Minori e Programma di Protezione per i collaboratori di giustizia

 In FocusMinori, N. 2 - giugno 2011, Anno 2

Un settore molto particolare e ancora poco indagato, riguarda i minori posti sotto protezione in quanto figli di testimoni o collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti.

Occorre innanzi tutto rilevare che il fenomeno del “pentitismo” ha influenzato, negli ultimi anni, in maniera estremamente rilevante sia il sistema giuridico italiano, che la lotta alla criminalità organizzata. Innegabile è l’apporto, a livello di conoscenze in merito alle strutture delle maggiori organizzazioni criminali del nostro Paese, che gli “storici” collaboratori della giustizia hanno fornito. Spesso si è cercato di creare intorno a tali personaggi un alone di mistero e di curiosità ma, accanto a questi aspetti quasi romanzati, esistono realtà totalmente diverse che celano, e al contempo presentano, risvolti spesso drammatici e sottodimensionati.

Lo Stato, di fronte al crescente numero di collaboratori della giustizia, ha ritenuto opportuno emanare una specifica normativa per regolamentare il fenomeno, ed ha costituito specifiche strutture organizzative finalizzate alla messa in atto di tutti i necessari adempimenti connessi alla protezione di coloro che, facendo una scelta collaborativa, rischiano la propria vita e quella delle loro famiglie.

Oltre ai Collaboratori di giustizia, ovvero ex criminali che sono passati, per vari motivi, dalla parte dello Stato, esistono anche i Testimoni di giustizia, gente comune che si è opposta alla criminalità organizzata (persone taglieggiate, usurate, o testimoni oculari di delitti), che a causa di questa scelta civica sono diventati soggetti a rischio di vendette dirette o trasversali.

Il Programma di Protezione (definito dalla legge n.82/91) consiste, quindi, in una serie di misure di tutela, di assistenza e di recupero sociale che, anche in deroga alle norme vigenti, permettono di assicurare al collaboratore e agli eventuali familiari, condizioni di massima sicurezza e di ricostruire un vero e proprio progetto di vita.

Le misure più importanti previste dal Programma di Protezione sono:

  • tutela ed assistenza;
  • i documenti di copertura (creazione di una identità fittizia temporanea);
  • il cambiamento delle generalità (creazione di una identità fittizia permanente);
  • misure alternative alla detenzione;
  • assistenza legale;
  • reinserimento sociale all’atto dell’uscita dal Programma di Protezione.

Al fine di assicurare la migliore tutela dei soggetti protetti, l’ufficio preposto basa la sua attività sul principio della “mimetizzazione”, che consiste nel raggiungimento della condizione di totale anonimato. Considerando la riservatezza come fattore prioritario, rappresenta una misura di protezione più efficace rispetto a quelle “tradizionali”: scorta, posto fisso, ecc.

Trasferire i collaboratori e i loro familiari in aree sicure, significa costruire, per quanto possibile, condizioni di vita “normali”: casa, lavoro, scuola, ecc.

La prima e più efficace misura tutoria messa in atto è dunque quella dell’allontanamento del nucleo familiare protetto dalla località di origine. A questo spostamento “coatto” segue l’attribuzione di un nominativo diverso, denominato appunto “di copertura”. Tali sostanziali modifiche della normale vita familiare e relazionale, se comportano un forte impatto psicologico su un adulto, determinano in un bambino un trauma difficilmente superabile.

Vediamo in pratica cosa avviene quando si viene ammessi ad un Programma di Protezione, ma soprattutto esaminiamo cosa “vive” un minore in tale circostanza.

I figli delle persone inserite in un Programma di Protezione devono affrontare una vera e propria rivoluzione della loro vita, in primo luogo devono abbandonare immediatamente la propria città. Vedono i genitori fare i bagagli il più rapidamente possibile, una macchina della polizia arriva di notte e li porta via: non c’è tempo né possibilità di salutare nessuno. Se sono a conoscenza della vita passata dei genitori, i bambini si trovano a vivere una situazione ambigua e contraddittoria: salgono in macchina chiedendo protezione alla stessa polizia che avevano imparato a temere e disprezzare. I nemici, coloro che venivano per perquisire la casa o per arrestare qualcuno, diventano gli amici e coloro che fino a poco prima avevano considerato amici, divengono quelli da temere. Se non sono a conoscenza della vita dei genitori, non capiscono cosa sta avvenendo, ma avvertono la paura, cercano di captare notizie, sono confusi e finiscono col perdere la fiducia in tutti, compresi i genitori.

Consapevoli o no di ciò che sta accadendo, i bambini iniziano la loro nuova vita con una perdita, difficilmente superabile: quella dei parenti, degli amici, dei compagni di scuola, della loro casa, delle loro abitudini. Se tale situazione è per l’adulto superabile psicologicamente dalla consapevolezza di avere operato una scelta, per il bambino non è così. Egli non è in grado di elaborare cognitivamente la situazione che sta vivendo, non comprende perché si è dovuto allontanare dai nonni, perché non può dire il suo nome, né da dove viene. Non capisce perché adesso deve diffidare di tutti. Non meno problematica è la situazione psicologica del preadolescente e dell’adolescente che, seppure consapevole di quello che sta accadendo, si trova costretto, in una particolare e delicata fase del suo sviluppo, a doversi staccare dal proprio gruppo amicale e cambiare identità, quella identità che faticosamente, sta cercando di costruire; essi patiscono la cosiddetta “sindrome da sradicamento” che li isola e li disinserisce dal loro originario reticolo sociale e questo all’improvviso, ripetutamente. Le condizioni di sicurezza, infatti, vengono a variare da un giorno all’altro e ci si può trovare, nel giro di 24 ore, a trasferirsi da un posto all’altro, con conseguenti difficili riadattamenti e perdite. Una vita errabonda fatta di trasferimenti che interferiscono con l’instaurarsi di legami stabili, cosicché, per prevenire il dolore da perdita, questi piccoli o giovani imparano ad evitare il coinvolgimento emotivo, affrontando, giorno dopo giorno, un’esistenza di bugie. Bugie da ricordare per mantenere una storia coerente e credibile. Il timore di sbagliare, di contraddirsi li spinge a non parlare, ad isolarsi. Vivono in un clima di paura e di diffidenza, si abituano a controllare se la porta di casa è chiusa, verificano gli sguardi dei passanti, evitano i luoghi affollati.

Minori e scuola

Le statistiche pongono l’accento sui molteplici disagi e traumi che i minori sono costretti a subire in costanza di una vita blindata, soprattutto laddove si consideri che già nel corso della loro vita “normale”, nella località di origine, sono vissuti in famiglie inserite in sottoculture criminali, dove lo stile ed il tenore di vita sono dettati dall’appartenenza ad un determinato gruppo. Questi minori presentano spesso già disturbi di adattamento, di apprendimento, forme di regressione del comportamento, disturbi dell’attenzione, nonché iperattività, inibizione, aggressività, ansia, disturbi del sonno e alimentari. Ai quali è possibile che si aggiungono depressione, crisi di identità, senso di abbandono e di colpa. L’autolesionismo è frequente e le tensioni familiari altissime, anche perché la scelta collaborativa può non essere condivisa dal resto della famiglia che si trova però a subirne le pesanti conseguenze. Questa è la realtà che gli Organi preposti alla tutela del Dipartimento di Pubblica Sicurezza si trovano ad affrontare.

Il numero dei minori sottoposti a tutela non appare insignificante. Dall’ultima relazione presentata al Parlamento dal Ministero dell’Interno risultano essere quasi 2.000, con un’età compresa per il 30% tra i 6 e i 10 anni; il 45% tra gli 11 ed i 15 anni ed il 25% tra i 16 ed i 18 anni.

Come già anticipato, i minori introdotti nel Programma di Protezione sono costretti a reinventarsi un’identità nel momento in cui gli viene attribuito un nome di copertura ed un nuovo modo di vivere. Ciò può accadere anche più di una volta, se esigenze di sicurezza e di riservatezza impongono ulteriori trasferimenti di abitazione, con conseguente cambio di nome di copertura, di scuola ecc. Casi di disagio psicologico, disadattamento, insofferenza alle regole, aggressività sono, infatti, riscontrabili tra i minori sotto protezione e vengono per di più registrati in ambito scolastico.

Il diritto allo studio e la frequenza scolastica sono ritenuti obiettivi primari da perseguire, proprio per questo, mediamente ogni anno vengono iscritti a scuola con procedure particolari circa 2.000 studenti suddivisi fra materne (13%); elementari (64%); medie inferiori (9%); medie superiori (14%); (Ministero dell’Interno). Questo nonostante che, per motivi di riservatezza, i trasferimenti operati spesso da una provincia all’altra e difficilmente programmabili in tempi ragionevoli possono comportare ritardi nelle iscrizioni scolastiche, con conseguenze sotto il profilo del rendimento scolastico. I problemi scolastici, sia sotto l’aspetto pratico che nelle loro implicazioni psicologiche, sono forse i più delicati tra quelli che quotidianamente si affrontano nell’attività di protezione e di assistenza dei minori. D’altronde la sicurezza che si deve perseguire implica l’anonimato, che si raggiunge attraverso l’attribuzione di un nome fittizio.

Tuttavia, spesso, a poco vale imporre al bambino, non perfettamente consapevole delle finalità che si intende perseguire, il cambio delle generalità: inconsapevolmente il vero nome viene ugualmente rivelato. Dall’esame delle schede di valutazione scolastica che gli insegnanti redigono periodicamente, infatti, emergono frequenti casi di problemi di identità connessi proprio all’utilizzazione del nominativo fittizio: i minori, soprattutto i più piccoli, quando vengono chiamati dagli insegnanti o non rispondono, oppure, se lo fanno, ciò avviene con notevole ritardo, dopo averci riflettuto, semplicemente perché non ricordano in quel momento quale nome gli è stato attribuito. Così come si sono verificati casi di bambini che sentendo chiamare il loro vero nome riferito ad un altro, per un semplice caso di omonimia, vengono colti da crisi di pianto e fuggono temendo di essere stati “scoperti”.

A volte sono gli stessi genitori a rifiutare il cambiamento delle generalità al fine di non turbare l’equilibrio psichico dei figli, nei cui confronti non saprebbero come spiegare la necessità di portare un diverso nominativo. Altre volte ancora si verificano casi di genitori che rifiutano di mandare i figli a scuola, anche quella dell’obbligo, per evitare il trauma del nuovo inserimento. Importante, in questi casi, è l’apporto professionale volto a convincere e assiste queste persone. I problemi interni alla scuola diventano poi particolarmente gravi nel caso di minori affetti da patologie psichiche o fisiche bisognosi di specifica assistenza solitamente fornita dai Comuni, ma solo per i residenti.

La famiglia

La famiglia, insieme alla scuola, gioca un ruolo fondamentale nel processo di maturazione psicologica del minore, i cui problemi si moltiplicano se costretto a vivere in un contesto familiare che non gli garantisce l’appoggio necessario per affrontare le innumerevoli difficoltà di una vita “mimetizzata”. La causa di disagio psicologico dei minori sotto protezione più frequentemente riscontrata è quella connessa al “frazionamento” del nucleo familiare. Un primo motivo di “frammentazione” è dato dalla separazione legale o di fatto dei coniugi, con l’aggravante di un possibile disaccordo tra loro riguardo l’affidamento dei figli. Situazione che comporta la collocazione di un coniuge in una regione e dell’altro in un’altra, con conseguente sporadico incontro del genitore non affidatario dei figli. E, laddove tali incontri vengono organizzati, hanno luogo sempre presso strutture di polizia per evidenti motivi di sicurezza. Il secondo motivo di divisione è da ricercarsi nell’accettazione delle misure di protezione da parte di uno soltanto dei genitori. In questo caso il genitore protetto viene domiciliato in una località segreta, ovviamente non conosciuta dai familiari rimasti nella località di origine. In tali circostanze gli incontri del minore con il genitore non affidatario sono quasi impossibili: il bambino, durante l’incontro, potrebbe involontariamente riferire particolari che potrebbero rivelare informazioni connesse alla protezione. Altra causa di problematicità per i minori è lo stato detentivo in carcere di uno o addirittura di entrambi i genitori, ai quali è consentita la frequentazione del genitore detenuto, generalmente il padre, solo in occasione dei previsti colloqui o permessi. Ci sono poi casi di minori che non hanno mai conosciuto il proprio padre, in quanto la madre, presa coscienza delle attività criminali svolte dal partner, ha preferito allontanarsi e troncare ogni rapporto, denunciandolo e chiedendo per se e per il figlio un Programma di Protezione.

Causa di molteplici disagi per i minori, sono infine, i problemi interni alla famiglia, spesso disfunzionale: incapacità educativa, privazione di formazione scolastica, handicap fisici o psichici, affidamento a terzi, maltrattamenti fisici o psicologici. Di cui le istituzioni possono essere in parte corresponsabili. Infatti, nel caso in cui si rileva un maltrattamento di minore da parte dei genitori, a seconda dei casi, occorre dirimere la situazione di violenta conflittualità tra i coniugi trasferendo parte della famiglia in altra località o allontanando i minori dal domicilio del genitore molestatore, con contestuale denuncia e affidamento, da parte del Tribunale per i Minorenni, all’altro genitore (se possibile) o procedendo al collocamento in istituto idoneo. È vero che situazioni di questo genere si verificano anche in famiglie “normali”, ma l’aggravante per chi è sottoposto ad un programma di protezione è che non possono scattare quelle condizioni che rendono meno traumatico l’evento al bambino, cioè la presenza di nonni, zii, compagni di scuola ecc.; l’isolamento dal contesto di origine è un presupposto imprescindibile per chi deve essere protetto.

Malgrado il costante monitoraggio delle condizioni dei minori si è costretti a riscontrare casi di maltrattamento su bambini sotto protezione, da parte di uno dei genitori, sia di ordine fisico che psicologico: emblematico, ma purtroppo non sporadico, è il caso di una madre che volontariamente metteva in atto accorgimenti mirati a far colpire la figlia dodicenne da varie patologie. La bambina era poi costretta a richiedere pressantemente, in quanto appunto malata e bisognosa di assistenza, la presenza del padre (detenuto), al quale il Tribunale di Sorveglianza, valutata la situazione concedeva permessi per uscire dal carcere. Così facendo la madre raggiungeva lo scopo di avere a casa il marito almeno per un po’ di tempo.

Il Programma di Protezione

Le problematiche dei minori sotto protezione, come abbiamo avuto modo di vedere, sono complesse e multi-determinate. Variano notevolmente non solo in base all’età del minore, ma anche in funzione dell’estrazione sociale, delle esperienze vissute prima e durante la protezione, delle caratteristiche del nucleo familiare, delle esperienze di attaccamento e della presenza di valide figure di riferimento e di identificazione. Valutando sulla base dell’esperienza degli operatori del settore si rileva che tutti gli organismi preposti alla protezione, ma soprattutto tutte le persone che operano all’interno di tali organismi, sono in possesso di alta professionalità e svolgono il loro lavoro coscienti della delicatezza del loro incarico.

Proprio in questa ottica e con tali finalità si inseriscono tutti quei progetti di prevenzione, trattamento e reinserimento tesi ad offrire ai minori sotto protezione nuove e migliori opportunità di crescita e di sviluppo. I risultati sono sicuramente incoraggianti perché, a fronte dei casi negativi riportati dalla cronaca, ci sono molte altre situazioni delle quali nessuno parla, ma che rappresentano grandi successi per il recupero di tanti soggetti, ad esempio i figli di mafiosi o camorristi, che, se lasciati nel loro ambiente, non avrebbero alternative ed il loro futuro sarebbe solo in ambito criminale.

La questione è comunque ancora aperta, il fenomeno del pentitismo è relativamente giovane, solo con appropriati studi sociologici si potrà, in futuro, valutare concretamente i risultati ottenuti, al momento ciò che è possibile affermare senza timore di smentita è che il Programma di Protezione, così com’è strutturato, consente ampi livelli di sicurezza. Affianca, ad un inevitabile disagio iniziale, un piano di reinserimento sociale che viene avviato già durante la protezione per concretizzarsi al momento dell’uscita dal circuito tutorio. Inoltre le persone sottoposte al programma sono costantemente seguite da personale specializzato e professionisti della salute mentale che non si occupano esclusivamente della sicurezza ma anche di assistenza a 360 gradi.

 

BIBLIOGRAFIA

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Montecchi F., Gli abusi all’infanzia, NIS, Roma, 1994.

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