia è un importante punto di partenza anche per la comprensione della motivazione prosociale. Eisenberg (Eisenberg, Spinrad & Sadovsky, 2006) ha messo in evidenza come l’attivazione empatica non si traduca sempre in un comportamento prosociale, potendosi distinguere due diverse risposte: quella della sympathy (compassione) – un sentimento originato dall’empatia, che comprende anche un sentimento di preoccupazione verso la condizione dell’altro – e quella del personal distress, che ha a che fare con il disagio personale provato dal soggetto in presenza della sofferenza altrui (Barone, 2019). Il processo di trasformazione dell’empatia in sympathy è alla base della condotta prosociale. Se i livelli di personal distress saranno molto elevati, l’attivazione empatica, anziché indurre il soggetto ad agire in maniera prosociale, lo indurrà ad allontanarsi dalla situazione stressante (Barone, 2019). Secondo Eisenberg, il risultato fallimentare è la conseguenza di ridotte capacità di regolazione emotiva.

Con riferimento al contributo della regolazione delle emozioni al comportamento prosociale, va premesso che uno degli elementi costitutivi della prosocialità è dato dalla competenza emotiva, con la quale si intende la capacità di esprimere, comprendere e regolare le proprie emozioni. Pastorelli et al. (2006) affermano che essere in grado di aiutare gli altri richiede «non solo capacità di empatizzare con gli altrui stati d’animo, di recepire le richieste di aiuto e di assumere la prospettiva degli altri, ma altresì capacità di autoregolazione emotiva e cognitiva in grado di contrastare, di fronte alla sofferenza e alla difficoltà, sentimenti di disagio, sconforto, ansia e disperazione». Saper regolare in modo efficace le proprie emozioni, oltre a dipendere dalle caratteristiche personali e dal contesto, richiede anche un controllo degli stati affettivi, dei pensieri associati ad essi e dei comportamenti coinvolti nella espressione delle emozioni, sia positive che negative (Pastorelli & Vecchio, 2014).

La regolazione delle emozioni implica la gestione di stati interni motivazionali, emotivi, fisiologici oltre alla gestione dei comportamenti associati ad essi (Eisenberg & Morris, 2002) ed è, pertanto, ritenuta un aspetto fondamentale dello sviluppo del benessere psicologico (Gross, 2007), contribuendo in maniera significativa al buon adattamento sociale (Gross & John, 2003; Eisenberg & Spinrad, 2004; Koole, 2009; Eisenberg et al., 2010). Esiste infatti un’importante relazione tra la capacità dell’individuo di regolare le proprie emozioni in maniera adattiva e le sue prestazioni in vari ambiti dello sviluppo sociale (Cigala, 2015).

Ad essere potenzialmente dannoso per il benessere dell’individuo non sarebbe l’esperienza frequente o intensa di emozioni negative ma, piuttosto, la mancanza di efficaci strategie di regolazione delle stesse (Matarazzo & Zammuner, 2009; Grazzani et al., 2015). Infatti, i bambini con migliori strategie di gestione dell’emozione sono valutati come più efficaci nelle relazioni con i compagni (Grazzani et al., 2015). Nel complesso, si delinea quindi un’importante relazione tra la capacità dell’individuo di regolare le proprie emozioni in modo adattivo e le sue prestazioni in vari ambiti dello sviluppo sociale. La maggior parte degli studiosi sono concordi sul fatto che una regolazione emotiva adeguata nelle prime fasi del ciclo di vita consente la costruzione di quel senso interiore di «padronanza» e di sicurezza emotiva che garantisce al bambino la possibilità di sperimentare il nuovo (Cigala, 2015). L’acquisizione dell’abilità di regolazione, nell’ambito delle prime relazioni significative, è associata all’abilità nell’interazione sociale, soprattutto nel periodo prescolare e scolare (Eisenberg & Fabes, 2006).

Rispetto alla relazione tra regolazione delle emozioni e interazioni sociali, la letteratura evidenzia due tipi di approccio (Cigala, 2015). Il primo è focalizzato maggiormente sul bambino ed è basato sul ruolo adattivo delle emozioni, proponendosi di indagare il rapporto tra lo sviluppo della capacità regolative delle emozioni e i cambiamenti che hanno luogo anche in altre aree della vita sociale del bambino stesso. Un secondo approccio, centrato principalmente sul contesto relazionale, si propone di studiare come le interazioni sociali influenzino lo sviluppo della capacità di regolazione emotiva dei bambini (Cigala, 2015). Con riferimento al primo orientamento, molti dati evidenziano come la capacità dei bambini in età prescolare e scolare di regolare le emozioni in vari contesti contribuisca in maniera significativa al buon adattamento sociale. Le ricerche evidenziano, in particolare, come la capacità regolatoria si associ ad una serie di indicatori sociali, quali la popolarità all’interno del gruppo dei pari (Eisenberg et al. 2003a); la capacità di comprendere le emozioni altrui e di mettere in atto comportamenti prosociali (Eisenberg, Fabes & Spinrad, 2006); la capacità cooperativa con i pari e con gli insegnanti (Denham et al., 2003) e la risoluzione positiva dei conflitti tra fratelli (Kennedy & Kramer, 2008).

In merito al secondo orientamento, Saarni (1999) sottolinea come parlare di socializzazione delle emozioni significhi, innanzitutto, porsi in una prospettiva in cui l’emozione che un individuo sperimenta in un dato contesto e le modalità per esprimerla vengono apprese, almeno in parte, durante le sue interazioni con gli altri. I processi di socializzazione emotiva stabiliscono, così, una rete di connessioni tra esperienze emotive interne e manifestazioni esterne, in cui i bambini imparano come esprimere le proprie emozioni, quando esprimerle, come definirle in base a un lessico emotivo appropriato, come classificare le emozioni degli altri e come interpretare le condotte emozionali (Cigala, 2015).

Conclusioni

Conoscere il comportamento prosociale, le sue funzioni, i processi sottostanti, il suo sviluppo nel ciclo di vita del soggetto, ha un’utilità pratica soprattutto in ambito preventivo e di promozione del benessere, fornendo informazioni importanti per la progettazione e realizzazione di programmi di prevenzione mirati. Sviluppare e diffondere norme e credenze prosociali tra i giovani è, peraltro, una delle priorità assegnate agli interventi di promozione del benessere (Carnegie Council on Adolescent Development, 1992; Pastorelli & Vecchio, 2014). Sul punto, merita sottolineare il ruolo situazionale nel fornire opportunità, risorse e vincoli all’azione prosociale, oltre al ruolo delle norme sociali nel collocare le condotte prosociali in un sistema condiviso di aspettative ed obblighi reciproci (Caprara et al, 2005).

Giova puntualizzare come il comportamento prosociale sia associato ai valori individuali: ciò significa che l’individuo si impegna per il benessere altrui se a ciò attribuisce un valore fondamentale e se possiede la convinzione di autoefficacia, ovvero quel senso interiore di «padronanza», quel percepirsi capace di agire in ambito affettivo e relazionale. Dalla letteratura emerge la necessità di indagare le funzioni che la prosocialità può svolgere con riferimento al benessere e al successo individuale e, più in generale, per garantire una migliore convivenza sociale (Caprara et al., 2005). Le evidenze empiriche, infatti, giustificano sia un approfondimento della genesi e dei correlati di questi comportamenti (Thompson & Newton, 2013; Dunfield & Kuhlmeier, 2013; Grazzani & Ornaghi., 2015) sia l’utilità di mirati ed efficaci percorsi atti a promuovere e incrementare l’orientamento alla prosocialità.

 

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