Dinamiche di interazione ed aggressività

 In FocusMinori, N. 1 - marzo 2011, Anno 2

«Le tracce che i genitori lasciano sull’individuo sono indelebili; ma con il tempo sbiadiscono e impallidiscono, a seconda dei modi con cui il soggetto riesce a porvi rimedio»

P. Tisseron

 

Bello e giusto, καλός κάι αγαθός era l’eroe di omerica memoria. Un ideale di uomo onesto e leale, esempio di dignità e integrità morale per tutti, incarnazione integerrima dei valori supremi dell’umanità.

Ma i tempi sono cambiati e ciò che va di moda oggi è il gusto per l’eccesso, in ogni sua forma. Si va sempre più delineando un nuovo tipo di eroe, un nuovo mito: il bello e dannato, che porta con sé un universo di significati opposti.

La società odierna privilegia quale modalità esistenziale quella dell’avere, incentivando ogni sorta di consumi e inducendo una gran quantità di bisogni fittizi lasciando nel contempo un gran vuoto nell’anima. Un vuoto da riempire sempre più spesso attraverso la trasgressione e lo “sballo”.

È chiaro che in questa sede non si intende compiere un’approfondita analisi sociologica, ma appare opportuno tracciare a grandi linee le coordinate socio-culturali in cui nasce e matura il desiderio di “dannazione” insito in molti giovani, che trova nella trasgressione il suo “valore”.

Si storpia e strumentalizza il motto oraziano carpe diem, “cogli l’attimo” adducendolo quale scusa per legittimare qualsivoglia azione. Ogni occasione di vita deve per forza essere potenziata, perché l’Essere non riesce più a percepirsi se non facendo ricorso a qualche forma di “additivo”.

Sempre meno degno di considerazione è “l’antico gesto eroico”, rischioso è vero, ma sempre onesto, leale e altruista. Al suo posto prende forza un nuovo tipo di rischio: il rischio fine a se stesso. Quello che ieri era considerato un comportamento svalutante, in quanto giudicato un disvalore, oggi lo si ritiene un’abilità sociale peraltro molto richiesta, soprattutto per chi vuole raggiungere la posizione di leader nel gruppo.

È vero, le prevaricazioni tra ragazzi sono sempre esistite, come del resto nel mondo degli adulti, ma questo non significa che non abbiano conseguenze negative sulla vita delle persone coinvolte. E il crescente interesse manifestato a livello europeo verso comportamenti sempre più trasgressivi e le misure messe in atto per ridurli sono conseguenza del riconoscimento sia di una loro maggiore pericolosità che del loro aumento. Tant’è vero che individuare l’origine dei disturbi della condotta in età giovanile ha assunto in questi ultimi anni una pregnanza particolare per gli studiosi delle scienze dello sviluppo.

Diretta è la correlazione tra “bullismo” persistente, comportamenti antisociali e criminalità da una parte e vittimologia, forti disagi personali e sociali, fino al suicidio, dall’altra. Importante, quindi, non limitarci a un mero confronto con il passato guardando i comportamenti in sé per sé, ma considerarli alla luce dei cambiamenti sociali e culturali, perché sono questi che danno un significato diverso alle prepotenze.

La trasgressione non è più una caratteristica tipica del periodo adolescenziale (l’età si abbassa costantemente), ma sta diventando la “norma” o quantomeno fa “tendenza”, in una continua gara al rialzo e all’estremizzazione dei comportamenti, tanto da dare la sensazione che i processi di differenziazione dall’adulto e la ricerca di una propria identità si debbano esprimere, per forza, attraverso la manifestazione di comportamenti ostili o violenti. Per di più, a livello sociale, si assiste a un deterioramento dell’autorevolezza degli adulti e di conseguenza anche del loro controllo sui figli: elementi che sorreggono un innalzamento della soglia di tolleranza verso le prepotenze, complici in larga misura anche certi programmi e forme di pubblicità televisive che, unite allo spirito di emulazione, determinano una maggiore estensione e criticità dei comportamenti aggressivi.

È il senso educativo in generale, la dimensione emotiva, la tenerezza, la gioia, la calma, il sentirsi appoggiati, il piacere di essere guidati nella scoperta delle cose, il gusto della conquista e della conoscenza costruita passo passo; sono questi i valori che sembrano essere sempre meno presenti nella vita di bambini e ragazzi. La relazione con sé e con gli altri è sbilanciata dalla fretta, dall’impazienza, dall’attenzione fuggevole, riducendo drasticamente la capacità di comprendere i propri e gli altrui sentimenti. La continua corsa alla ricerca di nuovi stimoli, di nuova adrenalina porta alla diminuzione della capacità di ascoltarsi e di sentire, alla perdita di contatto con le sensazioni e gli affetti ad esse correlate, ad una “povertà” emotiva che sfocia nell’azione immediata o nell’ostilità ripetitiva che copre le emozioni più profonde quali paura, vergogna, prossimità.

Il risultato è quello che alcuni studiosi di psicologia sociale chiamano il “pensiero debole”. Un pensiero lassista e opportunista, troppo spesso mal celato dietro paroloni rassicuranti e altisonanti. Pensiero che contribuisce alla formazione di una società che sempre più sta perdendo “vecchie” certezze senza acquistarne delle nuove, e questo sembra essere il primo grande ostacolo verso una formazione vera e costante di una cultura dell’altro. È innanzitutto questa forma di pensiero che sottintende le azioni violente, che la società, rappresentata dalle sue istituzioni, deve contrastare. Troppo spesso quello che oggi chiamiamo “bullismo” è realizzato attraverso un’aggressività estremamente distruttiva messa in atto da individui con un’inadeguata empatia, ma nel contempo una spropositata apparente opinione di sé. Individui capaci di agire comportamenti ben organizzati e funzionali per raggiungere il proprio obiettivo: mortificare, soggiogare, violentare, conquistare, ottenere beni materiali.

“Sangue, Sesso, Soldi. Le famose “tre S”, ormai diventate le “cinque S” con l’aggiunta dello “Spettacolo” e dello “Sport”.”S” tante volte “incoraggiate” da una società troppo spesso auto-celebrativa dell’Io, che tutto traduce nell’agognata “sesta S”. Il “Successo”. E se è vero che l’atteggiamento dei ragazzi riflette quello degli adulti, dalle cui esperienze non sono più protetti come un tempo, la contraddizione di una società consumistica e edonista, in cui prevalgono i valori del successo e del vincente ad ogni costo, induce molti giovani a non trovare motivo di investire le loro energie nella preparazione di un futuro che avvertono incerto e instabile. Ecco allora che le azioni illegali o non conformi ai principi etici/morali possono celare l’idea di un progetto volto ad acquisire e consolidare una reputazione. Quella del “bello e dannato”, appunto. Il “bullismo” può essere concepito come una nicchia ecologica[1], delineata dalla drammatica complementarità del carnefice e della vittima. Tuttavia il “bullo” non agisce da solo, non è una cellula isolata, dato che risulta bene inserito e trova terreno di sviluppo e sostegno nel gruppo dei pari. Nella quasi totalità dei casi viene espressa antipatia e rifiuto nei confronti della vittima, mentre il prepotente acquista desiderabilità amicale rappresentando nel gruppo un polo di attrazione.

Sfiducia e talvolta sfida verso l’ordine costituito portano i giovani a cercarsi un proprio spazio al di fuori della liceità: una sorta di sistema informale che costruiscono con i coetanei che vivono le stesse esperienze. Il gruppo o “banda”, che dir si voglia, offre l’opportunità di vivere in un ambiente in cui le regole sono elaborate, dai suoi membri, secondo una logica trasgressiva. L’aggressività attuerebbe sia una modalità di sopravvivenza in un mondo in cui l’autorità sembra non costituire alcun sostegno, alcun prestigio, sia un modo di comunicare quello che si è o si pretende di essere acquisendo una reputazione oppositiva e deviante. Il gruppo diviene allora la sicurezza, la comprensione, la possibilità di nascondere le proprie debolezze e di utilizzare le proprie ribellioni. Rappresenta il dialogo che non si riesce ad instaurare normalmente. Il “bullo” ha bisogno del supporto del gruppo per aumentare la propria dominanza e per continuare a perpetrare le angherie.

Questo inserisce il discorso della dinamica di interazione e più precisamente dell’essere socializzati: processo con il quale si apprendono le abilità e gli atteggiamenti legati al proprio ruolo sociale. Senza la socializzazione le persone non sarebbero in grado di esercitare nessuna forma di autocontrollo e quindi di interagire o di lavorare in gruppo. Consapevoli o meno, l’essere socializzati permette di conoscere i comportamenti da adottare nelle varie situazioni e, l’interiorizzazione di valori condivisi, adottati e trasmessi, consente di preservare il gruppo. Questo non è un processo semplice, a senso unico, altrimenti non esisterebbero conflitti; il rapporto tra società e singoli individui è una sorta di negoziato, fatto spesso di sottili lotte tra chi intende “plasmare” o “raddrizzare” e chi inverso si oppone alla subalternità. La socializzazione cambia le persone, ma attraverso la resistenza, la ribellione e la sfida anche gli individui cambiano il processo di socializzazione, anche se, più spesso, cooperano con chi cerca di modificarli. Una scorretta socializzazione può bloccare alcuni dal punto di vista emotivo e renderli inadatti a determinati ruoli, così come modelli disfunzionali di comunicazione familiare possono avere dei legami diretti con la malattia mentale.

Il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza, rappresentano le epoche della vita in cui si evidenzia maggiormente il processo della individuazione. Sia lo sviluppo cognitivo che quello affettivo, portano alla formazione di un individuo integrato al suo interno, distinto dall’ambiente che lo circonda e con esso ben armonizzato. È in pratica la nascita e la stabilizzazione del concetto di identità. È la famiglia la sede primaria dove si sviluppano le iniziali e più importanti interazioni sociali, la qualità delle stesse diviene perciò determinante per rendere socialmente competente un fanciullo. Ecco perché le possibilità di un ragazzo di interagire in modo naturale con gli altri dipendono inizialmente dalla competenza dei genitori. Il processo di adattamento avviene attraverso la partecipazione a routine sociali condivise e ripetutamente trasmesse da genitore a figlio nella normale interazione quotidiana. In famiglia il bambino impara sia ad interpretare le azioni e le espressioni sia a riprodurle egli stesso, sviluppando in questo modo una serie di capacità cognitive, sociali ed emozionali, attraverso le quali si mette in relazione con le persone ed entra progressivamente a far parte del suo ambiente. La famiglia è quindi il gruppo sociale primario dove il fanciullo riceve i suoi primi orientamenti nella vita, orientamenti che poi influenzeranno gran parte delle sue esperienze successive.

Questo fa della famiglia il nucleo primario di ogni società, quindi pare naturale rivolgersi ad essa per individuare i fattori che possono portare al miglioramento della stessa. I ruoli famigliari devono essere definiti attraverso una pedagogia direttiva, responsabile e autorevole, il contrario di dispotica, permissiva o indifferente. Determinante stabilire il limite mettendo giusti e invalicabili paletti, deve risultare netto il confine tra lecito e illecito, tra realtà e finzione. Necessario è la costruzione di un argine alle sollecitazioni dettate dai modelli culturali aggressivi e trasgressivi, aiutando il bambino, che viene purtroppo sempre più adultizzato, a evitare situazioni o comportamenti che poi non saprebbe riconoscere o controllare. Quando i limiti sono inesistenti o non chiari i giovani si percepiscono insicuri, precari, abbandonati, sentimenti che portano come conseguenza insofferenza e frustrazione.

La mancanza di chiare e legittime regole di convivenza o la non applicazione delle medesime, farà sì che la prepotenza prevalga sulla giustizia e l’arbitrio sul diritto. Paura e sfiducia nel prossimo saranno le conseguenze. E a soffrirne sarà la libertà. Il rispetto e la pratica delle leggi costituisce, perciò, una condizione fondamentale. Ma il senso di libertà individuale richiede più del rispetto della legge. Esso è chiamato ad essere non soltanto un semplice atto formale, ma un gesto personale che trova nell’ordine morale la sua anima e la sua giustificazione. Escludendo o sottovalutando il valore delle regole e della responsabilità, una società libera e giusta non può esistere.

La responsabilità personale e di conseguenza sociale, sta alla base di quello che da sempre è chiamato “bene comune”. La partecipazione attiva al “bene comune” richiede però la facoltà di discernere “il giusto dall’ingiusto”, e di conseguenza l’affermazione di “regole di condotta”, connaturate al concetto medesimo di società. Esse non soltanto devono rispecchiare giudizi di valore universalmente riconosciuti, ma devono presiedere al corretto sviluppo dei rapporti tra gli uomini, per equilibrare le individuali libertà e orientarle verso la giustizia.

Per concludere, la convivenza umana, in forza della stessa natura sociale dell’uomo, ha sempre richiesto un sistema di leggi, ordinato e coerente, capace di regolare i rapporti fra i soggetti, e fra i cittadini e lo Stato. Il senso di legittimità, perciò, non è un valore che si improvvisa: esso esige un lungo e costante processo educativo. La sua affermazione e la sua crescita sono affidate alla collaborazione di tutti, ma in modo particolare alla famiglia. Il costante affievolirsi del senso della giustizia nelle coscienze e nei comportamenti denuncia una carenza educativa che inesorabilmente si riversa nel contesto sociale. Necessaria si fa allora un’opera formativa che tiene centrale nel suo procedere la dignità umana. Dignità che non può affrancarsi dal vivere nell’equità: in un agito di “libertà responsabile”.

 

Sitografia

www.bullismo.it

 


[1] Teoria di Bronfenbrenner

Fiore e Ombre - cc mbd.marco

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