Potenzialità distruttive di un gruppo

 In Sotto il Segno del Culto, N.2 - giugno 2022, Anno 13

Il termine “gruppo” evoca una miriade di immagini, esperienze, relazioni, episodi: si tratta di una realtà di cui prima o dopo, in una forma o in un’altra, tutte le persone hanno fatto esperienza.

È tuttavia importante fare chiarezza sulla terminologia e sul significato del termine: cosa si intende, dunque, con la parola “gruppo”?

In sociologia ed in psicologia troviamo molteplici punti di vista, descrizioni e definizioni che cercano di metterne in evidenza le caratteristiche fondamentali.

Già Aristotele sosteneva che «l’uomo è per natura un essere sociale[1]»: la dimensione del gruppo è pertanto una via naturale per soddisfare i bisogni della persona grazie alla relazione con altri esseri umani. Si può altresì definire gruppo come un «insieme di individui che interagiscono tra loro influenzandosi reciprocamente e che condividono, più o meno consapevolmente, interessi, scopi, caratteristiche e norme comportamentali[2]».

Un gruppo è una realtà complessa e dinamica caratterizzata dall’interdipendenza dei suoi membri piuttosto che dalla loro somiglianza e, per dirla con la Gestalt, vale più della somma dei suoi membri (Lewin, 1948). In modo più analitico potremmo aggiungere che il gruppo ha «una particolare dimensione organizzativa, ha una sua vita fatta di strutture, confini, dinamiche, gerarchie, forze e pressioni, qualunque leader o membro lo costituisca; un gruppo è un’entità le cui leggi di funzionamento è necessario conoscere e saper gestire, proprio nell’interesse di quegli individui […] ai quali si propone di parteciparvi[3]».

Il gruppo quindi è qualcosa di letteralmente “vivo” e come tutti gli esseri viventi è caratterizzato da un ciclo vitale costituito da nascita, crescita (sviluppo, evoluzione) e morte (prima o dopo). In natura esiste una legge nascosta che guida la specie alla sopravvivenza attraverso la trasmissione dei caratteri genetici. Similmente, un gruppo ha come interesse principale quello di sopravvivere il più a lungo possibile, o almeno fino a quando esso non abbia terminato il proprio compito.

Molti autori hanno proposto studi e classificazioni dei gruppi: a titolo esemplificativo si possono citare Kurt Zadek Lewin (Lewin, 1948), Didier Anzieu e Jacques-Yves Martin (Anzieu & Martin, 1990) ed Eric Berne (Berne, 2018).

Quest’ultimo ha effettuato uno studio dettagliato e sistematico dei gruppi, con l’obiettivo ordinare un insieme di fatti da lui stesso osservati nell’arco di diciannove anni in situazioni anche molto differenti. Il suo approccio scientifico lo ha condotto a proporre un modello di gruppo inteso come un’aggregazione sociale che abbia un confine esterno, che separa i membri dai non-membri, e almeno un confine interno, che separa i membri del gruppo dal leader (Fig. 1). Si possono quindi individuare tre aree: l’area della leadership, l’area della membership (insieme dei membri del gruppo) e l’ambiente esterno (costituito dai non-membri). Dal punto di vista psicologico è possibile definire tali confini come quei fattori che distinguono in maniera significativa le due aree che ciascuno di essi separa.

 

 

Il gruppo cerca un proprio equilibrio ed è caratterizzato da una molteplicità di forze. In caso di minaccia mette in atto azioni di difesa, proprio come un essere vivente. Le minacce possono essere costituite da una pressione che giunge dall’esterno (forze distruttive), attaccando il confine maggiore esterno, oppure dall’interno (forze disgregatrici e disorganizzatrici), che agiscono all’interno del gruppo. A ciascuna di queste azioni il gruppo oppone delle reazioni (forza oppositiva del gruppo) (Fig. 2).

 

 

Secondo la visione di Berne il gruppo è dotato di uno strumento che si propone di mantenerne la struttura organizzativa: l’apparato di gruppo. Questo poi si suddivide in “apparato esterno”, che interviene quando viene minacciato il confine maggiore esterno del gruppo (Fig. 2A), ed “apparato interno”, il quale gestisce le minacce sul confine maggiore interno (Fig. 2B) e quei conflitti tra membri che non interessano direttamente il leader (Fig. 2C). Un gruppo che supera pressioni esterne e/o agitazioni interne aumenta la propria coesione, che è la forza esercitata in queste situazioni. Il rafforzamento della coesione è compito dell’apparato interno adibito al morale, il quale ha anche il compito di mobilitarla qualora ciò sia necessario.

Questa classificazione offre una interessante chiave di lettura per osservare i cosiddetti “gruppi patologici”.

I gruppi patologici

La realtà di gruppo e l’esperienza di appartenenza ad un gruppo sono molto potenti e possono incidere in modo significativo nella vita di una persona, nella crescita di un adolescente, nella formazione della personalità e nelle relazioni interpersonali. Quanto detto è valido sia in senso positivo che, purtroppo, in negativo.

La seconda circostanza trova una delle espressioni più significative nei cosiddetti “gruppi patologici”, cioè quelle organizzazioni che, pur presentandosi al mondo come associazioni rispettabili, distruggono le persone che vi entrano in contatto, sottoponendo i propri membri a processi di abuso psicologico e fisico (Ventriglia & Marrazzo, 2017). Sinonimo di gruppo patologico è il termine “culto distruttivo”, inteso come un gruppo che violi i diritti dei suoi membri e li danneggi attraverso l’uso di tecniche ingannevoli e immorali di controllo mentale (Hassan, 1999). Vale la pena precisare che con il termine “culto” si deve intendere non solo un gruppo religioso, ma qualsiasi circolo, normalmente di dimensioni ridotte, composto da persone unite dalla devozione o dall’osservanza di un qualche programma, tendenza o manifestazione artistica o intellettuale. Si possono individuare vari tipi di culto: religioso, politico, psicoterapeutico/educativo, commerciale (Hassan, 1999).

Il cinema e la letteratura offrono modelli che possono essere presi come riferimento per comprendere le caratteristiche dei gruppi patologici. Si prenda ad esempio il film The Truman Show, dove al protagonista, Truman Burbank, viene fatto credere di vivere in un mondo che è una finzione continua. Oppure al romanzo 1984, di George Orwell, ambientato in un mondo diviso in tre grandi potenze totalitarie impegnate in una perenne guerra tra loro, il cui scopo principale è mantenere il controllo totale sulla società. In entrambi i casi abbiamo un apparato di controllo interno pronto a riferire eventuali situazioni pericolose per l’integrità del gruppo e una leadership che fornisce una visione del mondo esterno tale da tenere imprigionate le persone. Abbiamo, inoltre, un controllo del pensiero e una modifica del linguaggio: si tratta, appunto, di alcuni degli elementi tipici dei gruppi patologici.

Nei gruppi patologici abbiamo leader che utilizzano il proprio carisma per condurre i membri all’obbedienza, all’accettazione, all’identificazione con il leader stesso ed alla totale dipendenza (Ventriglia & Marrazzo, 2017). Questi leader possiedono alcune caratteristiche peculiari (Santovecchi, 2010):

  • sono autoproclamati, persuasivi e affermano di avere una missione speciale, una conoscenza ed un’illuminazione esclusive. Hanno il potere di guidare i seguaci verso nuovi livelli di consapevolezza;
  • sono risoluti ed autoritari, non rispondono ad altra autorità, emanano forza, slancio, fascino;
  • accentrano su di sé la devozione, richiedono obbedienza assoluta ed indiscutibile, sopprimono ogni atteggiamento critico.

Si tratta di leader accusatori, giudicanti e tirannici, ma allo stesso tempo calcolatori, apparentemente ragionevoli, abili nell’usare logica manipolatoria e linguaggio criptico (Bandler & Grinder, 1981; Ventriglia & Marrazzo, 2017).

In questi gruppi il confine esterno maggiore è molto forte (forte separazione con l’ambiente esterno) ed è necessario per mantenere l’integrità: eventuali forze distruttive, agenti dall’esterno, che si pongano come una minaccia per il gruppo verranno represse dall’apparato esterno. Ma anche l’apparato interno è sempre pronto ad intervenire: la presenza di un eventuale agitatore che metta in pericolo la coesione del gruppo verrà tenuta d’occhio e controllata. Se questo non è sufficiente per dissuadere il “disturbatore”, allora questi verrà allontanato (espulsione) e diventerà un apostata.

Il controllo mentale

L’ingresso in un gruppo patologico avviene spesso attraverso il love bombing, vero bombardamento di attenzioni, considerazioni e riconoscimenti fortemente condizionati, anche se talvolta i reclutatori non ne sono consapevoli: nel caso in cui chi le riceve si trovi in un momento di particolare fragilità, di stress e di vulnerabilità, allora la situazione è rischiosa e la persona può “decidere” di diventare un adepto/a, anche se giova ricordare che non sono le persone ad entrare nei culti, bensì sono i culti che reclutano le persone (Hassan, 1999). Viste con gli occhi di chi viene reclutato, le attenzioni ricevute in realtà appaiono incondizionate, positive e, addirittura, costruttive. Nessuno pensa di entrare in un gruppo (culto) distruttivo, la persona non sospetta neanche lontanamente di essere reclutata (Santovecchi, 2010).

L’offerta di ingresso in un gruppo patologico risponde a bisogni quali vuoti relazionali, economici, di salute, di fatto tra quelli primari che occupano le posizioni più basse in una piramide di Maslow: tutti cerchiamo la felicità, abbiamo bisogno di affetto, di attenzione, cerchiamo qualcosa di meglio nella vita (saggezza, conoscenza o un senso più alto). I reclutatori delle sette offrono proprio questo.

Questo, però, è solo l’antipasto di quanto può accadere una volta all’interno del gruppo. Passato il primo periodo di “innamoramento”, per l’adepto arriva il tempo della responsabilità: viene ritenuto degno e capace di comprendere ciò che ci si aspetta da lui quale sostenitore leale (Santovecchi, 2010), viene sovraccaricato di lavoro e sempre più isolato dal mondo. La persona è già oggetto di modalità relazionali che rientrano all’interno del cosiddetto “controllo mentale”, da non confondersi con il “lavaggio del cervello”: mentre quest’ultimo è coercitivo, prevede violenza fisica e psicologica e non è destinato a rimanere una volta interrotta la forzatura, il controllo mentale è costituito da una serie di sottili tecniche grazie alle quali la personalità dell’individuo viene gradualmente sostituita con una nuova identità (Hassan, 1999). Tale intervento lavora molto più in profondità e rimane anche quando la persona non è più direttamente sottoposta al controllo.

Dalle testimonianze di familiari di ex-adepti si evince che la vecchia e la nuova personalità possono addirittura convivere e, in presenza di uno stimolo, la persona può passare in modo automatico alla nuova identità adottando un linguaggio verbale e non verbale differenti, appresi dal gruppo: questo meccanismo richiama l’ancoraggio nella Programmazione NeuroLinguistica (PNL; Granata, 2007). A titolo di esempio si riporta il seguente stralcio di una testimonianza: «Se iniziavo con lei un discorso per così dire spirituale, vedevo nei suoi occhi come una specie di interruttore che automaticamente scattava e le faceva cambiare espressione, i suoi atteggiamenti diventavano nervosi e ad un tratto mi percepiva come suo nemico[4]».

Un adepto sotto controllo sperimenta una situazione che potremmo definire una “simbiosi disfunzionale”: le capacità adulte di osservazione, valutazione e critica vengono addormentate (Schiff, 1980; Stewart & Joines, 1990; Ventriglia & Marrazzo, 2017), l’individuo è condotto verso un adattamento passivo[5]. Il gruppo pensa al posto dell’adepto fornendogli i valori e l’analisi della realtà e lo invita a controllare a sua volta altri membri del gruppo, nonché ad esercitare, a sua volta, un’accoglienza calorosa, ma artificiosa, nei confronti dei neofiti. Chi viene assalito da qualche dubbio e prova a riattivare la propria capacità critica si trova come a “scalare una montagna di fango” (Hassan, 1999).

Secondo Robert J. Lifton esistono otto parametri che, se adottati in toto da un gruppo, indicano che esso si sta avvalendo del controllo mentale (Lifton, 1989, cit. in Ventriglia & Marrazzo, 2017). Steven Hassan propone un punto di vista leggermente differente: egli sostiene che il controllo mentale può essere compreso analizzando i tre elementi della teoria della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957), vale a dire comportamento, pensieri ed emozioni, ai quali Hassan unisce l’informazione. Ne risultano quattro componenti strettamente interdipendenti, a tal punto che modificandone una si producono un’incongruenza ed un malessere (dissonanza) tali da far modificare anche le altre (Hassan, 1999).

La Tab. 1 riporta in modo sintetico le modalità con cui possono venir attuate le quattro tipologie di controllo all’interno di un gruppo distruttivo, insieme agli obiettivi che esse intendono perseguire.

 

 

Il controllo delle quattro componenti riportate in tabella avviene in modo strutturato attraverso tre fasi successive:

  1. la destrutturazione, volta a disorientare la persona, a farle perdere i riferimenti, a sconvolgerne la realtà. Si attua attraverso la privazione del sonno, la sotto-nutrizione, l’utilizzo di tecniche ipnotiche, il sovraccarico sensoriale, il doppio legame e la vita condotta quasi sempre in gruppo. Molto potenti sono le tecniche di “blocco del pensiero”: i seguaci vengono istruiti a bloccare i pensieri “cattivi” per eliminarne l’influsso negativo e chiudere fuori dalla porta tutto ciò che può minacciare l’appartenenza al gruppo. Nel giro di poco tempo in modo meccanico vengono messe in atto cantilene o preghiere con questo scopo. L’automatismo è tale che la persona non ha più coscienza di aver avuto un “cattivo” pensiero: questo sistema ricorda molto il bispensiero orwelliano;
  2. il cambiamento, volto ad imporre una nuova identità, un nuovo schema di riferimento. Si attua attraverso la ripetitività e la monotonia, che possono indurre stati ipnotici, così come l’induzione di esperienze spirituali, in cui all’adepto vengono rivelati dettagli della propria vita sui quali, in realtà, il leader ha preso informazioni in precedenza. Cruciale è il controllo dell’informazione, ottenuto utilizzando solo di fonti interne o artefatte (Minuti, 1992);
  3. la ristrutturazione, che fornisce un nuovo scopo alla vita e solidifica la nuova identità che si è venuta a formare. Si attua attraverso il denigrare il vecchio io, minimizzando le cose buone del passato (di fatto una ridefinizione della propria storia) e cercando di imitare il leader, che è il modello assoluto. In certi casi si cambia il nome all’adepto e gli si chiede di intestare al gruppo i propri averi ed il conto bancario, in modo da rendere totale la dipendenza. Per completare l’opera l’individuo viene incaricato di fare nuovi proseliti: «nulla consolida il credo di una persona a tal punto e così velocemente quanto il cercare di vendere le proprie convinzioni ad altri. Fare nuovi proseliti contribuisce a cristallizzare in fretta l’identità che il culto ha affibbiato all’individuo[6]».

In questo modo viene prodotto un vero e proprio cambiamento del sistema di riferimento[7] della persona, la quale modifica i propri filtri ed interiorizza nuove definizioni del mondo, di sé stessa e degli altri. L’unica “mappa” accettabile per descrivere il “territorio” diventa quella del gruppo.

L’utilizzo disfunzionale del sistema di riferimento fa sì che la persona adatti le informazioni esterne al proprio schema interno per contrastare la minaccia che tali informazioni costituiscono (processo di “ridefinizione”, Schiff, 1980). Si tratta della cosiddetta “sindrome di interferenza”: la persona parte da un quadro di riferimento distorto dal gruppo, legato ad una simbiosi con il gruppo stesso, e ridefinisce gli stimoli di realtà che minacciano tale quadro, stabilendo nuove relazioni simbiotiche che rinforzano la posizione iniziale (Moiso & Novellino, 2017).

Le motivazioni

A questo punto viene da chiedersi: ma perché una persona entra in un gruppo patologico? Esiste un rischio grande ed è quello di credere di essere immuni a questa possibilità, di pensare che “tanto a me non capiterà mai” o di essere convinti che solo persone poco preparate e “sempliciotte” possano cadere in tranelli simili. La realtà è ben diversa.

Una persona sceglie sempre l’alternativa migliore che ha a disposizione in quel momento (Lankton, 1989) e lo stesso dicasi per un potenziale adepto che viene intercettato da un reclutatore (Hassan, 1999). Nel modello che costituisce la mappa del mondo di un potenziale seguace non ci sono abbastanza scelte: si tratta di una mappa impoverita da cui la persona non riesce a percepire un’ampia gamma di opzioni (Bandler & Grinder, 1981; Karpman, 1971).

Un articolo pubblicato a maggio 2021 sul Resto del Carlino[8] ha riportato che durante il primo periodo dell’emergenza sanitaria l’adesione a gruppi settari[9] è incrementata in modo significativo. In tale articolo si sostiene che l’adesione alle sette è aumentata di oltre il 30%. Il rapporto Monitoraggio AntiSette 2020, citato nell’articolo, fotografa la composizione delle sette in base a differenti criteri di classificazione:

  • in base allo status economico: il 38% delle vittime appartiene al ceto alto, il 43% al ceto medio;
  • secondo fasce di età d’appartenenza: il 36% sono adulti, il 34% giovani, il 17% anziani ed il 13% adolescenti;
  • in base al sesso: 53% uomini e 47% donne, sebbene tra chi chiede aiuto il 58% siano donne;
  • per area geografica di appartenenza: al Nord Italia 38%, al Centro 32%, al Sud 30%;
  • per tipologia di gruppo: 40% sono psicosette, 31% culti estremi.

A questo si può aggiungere che il 52% degli adescamenti avviene su web ed in questo caso il 63% delle persone contattate ha meno di 18 anni. Da notare, infine, che già alle scuole medie avvengono i primi contatti (38%).

Pensando al momento di pandemia, il trauma da isolamento (anche forzato) e la perdita di relazioni sociali hanno contribuito ad aumentare i bisogni relazionali: «L’isolamento forzato non ha permesso di aumentare la percezione di come siamo fatti, la mancanza di contatto diretto impedisce la crescita, il confronto, l’arricchimento personale in momenti fondamentali come quelli della preadolescenza, adolescenza e giovinezza in genere. […] ha prodotto delle inquietudini, dei disorientamenti, ma soprattutto non ha alimentato la sicurezza e l’autostima che ognuno si merita[10]».

In certi casi il ritiro dai legami sociali ha spinto a ricercarli nella rete: la nostra epoca è caratterizzata dalla connessione perpetua che facilita la costruzione di un rapporto simbiotico (anche) con la tecnologia e suoi oggetti (Recalcati, 2014). In altre situazioni la mancata soddisfazione dei bisogni relazionali può aver indotto ad entrare in un gruppo distruttivo: in quel momento appariva come la scelta migliore da fare.

I gruppi Pro-Ana e Pro-Mia

In quest’ultima parte del lavoro, il focus viene spostato su gruppi che fanno riferimento ai movimenti “pro-ana” (pro-anorexia) e “pro-mia” (pro-bulimia). Sebbene non si possano considerare gruppi patologici “tradizionali”, è tuttavia possibile trovare in molti di questi degli elementi che li possono accomunare ad essi.

I termini pro-ana e pro-mia si riferiscono a contenuti e/o ideologie, spesso presenti nel mondo del web (blog, siti, forum, chat), che promuovono un comportamento ed uno “stile di vita” allineato con disordini alimentari quali anoressia e bulimia. I siti o i social media che ne parlano spesso fanno passare l’idea che si tratti di una “scelta di vita” piuttosto che di sintomi legati ad una malattia.

Spesso chi posta questi contenuti soffre egli stesso di tali disturbi e c’è chi sostiene che si tratti di una modalità per chiedere aiuto e per trovare attenzione da parte di qualcuno con cui sia possibile un’intesa, una concordia di idee e di pensiero, piuttosto che di un modo malizioso per incoraggiare le persone ad intraprendere comportamenti dannosi.

D’altra parte, sebbene alcuni siti pro-ana/pro-mia non cerchino direttamente di reclutare nuovi “adepti”, è anche vero che essi forniscono tutta una serie di informazioni atte a mantenere una situazione di disturbo. Una persona che si trovi in una situazione “al limite” potrebbe quindi essere persuasa ad iniziare pratiche anoressiche o bulimiche grazie ai siti suddetti. E nonostante tali pratiche portino spesso a conseguenze negative, il tono di chi racconta la propria esperienza è celebrativo e supporta le pratiche stesse.

Ci sono autori secondo i quali i siti pro-ana offrono supporto e guida per conservare la situazione di “stabilità” che lo stato di anoressico/a comporta (Fox et al., 2005) e ricerche statistiche che mostrano che non è detto che tali siti portino necessariamente ad un aumento del tasso dei disturbi (Mulveen & Hepworth, 2006).

Tuttavia ci sono alcuni aspetti preoccupanti che spesso caratterizzano questi luoghi del mondo del web:

  • l’anoressia e la bulimia sono antropomorfizzate: tali disturbi vengono chiamati in modo amichevole Ana e Mia;
  • c’è un chiaro supporto tra pari nei confronti di queste attività utilizzando frasi come I love you to the bones (traducibile come “Ti amo fino all’osso”, che può intendersi sia come “in profondità” che “in pelle ed ossa”);
  • la condizione anoressica viene vista come un equilibrio omeostatico da mantenere, una forma di stabilità e controllo (Ward, 2007);
  • vengono fornite strategie e suggerimenti per sopprimere la fame o per nascondere il gesto del vomitare o alcune sue evidenti conseguenze;
  • solitamente compaiono immagini o foto di individui sottopeso o sovrappeso, per veicolare un messaggio di incoraggiamento ed emulazione. Tale politica va sotto il nome di thinspiration (gioco di parole in inglese: thin + inspiration = sottile, magro, snello + ispirazione, stimolo): vengono postate foto (anche) di celebrità provocando un senso di colpa nell’individuo anoressico che ancora non è riuscito a raggiungere quel livello di “perfezione” del corpo. Tali sensi di colpa talvolta inducono a comportamenti auto-punitivi;
  • questi contenuti sono facilmente accessibili nel web “in chiaro” attraverso un motore di ricerca e chiunque può costruire un sito/blog/forum pro-ana e pro-mia.

Nonostante le conseguenze negative di tali comportamenti sotto vari punti di vista, una persona difficilmente riesce a venirne fuori. Chiaramente l’aspetto psicologico è fortemente coinvolto. Queste difficoltà fanno pensare al controllo mentale, sebbene la persona non si trovi all’interno di un vero e proprio gruppo patologico con un leader che la manipoli. Tuttavia i seguenti elementi sembrano richiamarlo in modo evidente:

  • viene vissuta la sensazione di essere in un gruppo di pari ben differenziato dall’ambiente esterno, tra cui ci si intende e con cui è possibile uno scambio di esperienze utilizzando un linguaggio anche specifico (il cosiddetto ana-language);
  • il comportamento anoressico è volto a raggiungere una perfezione del corpo, dal punto di vista di chi lo segue. Per questo chi intraprende questa strada tende a sentirsi superiore o comunque facente parte di un gruppo elitario rispetto a chi ne è fuori: il mondo esterno è minaccioso;
  • sono presenti dei pattern di comportamento e rituali ana che vengono formalizzati, legittimati e confermati;
  • si tratta di un ambiente protetto, in cui chi vi si rivolge non lo fa tanto per guarire quanto per vivere meglio e non da solo questa situazione. Difatti nelle chat pro-ana può capitare di imbattersi in post tipo il seguente: «Un’altra ragione che mi fa supportare il movimento pro-ana è che la maggior parte delle persone che ha un disordine alimentare si sente come se fosse sola. Sentirsi soli è parte del disordine e avere così tante altre persone con cui potersi relazionare ti fa sentire mentalmente assai meno depressa[11]».

Dal punto di vista dell’incidenza della patologia, uno studio di qualche anno fa mostra che negli Stati Uniti, paese occidentale “per eccellenza”, tali disturbi sono piuttosto rari per individui con 18 anni o più, presentandosi in meno dello 0,1% della popolazione adulta (Karg et al., 2014).

Nell’età dell’adolescenza, tra le ragazze di 15-19 anni l’incidenza sale allo 0,9% mentre si attesta allo 0,3% per i ragazzi (sebbene si presenti solitamente in età più tarda), per un totale dell’1,2%. D’altra parte la bulimia ha una prevalenza dell’1,6% e i Binge Eating Disorders (BED) del 5,7% (Smink et al., 2012). Tra tutte, comunque, è l’anoressia ad essere la più pericolosa. Il tasso di mortalità è superiore a quello di altri disturbi psichiatrici adolescenziali, con il 50% delle persone malate che riesce a recuperare ed il restante che sviluppa una condizione cronica (Gowers et al., 2000).

Per molte persone l’anoressia inizia come un tentativo di raggiungere un ideale di bellezza guadagnando un corpo magro e slanciato. Questo desiderio rimane poi invischiato nel bisogno di rispettare livelli stringenti di autocontrollo ed in comportamenti auto-punitivi conseguenti a tentativi falliti di raggiungere alti standard di riferimento. Ansia di controllo e punizioni spesso sono legate ad eventi traumatici pregressi, dovuti a forti critiche da parte dei genitori o del compagno in merito al corpo o al peso fino ad abusi fisici o sessuali (Ward, 2007).

Nonostante tutto questo, Ana è spesso considerato un dio (o una dea), una sorta di leader non materiale del gruppo[12]. Ad Ana viene associato non solo uno stile di vita ma anche la parola “religione”, con tanto di salmi dedicati e di comandamenti (guarda caso 10):

  1. Se non sei magra non sei attraente.
  2. Essere magra è più importante che essere sana.
  3. Devi comprare abiti, tagliarti i capelli, prendere lassativi, patire la fame, fare qualsiasi cosa per fare apparire te stessa più magra.
  4. Non mangerai senza sentirti in colpa.
  5. Non mangerai cibo che fa ingrassare senza successivamente punire te stessa.
  6. Conteggerai le calorie e limiterai di conseguenza i consumi.
  7. Quello che dice la bilancia è la cosa più importante.
  8. Perdere peso è bene/prendere peso è male.
  9. Mai e poi MAI sarai troppo magra.
  10. Essere snella e non mangiare sono segni di vera forza di volontà e di successo.

In altri siti fin dalla home-page viene proposta una dieta per perdere peso velocemente e per affrontare le difficoltà di una società in cui tutti sono preoccupati per la propria salute, per il lavoro, per lo stress[13]. In questo modo si mettono sullo stesso piano varie problematiche odierne della società occidentale e le modalità per affrontarle: scegliere una dieta pro-ana viene equiparato a svolgere attività sportiva (ad esempio jogging) per rilassarsi dopo una stressante giornata di lavoro.

Spesso la strada dell’anoressia viene intrapresa perché non ci sono alternative, o, meglio, la persona coinvolta non riesce a vedere alternative, come si evince dal seguente stralcio che riporta un post di una chat pro-ana: «Prima di tutto i siti anti-ana non ti aiutano affatto, danno solo definizioni, cause, la teoria di come stare meglio […]. Nei siti pro-ana puoi parlare con persone che capiscono, che sanno come ti senti. Qui trovo persone che mi dicono “È ok, puoi farcela, tutto sarà ok”, mentre nella vita reale le persone mi passano accanto come se non esistessi. Questi siti non promuovono ana […] qui mi sento accettata, per la prima volta sono parte di qualcosa. Ci sono persone che dicono che siamo stupide e che dovremmo smetterla con ana, ma non capiscono. Non ho preso un disturbo alimentare perché sono felice […]. Ce l’ho perché sono infelice e sempre lo sono stata. E non vado a dire alle persone che ana è una cosa buona ma so che per me è l’unica cosa da fare. Cioè […] o questo o mi uccido. Non riesco a gestire niente nella mia vita […]. Non ce la faccio, ogni giorno è sempre più dura, e forse mi odierai perché dico questo, ma a volte mi piace, sono orgogliosa di essere anoressica, di avere così tanta forza di volontà[14]».

Il movimento pro-ana diventa perciò un luogo protetto, in cui non c’è il giudizio e c’è uno scambio di esperienze alla pari, lontano da parenti, compagni, mariti, medici. Ana promette bellezza, perfezione, controllo. I membri spesso rispondono frustrati ai fallimenti per il non raggiungimento degli standard, pur avendo seguito pericolosi e rigidi piani nutrizionali e calorici.

Questa frustrazione può spingere la persona ad adottare comportamenti auto-punitivi: non a caso il “quinto comandamento” della Dea Pro-ana impone proprio di punirsi in seguito all’assunzione di cibo eccessivamente calorico.

In senso più generale, i comportamenti autolesionistici possono venir messi in atto per distrarsi da un dolore emotivo, da ricordi penosi, da una forte rabbia o possono essere una violenta autopunizione per insopportabili sensi di colpa. Sebbene siano particolarmente diffusi nella popolazione psichiatrica[15], si presentano di frequente all’interno dei disturbi di personalità borderline, così come in individui affetti da disturbi d’ansia, depressione e, appunto, disturbi del comportamento alimentare.

Paradossalmente possono diventare “il male minore”: un modo per alleviare una pena attraverso un’altra pena di intensità minore. Lo studio mostra che l’autolesionismo è collegato a traumi infantili associati ad abusi emotivi, vale a dire ad aver subito un comportamento fatto di urla, di violenza, di atteggiamenti sadici. In certi casi la messa in atto di comportamenti autolesivi è un tramutare in sofferenza fisica (più reale e più facilmente gestibile) una sofferenza emotiva che non si sa come gestire: in questo modo per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore. In altri casi si tratta di una forma estrema di auto-criticismo e in altri ancora è una forma di comunicazione del proprio disagio: attraverso le ferite, difatti, la propria sofferenza appare evidente agli occhi degli altri.

Mentre la gran parte delle persone coinvolte abbandona in pochi anni le pratiche autolesive, un quinto sviluppa una forma cronica. E, purtroppo, in certi casi l’infierire sul proprio corpo diventa il segno premonitore di futuri tentativi di togliersi la vita (Liu et al., 2018): esiste quindi un forte legame predittivo tra i comportamenti autolesionistici e suicidi (è un fattore di rischio). La progressiva desensibilizzazione al dolore fisico attraverso le ripetute pratiche di auto-danneggiamento potrebbe quindi favorire la messa in atto di tale gesto estremo.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ogni anno muoiono per suicidio più di 700.000 persone e, cosa molto preoccupante, il suicidio rappresenta la quarta causa di morte tra gli adolescenti (15-19 anni)[16]. Sempre secondo l’OMS, in Italia è addirittura la seconda causa di morte per i giovani tra 15 e 24 anni[17].

La pratica dell’autolesionismo risulta in crescita negli ultimi anni ed in particolare in questo periodo di pandemia ed isolamenti forzati (Pellai, 2021). Situazione ha spinto l’ospedale pediatrico Bambin Gesù a promuovere già nel 2019 un convegno scientifico dal titolo “Bambini, adolescenti e suicidio: una nuova emergenza”[18], all’interno del quale è stato presentato in anteprima il documentario “Tagli”, di Discovery Italia, che racconta storie vere di autolesionismo giovanile.

Il giovane che decide di auto-punirsi si trova in una situazione di profonda sofferenza e fragilità. D’altra parte le persone più vicine, in particolare i genitori, possono cadere nella tentazione della minimizzazione per paura del giudizio altrui o perché si sentono in colpa o inadatti al loro ruolo. La tendenza a nascondersi ed a nascondere è forse il rischio più grosso che contribuisce ancora di più ad affogare in queste sabbie mobili.

Conclusioni

Nel gruppo troviamo quindi un’ambiguità intrinseca, quel rischio insito in tutti gli strumenti che possono essere utilizzati per costruire o per distruggere. Una doppia faccia che pone interrogativi e richiama alla responsabilità. La difficoltà nel reperire reti sociali “sane” e la conseguente solitudine nell’affrontare le difficoltà della vita, possono indurre le persone a rivolgersi a gruppi che in apparenza sembrano dare risposte e conforto, ma in realtà deprivano della possibilità di affrancazione dal disagio e dalla sofferenza che li ha indotti ad aderire a essi.

Spazio, dunque, a relazioni e gruppi NON-patologici.

 

Bibliografia

Anzieu, D. & Martin, J.-Y. (1990). Dinamica dei piccoli gruppi. Borla.

Bandler, R. & Grinder, J. (1981). La struttura della magia. Astrolabio.

Berne, E. (2018). La struttura e le dinamiche delle organizzazioni e dei gruppi. FrancoAngeli.

Festinger, L. (1957). A Theory of Cognitive Dissonance. Stanford University Press.

Fox, N., Ward, K. & O’Rourke, A. (2005). Pro-anorexia, weight-loss drugs and the internet: an ‘anti-recovery’ explanatory model of anorexia. Sociol. Health Illn., 27 (7) 944-971.

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  3. Novellino, M. (2018), dalla prefazione del testo (Berne, 2018).

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  5. In queste situazioni lo psicanalista M. Recalcati parla di una “dimensione ipnotico-suggestiva” di transfert (Recalcati, 2014).

  6. Hassan, S. (1999), op. cit.

  7. Con “sistema di riferimento” si intende una struttura di connessioni nervose condizionate che integra la struttura della personalità dell’individuo in risposta a stimoli specifici (Schiff, 1980).

  8. Bonaiuto, A., (2021). La trappola delle sette sataniche. Boom di adesioni con il lockdown, in Resto del Carlino, 7 maggio 2021.

  9. L’articolo è incentrato sui culti distruttivi di stampo religioso, per questo viene utilizzato il termine “setta”.

  10. Bigi, G. (2021). Ragazzi, Covid, Guai, in La Finestra – periodico bimestrale dell’Associazione Valdarnese di Solidarietà, n. 1 gennaio/maggio.

  11. Tradotto da Ward, K.J. (2007), op. cit.

  12. https://proanagoddess.wordpress.com/ana-lifestyle-religion-2/ in cui si parla di Pro-Ana Goddess (la dea Pro-Ana).

  13. www.proanatip.com

  14. Tradotto da Ward, K.J. (2007), op. cit.

  15. Ne soffre il 5% degli adulti, il 17% degli adolescenti ed il 30% di adolescenti secondo (Liu et al. 2005).

  16. https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/suicide del 17 giugno 2021.

  17. https://vocecontrocorrente.it/2021/01/20/autolesionismo-suicidio-boom-tra-giovanissimi-dati-shock-oms-istat-covid/

  18. https://www.bioeticanews.it/bambini-adolescenti-e-suicidio-una-nuova-emergenza/

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