Le condotte autolesioniste adolescenziali in tempo di COVID-19

 In Crimine&Società, N.2 - giugno 2022, Anno 13

«Carne avvezza a soffrire, dolore non sente»
Ignazio Silone

 

L’Autolesionismo Non Suicidario – Not Suicidal Self Injury (NSSI) secondo la terminologia adottata dai curatori del DSM V (APA, 2013) ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali che considera l’autolesività non suicidaria una categoria diagnostica autonoma[1] – comprende una pluralità di condotte intenzionali e autodirette finalizzate alla sperimentazione di sensazioni dolorose mediante l’inflizione di offese fisiche in grado di produrre abrasioni, ecchimosi o sanguinamento[2]. Pratica di mascheramento di disagi psicologici radicati in profondità, essa è particolarmente diffusa nella fascia di età compresa tra i 12 e i 14 anni, con incidenza uniformemente distribuita tra i sessi e frequenza tendente a decrescere dopo i 20-25 anni (Scordo, 2019). Recenti statistiche stimano che il fenomeno colpisca dall’1,5% al 6,7% dei bambini e adolescenti senza disturbi psichiatrici mentre gli adolescenti con turbe psichiche sembrano inclini a manifestare più frequentemente episodi singoli (60%) o reiterati (50%) di NSSI (Casini, 2021).

Dati meno recenti riportano come a soffrire di tale disturbo siano soprattutto adolescenti e giovani adulti, con un’incidenza del 15-20% (Klonsky, 2011) mentre nella popolazione adulta la percentuale si attesta intorno al 6% (Briere & Gil, 1998; Klonsky, 2011). Il tasso di NSSI ha raggiunto il 17,2% tra gli adolescenti e il 13,4% tra i giovani adulti nel corso dell’ultimo decennio (Swannell et al., 2014), con una prevalenza similmente riscontrata in tutti i Paesi (Giletta et al. 2012; Plener et al., 2009). Le condotte in questione – a lungo neglette poiché considerate alla stregua di comportamenti transitori, tipici dell’adolescenza e parte della ribellione giovanile – interessano attualmente circa il 10% della popolazione mondiale (Halicka & Kiejna, 2018). Tanto in adolescenza quanto in età adulta, l’incidenza dell’autolesionismo appare più elevata tra la popolazione psichiatrica, in particolare tra i soggetti affetti da disturbi dell’umore e/o disturbi d’ansia nonché nei soggetti caratterizzati da alti livelli di disregolazione emotiva (Klonsky et al., 2003; Andover et al., 2005). In quest’ultimo caso, l’autolesionismo pare assumere valenza di strategia disadattiva di coping, secondo la nota definizione proposta da Favazza (1998) e successivamente ripresa in un’accurata review condotta da Andover e Morris (2014) circa il ruolo della (dis)abilità nella regolazione delle emozioni nell’agito autolesivo.

Sebbene l’età di esordio si aggiri tra i 13 e i 14 anni (Herpertz, 1995; Nock et al., 2006; Whitlock et al., 2006; Ross & Heath, 2002), studi più recenti suggeriscono che pensieri e comportamenti autolesivi si manifestano anche in soggetti più giovani, addirittura infraquattordicenni. Pensieri autolesivi sono stati riscontrati nelle ragazze tredicenni e quattordicenni con una prevalenza del 22%, e fino al 15% di esse ha agito tentativi autolesivi almeno una volta nell’ultimo semestre di osservazione (Stallard et al., 2013). La condotta autolesiva in età adolescenziale appare spesso associata ad altri disturbi psichici, sebbene non necessariamente: in particolare, alle manifestazioni del disturbo di personalità borderline, del disturbo antisociale di personalità, dei disturbi alimentari e di abuso di sostanze (Halicka & Kiejna, 2018; Scordo, 2019). La corposa letteratura sul tema suggerisce come l’autolesionismo adolescenziale correli, inoltre, con depressione, stress, ansia e disturbi della condotta (Nock et al., 2006), relazioni familiari disfunzionali, isolamento sociale e basso rendimento scolastico (Fliege et al., 2009). Inoltre, gli adolescenti con comportamenti autolesionistici, soprattutto se ricorrenti, manifestano con maggior frequenza altre condotte c.d. a rischio, quali comportamenti sessuali promiscui, abuso di alcool, farmaci e sostanze psicotrope in generale (Casini, 2021).

Pratica epifenomenica di un disagio acuto, l’autolesionismo agito in età adolescenziale presenta un quadro lesivo peculiare, caratterizzato da lesioni multiple a bassa letalità, tipicamente inferte in una zona accessibile dal soggetto e facilmente occultabile con vestiario adeguato (Greydanus & Shek, 2009). Il comportamento è spesso reiterato, con ampi schemi cicatriziali conseguenti ad azioni lesive compiute in una singola sessione e circoscritte ad un medesimo sito corporeo (es., avambracci, cosce, ecc.) (Hodgson, 2004). Nonostante i metodi utilizzati e i distretti corporei attinti non di rado si sovrappongano a quelli tipici del suicidio – l’incisione dell’area volare dell’avambraccio con un oggetto tagliente, come una lametta o altro oggetto affilato, anche improvvisato (i.e., un coccio di bottiglia), ne è un classico esempio – l’atto autolesionistico si distingue per l’assenza di intento letale[3], specificamente dichiarata dal soggetto o desumibile dall’esecuzione reiterata con metodi c.d. a bassa letalità, ossia palesemente non mortali (Scordo, 2019).

Co-occorrenza NSSI e condotte autosoppressive

La questione è controversa e gli apporti nella letteratura internazionale sono ampi e ben documentati (Duarte et al., 2020; Paiman & Khan, 2017; Plener et al., 2009 e bibliografia ivi citata), evidenziando come, sebbene l’autosoppressione non sia il fine precipuo dell’agito NSSI, il rapporto tra le due condotte appaia piuttosto complesso poiché, non di rado, un comportamento autolesivo può rivelarsi pericoloso per la vita (Farber et al., 2007). In ogni caso, il rischio suicidario appare aumentato negli individui con pratiche autolesive all’anamnesi, riscontrandosene segni evidenti in una percentuale oscillante tra il 40 e il 60% delle vittime di suicidio giunte all’osservazione medico-legale (Hawton et al., 2018). È necessario, tuttavia, tenere presente che etichettare un soggetto autolesionista come un potenziale suicida potrebbe rivelarsi inesatto e fuorviante, soprattutto in età adolescenziale (Fox & Hawton, 2004).

Sebbene la letteratura specialistica abbia identificato vari sottogruppi clinicamente distinti di self-cutters, la maggior parte dei quali a basso rischio suicidario, vero è che adolescenti e giovani adulti vittime di gesti autolesivi meriterebbero un’attenta valutazione e gestione al riguardo (Klonsky & Olino, 2008), L’assenza di letalità immediata non esclude, infatti, l’incremento di long-term risk di tentativi autosoppressivi, principalmente nella fascia adolescenziale, come peraltro segnalato da contributi più recenti (Clayton, 2020; Ougrin, 2012). In generale, i pazienti autolesionisti andrebbero considerati ad alto rischio di suicidio, benché non costituiscano un gruppo omogeneo (Beckman et al., 2018; Olfson et al., 2018). Alcuni ricercatori, peraltro, sostengono da tempo l’appartenenza del NSSI al medesimo spettro del tentato suicidio (Stanley et al., 1992), tanto che i pazienti che presentano all’anamnesi un trattamento con una storia di NSSI dovrebbero essere considerati portatori di rischio significativo di decesso (Fortune, 2006).

Benché autolesionismo e suicidio siano comportamenti distinti che differiscono nell’intento, nelle modalità e nella funzione, la co-occorrenza dei due agiti si riscontra in un tasso elevato di adolescenti e giovani adulti: tra i campioni clinici di adolescenti, in particolare, una percentuale oscillante tra il 14 e il 70% riferisce storie di entrambe le condotte (Andover et al., 2012). Tradizionalmente classificata come prodromica al suicidio (Asarnow et al., 2011; Guan et al., 2012) o patognomonica di disturbi di personalità[4], la condotta NSSI risulta più comunemente associata a tentativi autosoppressivi, tanto che, nella pratica clinica di alcuni Paesi mitteleuropei come la Polonia, l’agito autolesivo viene impropriamente identificato come tentativo di suicidio, con ampie e deleterie ricadute sul piano trattamentale (Halicka & Kiejna, 2018). In ogni caso, il rischio complessivo di suicidio aumenta dopo un episodio di autolesionismo[5], con un incremento stimato intorno all’1,7% con un follow-up a 5 anni, 2,4% a 10 anni e 3,0% a 15 anni (Farber et al., 2007). Inoltre, circa il 5% dei pazienti autolesionisti con accesso in un Pronto Soccorso o in una struttura ospedaliera si suicida mediamente entro 9 anni dall’episodio autolesionista (Hawton et al., 2018).

Sul piano eziologico, il danneggiamento intenzionale del proprio corpo viene interpretato come risposta ad emozioni negative quali tensione, ansia e difficoltà interpersonali (Chapman et al., 2006) – secondo Casey e colleghi (2008), gli adolescenti sono vulnerabili alla condotta NSSI a causa dei loro elevati livelli di impulsività e reattività emotiva – fino a contemplare vere e proprie forme di autopunizione (Casini, 2021). La messa in atto di simili condotte come punizione autoinflitta o rabbia autodiretta è stata ben evidenziata da accurate ricerche al riguardo (Hooley & St Germain, 2013; Nock et al., 2008) mentre le emozioni più comunemente riferite nell’immediatezza dell’acting out – rabbia, delusione, freddezza, tensione, senso di incolmabile vuoto interiore, depressione, solitudine, rifiuto, abbandono, impotenza, senso di colpa, sensazioni di estraneità e di alienazione dal proprio corpo, pensieri vittimistici (Garish & Wilson, 2015) – testimonierebbero la necessità di tramutare in sofferenza fisica una sofferenza emotiva, più difficilmente gestibile (Hall & Place, 2010). I dati di recenti meta-analisi dimostrerebbero, invece, l’esistenza di trascurabili associazioni tra il fenomeno autolesivo e la riattualizzazione di pregresse esperienze di abuso sessuale in età infantile (Klonsky & Moyer, 2008), fattore in passato frequentemente chiamato in causa dalla letteratura specialistica (Malenchini, 2015). La questione, tuttavia, non è pacifica, poiché altri studi suggerirebbero come minori con abusi sessuali all’anamnesi abbiano in seguito sviluppato maggiori rischi per comportamento self-cutting e ideazione suicidaria (Murray et al., 2008) mentre fino al 79% degli autolesionisti ha sperimentato violenza o rifiuto durante l’infanzia (Yates, 2004).

La funzione primaria di coping e regolazione emotiva per riorganizzare un Sé frammentato, ottenendo sollievo da uno stato cognitivo negativo (Klonsky, 2007) o da stati affettivi avversi (Kamphuis et al., 2007) è ampiamente documentata in letteratura, al pari della natura di regolatore neurofisiologico dell’autolesionismo, mediante il rilascio di oppioidi endogeni (principalmente endorfine ß) e altre sostanze chimiche nel circuito cerebrale a seguito dell’esperienza fisica dolorosa (Sher & Stanley, 2008). Vero è che tale pratica è tipicamente impiegata per ridurre le emozioni indesiderate[6] o per produrre emozioni desiderate (Nock & Prinstein, 2004) e, contrariamente a quanto ritenuto in passato, rappresenterebbe una strategia prevalentemente «privata» (Malanchini, 2015), di rapido sollievo da intense emozioni negative (Nock & Cha, 2009; Klonsky, 2007, Klonsky & Glenn, 2008; Chapman et al. 2006).

La condotta NSSI manifesterebbe, inoltre, le sue potenzialità di gesto comunicativo, una sorta di «narrativa corporea», per molti versi simile alle pratiche del tatuaggio e della scarificazione presenti in numerose culture tribali (Favazza, 1998). A tal proposito, merita sottolineare come uno studio compiuto su soggetti con Body Modifications (i.e. tattoo e piercing «estremi») abbia evidenziato episodi di autolesionismo in età infantile nel 27% dei partecipanti, evocando la natura emulativa delle BMs quando non epifenomenica di franche condizioni psicopatologiche. Altrimenti detto, la significatività della modificazione corporea spazierebbe da una semplice imitazione all’interno di un gruppo di pari ad un sintomo suggestivo per la presenza di una severa psicopatologia, caso in cui la BM potrebbe essere considerata alla stregua di un sostituto terapeutico (Stirn & Hinz, 2008).

Posto che negli adolescenti e nei giovani adulti l’autolesionismo è spesso riconducibile a comportamenti di imitazione dei simili (ossia fenomeni di «emulazione tra pari»), nella maggior parte dei casi esso sembra essere frutto di una difficoltà nella gestione degli affetti negativi e/o nella modalità con cui si affrontano situazioni stressanti. Trattasi delle menzionate strategie di coping, vale a dire quei meccanismi psicologici utilizzati per fronteggiare difficoltà personali ed interpersonali allo scopo di gestire, ridurre o tollerare lo stress derivante dalla problematica in essere (Malanchini, 2015). Lungi dal manifestare univocità di senso (Scordo, 2019), le condotte autolesive devono essere piuttosto considerate il punto di approdo di una molteplicità di percorsi soggettivi differenziati, in ogni caso problematici e dolorosi (Rossi Monti & D’Agostino, 2009).

Autolesionismo Non Suicidario e COVID-19 nella letteratura internazionale

La pandemia da COVID-19 presenta un contesto unico in cui studiare l’impatto dei fattori di rischio per l’autolesionismo non distruttivo negli adolescenti in circostanze di stress elevato, come documentato da una recentissima ricerca (Carosella et al., 2021) in cui partecipanti di sesso femminile (N=91, età 12-16), con esperienze autolesive in atto, hanno completato questionari di auto-segnalazione di NSSI. La valutazione delle variabili esaminate – l’interiorizzazione dei sintomi (ansia, depressione), la percezione dello stress (conflitto familiare, solitudine) e le risorse di coping (regolazione delle emozioni, supporto di amici e familiari) – ha confermato gli outcomes di precedenti studi di settore, dai quali è emerso come, nel contesto restrittivo imposto dalle misure di contenimento, più di un terzo degli adolescenti abbia sperimentato sentimenti di solitudine, associati ad un significativo incremento dei tassi di ideazione suicidaria e autolesionismo (Loades et al., 2020).

L’ondata pandemica e il conseguente stay-at-home hanno provocato concomitanti crisi sanitarie, finanziarie e personali su scala globale, peraltro testimoniate dall’aumento di sintomatologia depressiva, NSSI, ideazione suicidaria e tentativi di suicidio segnalato dagli studenti cinesi a seguito di chiusure scolastiche a causa di COVID-19 (Zhang et al., 2020). La ricerca ha, peraltro, dimostrato come tali stressors abbiano influito negativamente soprattutto sui pazienti con problemi di salute mentale preesistenti (Guessoum et al., 2020). Fattori come il distanziamento sociale e l’istruzione a distanza hanno drasticamente ridotto lo scambio interpersonale con i coetanei[7], aumentando al contempo il contatto con la famiglia, con un impatto variabile sulla salute mentale a seconda delle dinamiche familiari: i contributi in letteratura, infatti, hanno da tempo enfatizzato come un funzionamento familiare scadente correli con un incremento dei tassi di NSSI (Di Pierro et al., 2012).

A ciò si aggiunga che, di fronte alle crescenti richieste – stress finanziario acuto, sviluppo di nuove attività routinarie dal proprio domicilio, obblighi e restrizioni inedite imposte dalle istituzioni ai nuclei familiari – alcuni caregiver potrebbero non disporre delle necessarie risorse cognitive per fornire un adeguato supporto emotivo all’adolescente problematico (Prime et al., 2020). In ogni caso, gli stressors contestuali alla pandemia COVID-19 hanno rivelato associazioni più forti per i soggetti con problemi di salute mentale preesistenti, come una storia di NSSI all’anamnesi (Carosella et al., 2021). Il forte impatto delle misure di sanità pubblica sulla salute mentale è stato dettagliatamente indagato anche attraverso l’esame delle prestazioni ospedaliere per episodi di NSSI a seguito del lockdown in Inghilterra, corroborando i risultati precedentemente emersi al riguardo. In particolare, su 228 pazienti valutati presso le strutture ospedaliere di Oxford e Derby, nel 46,9% dei casi il COVID-19 e le restrizioni alla circolazione delle persone sono state identificate come fattori influenzanti l’autolesionismo. Tale evidenza valeva più per le femmine che per i maschi, seppure in assenza di significative differenze di età, metodi autolesivi o intento suicida tra i due gruppi (Hawton, et al., 2021).

È interessante notare come i fattori maggiormente associati al COVID-19 siano stati i problemi di salute mentale – tra cui nuovi e peggiori disturbi psichici (Golberstein et al., 2020) – la cessazione o riduzione dei servizi alla persona (compresa l’assenza di supporto face-to-face), l’isolamento e la solitudine, il contatto ridotto con figure-chiave, l’interruzione della normale routine e la percezione di «intrappolamento». In molti pazienti, inoltre, sono stati identificati molteplici fattori correlati alla pandemia, spesso interconnessi (Hawton et al., 2021), tra cui stress post-traumatico, ansia, sintomi depressivi, insonnia, rifiuto, rabbia, paura e sintomi legati al dolore (Torales et al., 2020; Guessoum et al., 2020; Rajkumar, 2020; Duan et al., 2020). Del resto, le potenziali implicazioni dell’ondata pandemica per la salute mentale della popolazione generale sono state ampiamente comprovate nell’ultimo biennio (Holmes et al., 2020; Pierce et al., 2020), compresi i possibili impatti sul suicidio e sull’autolesionismo, riportando outcomes sostanzialmente sovrapponibili (Reger et al., 2020; Gunnell et al., 2020; Niederkrotenhaler et al., 2020).

Va, tuttavia, segnalata una riduzione nelle presentazioni ospedaliere per autolesionismo durante la prima ondata pandemica in Spagna (Hernandez-Calle et al., 2020), Francia (Joillant et al., 2021), Irlanda (McIntyre et al., 2020), e Inghilterra (Chen et al., 2020; Hawton et al., 2021). Inoltre, le ricerche non hanno indicato alcun aumento dei tassi suicidari durante i primi mesi della pandemia in diversi Paesi, come nel Queensland, in Australia (Leske et al., 2021) e in Norvegia (Qin & Mehlum, 2021). Evidentemente, fattori protettivi specifici hanno giocato un ruolo fondamentale nel contenimento delle condotte deliberatamente autodistruttive (Carosella et al., 2021). Ciononostante, forti preoccupazioni destano gli effetti a lungo termine della pandemia, in particolare la disoccupazione, i problemi finanziari e i lutti, che potrebbero condurre ad un incremento dei comportamenti autosoppressivi, come recentemente riportato dal Giappone per quanto riguarda i suicidi nelle donne e nei giovani (Tanaka & Okamoto, 2020).

La rilevanza delle variabili psicosociali[8] quali fattori di rischio COVID-19-correlato in età adolescenziale è emersa anche nel continente asiatico mediante un’indagine condotta su un campione di 1,060 studenti di scuola media inferiore di Taiwan, evidenziando un tasso di condotte NSSI pari al 40,9% nel periodo pandemico. I risultati hanno suggerito una prevalenza di vittime di sesso femminile, facendo registrare punteggi significativamente più alti in termini di nevroticismo, depressione, impulsività, alessitimia, supporto sociale virtuale[9], insoddisfazione per il rendimento scolastico e punteggi inferiori in termini di benessere soggettivo, autostima, supporto sociale effettivo e funzione familiare rispetto al gruppo di controllo. In particolare, l’autolesionismo non suicidario, estremamente frequente in questa fascia di popolazione, riconosce nei tratti di personalità disfunzionali e nell’ambiente virtuale i principali stressors alla base del comportamento indagato (Tang et al., 2021).

Anche in Cina l’autolesionismo non suicidario negli adolescenti ospedalizzati con disturbi psichiatrici all’anamnesi ha conosciuto un sensibile incremento durante l’ondata pandemica, come documentato dall’analisi retrospettiva delle cartelle cliniche dell’ospedale psichiatrico di Chengdu, nel periodo compreso tra gennaio 2016 e marzo 2021, durante il quale dei 609 pazienti adolescenti, 420 erano stati coinvolti in episodi di autolesionismo. Nello specifico, la percentuale di adolescenti impegnati in NSSI nel 2016 è stata del 29,2%, raggiungendo il 34,5% nel 2017, il 45,7% nel 2018, il 61,3% nel 2019, con picchi del 92,5% nel 2020 e 95,9% nel 2021. Al suddetto incremento si è associato un abbassamento dell’età media di esordio del disturbo unitamente ad un aumento della durata del medesimo. I ricercatori hanno acclarato un’associazione significativa di key-factors specifici – i.e. composizione familiare, rapporto disfunzionale con le figure parentali, uso eccessivo del telefono cellulare e modalità stressanti di apprendimento online – con NSSI durante la pandemia, ben distinti dai fattori pre-pandemici. La mutata composizione delle variabili psicosociali correlate ai comportamenti autolesivi ha, pertanto, giocato un ruolo di prim’ordine per la comprensione del fenomeno oggetto di indagine (Du et al., 2021).

Uno studio trasversale condotto su un campione di 234 studenti universitari coreani ha indagato la correlazione tra variabili soggettive quali depressione, abuso alcolico e autolesionismo non suicida durante il periodo di lockdown, da marzo a dicembre 2020 (Kim et al., 2021). Benché la maggior parte dei contributi scientifici si sia concentrata sulla popolazione adolescenziale (Tang et al., 2021), la ricerca ha evidenziato come la pandemia abbia provocato cambiamenti anche nello stile di vita e nelle abitudini potatorie del gruppo sperimentale, appartenente ad una fascia di età decisamente più alta. In particolare, più di uno studente su tre ha mostrato comportamenti NSSI durante il periodo restrittivo, facilitati da un considerevole incremento dell’uso di bevande alcoliche: condotte di binge drinking, infatti, sarebbero alla base del rafforzamento della relazione tra depressione e autolesionismo. Il consumo problematico di alcol sembra, inoltre, ridurre l’ansia per le lesioni fisiche e la naturale avversione per le pratiche autolesive (Hasking et al., 2021).

Ricerche emergenti hanno indagato altri fattori di vulnerabilità – solitudine e ansia per la salute correlate a COVID-19 amplificate dal disagio adolescenziale, in un campione di 362 adolescenti delle scuole medie e superiori nel Maine rurale (Stati Uniti) – quali fattori predittivi di un aumento di sintomatologia depressiva, NSSI e rischio di suicidio nel periodo compreso tra fine gennaio/inizio febbraio 2020 e giugno 2020. La solitudine prediceva sintomi depressivi più elevati per tutti gli adolescenti, una frequenza di NSSI più alta per gli adolescenti con bassa frequenza pre-pandemica (ma NSSI meno frequenti per gli adolescenti con alta frequenza pre-pandemica) e un rischio autosoppressivo più elevato per gli adolescenti con rischio pre-pandemico più alto. L’ansia per la salute, invece, era predittiva di una maggiore frequenza di NSSI per gli adolescenti con un’elevata frequenza pre-pandemica, sottolineando come la diffusione del COVID-19 abbia, in ogni caso, provocato conseguenze sulla salute mentale degli adolescenti, con benefici per alcuni, ma con esiti ampiamente negativi per la maggior parte di essi (Schwartz-Mette et al., 2022).

L’autolesionismo prepandemico ha rappresentato, invece, un importante fattore predittivo per NSSI durante la pandemia nei giovani adulti partecipanti ad uno studio longitudinale svizzero (N=786, età 22 anni). Accumulo di stress COVID-correlato e assenza di strategie di coping adattative sono state le variabili principalmente associate alle condotte autolesive agite nel periodo considerato (Steinhoff et al., 2021). Sebbene l’ondata pandemica abbia generato situazioni nuove ed eccezionali per i componenti del gruppo sperimentale, i comportamenti dannosi devono considerarsi ragionevolmente correlati all’evoluzione comportamentale prepandemica. Vi sono forti prove in letteratura di ricorrenza longitudinale di comportamenti violenti in età adolescenziale, tra cui appunto l’autolesionismo (Moran et al.;2012; Plener et al., 2015).

Misure restrittive come la chiusura delle strutture scolastiche finalizzata a limitare la trasmissione virale – le scuole secondarie rappresentano un ambiente ideale in cui identificare in modo appropriato gli studenti con pratiche autolesive in atto, posto che la condotta esaminata esordisce, in genere, durante la prima metà dell’adolescenza (Plener et al., 2015) – si è dimostrata deleteria sul piano soggettivo, esacerbando ansie pregresse e ponendo nuovi e diversi fattori stressogeni, in grado di aumentare cumulativamente il rischio di autolesionismo (Hasking et al., 2021). Del resto, l’impatto negativo sulla popolazione studentesca, sull’accesso alle cure e sulla vita familiare, tradottosi in un incremento del rischio NSSI, era stato già evidenziato da autorevoli ricerche sul campo (Ghosh et al., 2020). L’incremento una tantum di condotte autolesive nel periodo pandemico 2020-2021 – con un picco del 27,6% contro il 17% circa registrato negli anni 2011 e 2014, in linea con il tasso lifetime costantemente riscontrato nei campioni comunitari di adolescenti (Monto et al., 2018) – è stato, altresì, acclarato su un campione rappresentativo di studenti di istituti superiori svedesi e interpretato come espressivo di dinamiche fortemente angoscianti, conseguenti alle restrizioni e all’isolamento sociale (Zetterqvist et al., 2021).

Uno dei campi di indagine emergenti nel periodo pandemico è senz’altro rappresentato dal potenziale impatto dell’uso estensivo dei social media tra gli studenti. Benché oggetto di analisi attualmente in corso, i risultati preliminari dimostrano come, per gli individui inclini a pratiche NSSI, le attività online svolgano un ruolo di primaria importanza, posto che le risorse di rete sono considerate al servizio di compiti evolutivi critici per l’adolescente, come lo sviluppo dell’identità e delle aspirazioni e il coinvolgimento tra pari (Uhls et al., 2017). Del resto, la letteratura specialistica ha già dimostrato in passato il ruolo ambivalente rivestito da Internet per i giovani che si autolesionano (Lewis & Seko, 2016).

Conclusioni

La malattia da SARS-CoV-2 ha comportato una profonda trasformazione delle abitudini di vita a livello globale: in particolare, l’isolamento, la limitazione dei contatti sociali e la chiusura delle attività economiche hanno imposto un drastico cambiamento dell’ambiente psicosociale dei Paesi colpiti dall’ondata pandemica. Tali misure si sono, inoltre, rivelate una potenziale minaccia per la salute mentale di bambini e adolescenti, spesso tradottesi in un significativo incremento dei tassi di condotte autolesive nella popolazione giovanile (Fegert et al., 2020), come ampiamente riferito dalla recentissima letteratura internazionale. A causa dell’alto tasso di rilevamento, dell’alto rischio e dell’elevata ripetibilità, il comportamento autolesivo è divenuto uno dei problemi di salute pubblica più allarmante al mondo (Du et al., 2021).

Sebbene l’assenza di dati specifici nei periodi immediatamente antecedenti l’inizio della pandemia non consenta di stabilire con certezza se l’incremento di condotte NSSI riscontrato nella letteratura internazionale sia causalmente riconducibile all’ondata pandemica – è, pertanto, possibile che detto aumento sia apparso prima dell’inizio della medesima – la mancanza di outcomes indicanti una crescita ragguardevole di agiti autolesivi nella popolazione adolescenziale prima del 2020 lascia ragionevolmente supporre una correlazione tra i due eventi (Zetterqvist et al., 2021). In ogni caso, le conseguenze psicosociali a lungo termine dell’emergenza sanitaria globale impongono di indagare attentamente le ripercussioni della stessa sulla salute mentale della popolazione giovanile e adolescenziale in maniera prioritaria (Fegert et al., 2020).

L’impatto del COVID-19 sul benessere psicofisico della popolazione mondiale, amplificando le ansie preesistenti e l’isolamento sociale e riducendo le possibilità di accesso alle risorse tradizionali, pone ulteriori sfide, principalmente per gli adolescenti, soggetti a più alto rischio NSSI (Hasking et al., 2020). Conferme circa l’associazione tra lo stress correlato a COVID-19 e l’autolesionismo deliberato sono, infatti, giunte da una recentissima indagine su un campione di adolescenti canadesi (N=809; età 12-18), che ha dimostrato come la non accettazione delle risposte emotive e l’accesso limitato alle strategie di coping[10] abbiano svolto un ruolo saliente nell’associazione suddetta (Robillard et al., 2021). Sarà, pertanto, necessario orientare le future direzioni di ricerca e di intervento in favore dei gruppi di popolazione maggiormente vulnerabili, avvalendosi di robusti dati comunitari su larga scala (Steinhoff et al., 2021) per comprendere adeguatamente lo sviluppo delle traiettorie emergenti della condotta NSSI.

 

Bibliografia

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  1. Secondo i criteri del DSM IV-TR (APA, 2000), i comportamenti autolesionistici rappresentano uno dei criteri identificativi del Disturbo Borderline di Personalità. La letteratura scientifica ha, tuttavia, rivelato che dette modalità comportamentali non sono esclusive del Disturbo Borderline, potendosi riscontrare anche in altre categorie diagnostiche, tra cui disturbi d’ansia, depressione, abuso di sostanze, disturbi della condotta alimentare, schizofrenia e altri disturbi di personalità. Inoltre, molti degli individui che manifestano ricorrenti atti autolesivi non soddisfano i criteri per il Disturbo Borderline di Personalità (Malanchini, 2015).

  2. Nonostante la varietà di modalità autolesive, la letteratura specialistica enuclea tre categorie di agiti intenzionali: Cutting: tagliarsi con un oggetto affilato; Burning: provocarsi bruciature o ustioni; Branding: marchiarsi con oggetti roventi (Adler & Adler, 2007).

  3. La pratica viene definita da Nock (2010) come la distruzione deliberata del tessuto corporeo in assenza di intento autosoppressivo.

  4. Già in passato, elevati tassi di NSSI (14%-17%) riscontrati nella popolazione giovanile sono stati considerati suggestivi per problemi psichiatrici maggiori (Klonsky & Olino, 2008). Nella popolazione generale, il fenomeno è stato frequentemente riscontrato nei pazienti affetti da Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) (Kerr et al., 2010, Yates, 2004).

  5. Secondo uno studio condotto da Farber et al., (2007), i maschi con bulimia e con esperienza di analgesia durante il self-cutting risulterebbero maggiormente esposti al rischio di suicidio, così come i giovani con lacerazione ai polsi rispetto a coloro che hanno attinto l’area volare degli avambracci. Inoltre, sebbene il suicidio sia prevalentemente il risultato di problemi cronici dei self-cutters, reazioni acute possono condurre all’autosoppressione, seppur raramente.

  6. Secondo il modello di evitamento esperienziale di Chapman, gli individui si impegnano in NSSI per sfuggire alle emozioni indesiderate, principalmente mantenute dal rinforzo negativo (Chapman et al., 2006).

  7. Alcune evidenze scientifiche hanno dimostrato che i pari possono fornire strumenti sufficienti per la mitigazione di distress e, quindi, possono essere responsabili di una diminuzione del ricorso a pratiche autolesive (Muehlenkamp et al., 2013).

  8. Numerosi sono gli studi empirici ad avere indagato le associazioni tra NSSI e fattori di rischio psicosociale negli adolescenti (Baetens et al., 2014; Fox et al., 2015; Hankin & Abela, 2011; Martin et al., 2016; Tuisku et al., 2014).

  9. Recenti studi hanno dimostrato che lo stress degli adolescenti durante il COVID-19 era correlato a solitudine e depressione, proporzionalmente al tempo trascorso sui social media (Ellis et al., 2020). Pertanto, un uso eccessivo di Internet potrebbe aggravare i problemi mentali e innescare la condotta NSSI.

  10. Uno stato di stress difficilmente gestibile, come quello innescato da un’emergenza sanitaria globale, può alimentare negli adolescenti la percezione di impotenza nella modulazione efficace di emozioni negative quali rabbia, frustrazione, dolore, senso di colpa, tristezza e noia (Demkowicz et al., 2021; Singh et al., 2020).

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