Abuso all’infanzia: famiglia, società e istituzioni

 In FocusMinori, Anno 1, N. 4 - dicembre 2010

«É definito abuso ogni atto omissivo o autoritario che mette in pericolo o danneggia la salute o lo sviluppo emotivo di un bambino»

V Congresso Internazionale sull’Infanzia, Montreal 1984

 

Negli ultimi anni l’abuso all’infanzia è diventato uno scottante tema di attualità e sempre maggiori sono i casi che assurgono alla ribalta mediatica. Questo nonostante si parli oggi di cultura dei diritti dell’infanzia, di tutela del minore e nonostante il mondo adulto dell’occidente progredito abbia smesso, ma forse solo in teoria, di considerare i bambini una proprietà sulla quale esercitare diritti di vita e di morte. In generale è poi diffuso il bisogno di mantenere una distanza di sicurezza rispetto al problema degli abusi sull’infanzia, spesso anzi lo si nega, lo si circoscrive solo alle classi sociali svantaggiate o alle persone affette da gravi patologie. Si è inevitabilmente portati a pensare che la realtà della violenza all’infanzia sia qualcosa di altro da noi e che il progresso culturale e sociale in qualche modo ci protegga da certi abomini. Sembra impossibile riconoscere ed accettare che, invece, anche dietro l’apparente “normalità” si consumino violenze ed abusi. Del resto, l’abuso e la violenza per potersi consumare hanno bisogno del silenzio e contano sul segreto. Allora si è propensi a credere che abusati, violentati, sfruttati, siano solo quei pochi bambini le cui storie finiscono alla ribalta della cronaca, bambini che vivono in situazioni di degrado sociale ed emarginazione, comunque lontano dai nostri occhi. D’altra parte l’opinione pubblica conosce solo le notizie offerte dai mass-media in tema di violenze ai minori, centrate, di solito, su particolari sadici della vicenda, riferite difficilmente per informare, ma più spesso con l’intento di far audience. Tali “informazioni” non aiutano, perciò, a dare una lettura corretta della realtà dell’abuso. Al contrario, sostengono la rigidità dei ruoli dei soggetti coinvolti: l’abusante e il minore maltrattato, la presenza di un rapporto causa-effetto, la psicopatologia o le condizioni socio-familiari disagiate.

L’abuso in realtà è un problema complesso che difficilmente può essere spiegato con semplicistici modelli di lettura della realtà. Già Paul Watzlawick nel 1967 e Gregory Bateson, nel 1972, evidenziarono l’importanza di passare da uno studio centrato sull’individuo ad uno basato sulle relazioni e sulle comunicazioni familiari. All’interno di questa visione sistemica della realtà, anche l’abuso sui minori assume significati diversi, specie quando si pone l’accento sulla reciproca interdipendenza dei diversi attori. Ciò ovviamente non significa giustificare la violenza o l’abuso, ma pensare che, fra il bambino/vittima e l’abusante/carnefice, interagiscono comportamenti che possono riproporre modalità relazionali disfunzionali sperimentate durante l’infanzia.

Il bimbo abusato può predisporsi, involontariamente, all’abuso, aderendo attivamente, pur senza capirne il significato, al gioco relazionale perverso. Naturalmente dietro tale apparente “consenso” si nascondono emozioni devastanti: paura di raccontare l’accaduto, timore di non essere creduto, sensi di colpa. Inquadrato in quest’ottica, l’abuso allora diventa un comportamento interpersonale che può essere compreso attraverso un approccio multidisciplinare integrato, che prenda in considerazione tutti i contesti in cui si manifesta. Quando l’esperienza traumatica dell’abuso non viene elaborata attraverso interventi psico-sociali, può essere introiettata dal bambino come possibile modello relazionale. Questo non significa che un bambino abusato diventerà necessariamente un adulto abusante. Dimostra piuttosto che la sperimentazione di una situazione di abuso predispone maggiormente alla violenza.

Abusi all’infanzia

La definizione di infanzia come esperienza altra rispetto a quella dell’adulto, categoria concettuale a sé stante, come fase della vita ben definita, nasce in tempi estremamente recenti. L’adozione di un comportamento specifico da parte dell’adulto nei confronti del bambino si ritrova solo a partire dall’età moderna, con lo sviluppo della famiglia borghese. Del passato ci rimane la storia, spesso confusa, di fanciulli che partecipano e vivono realtà della vita sociale quotidiana di tutti, una realtà spesso fatta di assassinii, abbandoni, violenze fisiche, punizioni corporali, terrore e violenze sessuali. I bambini vivevano una esistenza sospesa tra la vita e la morte, considerati alla stregua di merce, tra l’altro a bassissimo costo, poiché per ogni bambino sfinito o malato, ce n’era sempre un altro che poteva essere iniziato al lavoro o al sesso perché magari abbandonato a se stesso dalla propria famiglia di origine (Stanzani).

I primi tentativi legislativi a favore dell’infanzia riguardano l’uso dei minori in ambito lavorativo: si va dall’English Factories Act del 1833 nel Regno Unito, con cui si vietava il lavoro in fabbrica ai bambini sotto i 9 anni, alla legge italiana n. 36 del 1971, con cui si fissava a 14 anni l’età minima per il lavoro. Ma è solo nel 1924, a Ginevra, con la Dichiarazione dei diritti del Fanciullo che si ha il primo riconoscimento ufficiale dei diritti primari dei bambini e degli adolescenti: diritto di essere nutriti, curati, accolti, soccorsi se orfani o abbandonati, ricevere aiuto, essere protetti. La dichiarazione verrà poi ampliata e aggiornata nel 1959 e poi nel 1989, quando sarà riconosciuto al bambino il diritto alla famiglia, all’educazione, allo sviluppo fisico, intellettuale, morale, sociale e spirituale.

Henry Kempe, pediatra nord-americano, all’inizio degli anni ’60, fu uno dei primi studiosi ad occuparsi di abusi e maltrattamento psicologico sui bambini. Al V Congresso Internazionale sull’Infanzia maltrattata e abbandonata, tenutosi a Montreal nel 1984, si concorda che “è definito abuso ogni atto omissivo o autoritario che mette in pericolo o danneggia la salute o lo sviluppo emotivo di un bambino, comprendendovi anche la violenza fisica e le punizioni corporali irragionevolmente severe, gli atti sessuali, lo sfruttamento in ambito lavorativo e la mancanza di rispetto dell’emotività del fanciullo”. Inoltre l’abuso sessuale viene definito come “il coinvolgimento di bambini e adolescenti in attività sessuali che essi non comprendono ancora completamente, alle quali non sono in grado di acconsentire con piena consapevolezza o che sono tali da violare i tabù di una particolare società” (Stanzani).

Nel bambino abusato l’equilibrio psichico viene profondamente sconvolto causando la perdita, sia di riferimenti esterni, che del senso della propria identità e la sicurezza. Il bambino, proiettato violentemente in una realtà che non gli appartiene, perché non adeguata alla sua età biologica, viene violentato anche nella sua dignità di essere umano, rimane paralizzato nella violenza che lo accompagnerà nella crescita e nello sviluppo della personalità con gravi conseguenze nella socializzazione. Per questo è di fondamentale importanza intervenire con leggi severe, ma anche prevenire le situazioni di rischio e creare delle reti di aiuto affinché lo sviluppo del minore possa essere garantito nella sua integrità.

Classificazione degli abusi all’infanzia

Sulla base della classificazione del Consiglio d’Europa, il noto neuropsichiatria infantile Francesco Montecchi ha inserito tra le condotte violente tutte le forme di maltrattamenti e abusi che possono gravare su un minore. La definizione include, accanto alle violenze fisiche e sessuali, anche le “violenze invisibili”, come maltrattamenti psicologici ed incuria, sicuramente meno evidenti e difficilmente identificabili, ma dagli effetti devastanti: sul piano sia affettivo che emotivo.

Gli abusi all’infanzia si suddividono in tre categorie – maltrattamenti, la patologia nella fornitura della cura e abusi sessuali – che a loro volta prevedono ulteriori sottocategorie:

  • I maltrattamenti psicologici. Ovvero una violenza invisibile, che non lascia segni sul corpo, ma che incide in modo devastante a livello dello sviluppo fisico, emozionale, relazionale e psicologico del minore;
  • Il maltrattamento fisico. Violenza facilmente individuabile dall’operatore in quanto lascia nel corpo delle tracce visibili e concrete;
  • La patologia della Fornitura di cure si suddivide in discuria, incuria e ipercura;
  • Gli abusi sessuali sia questi intra-familiari o extra-familiari che si definiscono come il coinvolgimento di un minore, da parte di un partner preminente, in attività sessuali anche non caratterizzate da violenza esplicita. “Si ha pertanto abuso quando il soggetto compie l’atto sessuale abusando o della propria autorità oppure delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della vittima. In questi casi il consenso della vittima all’atto sessuale non è ritenuto valido poiché viziato da fattori estrinseci, e cioè dalla condotta abusante del colpevole, e da fattori intrinseci, e cioè dalle eventuali condizioni di inferiorità fisica o psichica esistenti al momento del fatto” (Macchiarelli, 1999).

Aspetti psicologici e sociali

I comportamenti di abuso sessuale su minori sono sempre esistiti, in qualunque società ed in ogni tempo. Non è un fenomeno strettamente collegato alle società complesse e soprattutto non è frutto della modernità: la bibbia, le leggende, le fiabe e i miti parlano, infatti, di bambini abusati e maltrattati. Euripide, ad esempio, nel secolo IV a.C., narrando il dramma di Medea, espone il caso di una donna che uccide i figli per vendicarsi del marito che vuole lasciarla, introducendo, così, il tema, allora singolare, oggi decisamente attuale, dei maltrattamenti sui minori in occasione di separazione coniugale conflittuale.

Oggi rispetto al passato vi è maggiore consapevolezza delle violenze sessuali sui minori, nonostante vi sia ancora molta reticenza e omertà su questo problema, basti pensare a tutte quelle violenze perpetrate dietro le mura domestiche che non vengono denunciate.

Il progredire delle scienze psicologiche e sociali intorno all’età evolutiva ha contribuito, negli anni, ad attivare una nuova cultura di diritti individuali e relazionali. È stata pertanto superata la vecchia impostazione che voleva il minore come un oggetto o una proprietà privata sulla quale gli adulti potevano avere diritto di vita o di morte. Questa nuova visione del mondo minorile e dei suoi diritti, sembrerebbe, in apparenza, contrastare con l’aumento dei casi di abuso all’infanzia, ma purtroppo l’abuso tende ancora a restare un fenomeno prevalentemente sommerso. Studi sul tema hanno sicuramente apportato nuove competenze, favorendo gli operatori nei campiti di rilevazione e diagnosi, di conseguenza le segnalazioni di abuso sono statisticamente aumentate. Le informazioni provenienti dal database della direzione Centrale della Polizia Criminale dimostrano un costante aumento del fenomeno, tracciando nel contempo la nazionalità delle vittime e dei loro aggressori, fascia di età dei bambini abusati e distribuzione territoriale. I dati indicano che la maggior parte dei casi rilevati vede come vittime i bambini italiani: 453 su 598 nel 2002; 677 su un totale di 749 nel 2003; 717 su 845 nel 2004. Hanno un’età compresa tra 0 e 14 anni e che molti di loro conoscono la persona che li ha molestati.

In linea con il rinnovato interesse degli adulti verso il mondo minorile, il Consiglio d’Europa ha proposto una nuova definizione degli abusi all’infanzia. Il termine, derivato dall’inglese child abuse, non è più considerato solo sinonimo di violenza fisica, così come voleva una vecchia definizione di Kempe, risalente agli anni ’60 (la sindrome del bambino battuto), ma comprende tutte le forme di maltrattamento e violenza che possono incidere su un minore. È importante osservare come l’inquadramento nosografico sia più rispondente a esigenze didattiche che alla realtà clinica. Raramente, infatti, un minore subisce un solo tipo di abuso, ma nello stesso momento, o in fasi successive, può essere sottoposto a più condotte vessatorie. Nel caso dell’abuso sessuale, ad esempio, è possibile rilevare non solo la violazione sessuale, ma anche lesioni fisiche nella regione perigenitale (causate da manovre di afferramento, costrizione e divaricamento delle cosce) e violenza psicologica, legata alla sistematica mistificazione della realtà dell’adulto abusante.

La mancanza di una chiara demarcazione tra comportamenti affettuosi e comportamenti sessuali lascia, infatti, il bambino in una situazione di estrema confusione. Possiamo definire l’abuso come un disturbo dell’empatia nel rapporto genitore-figlio, una versione disfunzionale di un comportamento potenzialmente adattivo: il prendersi cura dell’altro (Bowlby, 1989). Evidentemente l’adulto abusante soffre di una grave incapacità a sintonizzarsi con i bisogni emotivi, affettivi e relazionali del minore e, approfittando della sua situazione di inferiorità, lo utilizza per soddisfare i propri bisogni, psicologici e, talvolta sessuali. Il contributo di Bowlby permette di leggere l’abuso non soltanto come un evento criminoso con risvolti civili e penali, ma soprattutto come un problema relazionale che coinvolge tutta la famiglia e che incide soprattutto sul minore.

I maltrattamenti all’infanzia sono espressione di un disagio che interessa, in particolari fasi del ciclo di vita, tutta la famiglia. È così possibile riscontrare problematiche familiari sia nei casi di abuso sessuale intra-familiare, sia nelle situazioni di violenza o abuso sessuale extrafamiliare. I bambini che hanno vissuto esperienze emotive carenti all’interno della propria famiglia sono maggiormente predisposti a ricercare affetto all’esterno, rendendosi più facilmente avvicinabili da estranei che, approfittando del loro malessere, possono coinvolgerli in atti sessuali.

L’abuso diventa in questo contesto una modalità di comunicazione che se non elaborata con interventi psicoterapici, sociali e giuridici, corre il rischio di riproporsi attraverso le generazioni: è così che bambini abusati possono diventare da adulti genitori abusanti. L’abuso può divenire un modo di essere e di relazionarsi, uno dei possibili canali per esprimere la propria affettività ed emotività. È stato infatti osservato che i bambini che subiscono abusi si adattano spesso al contesto familiare, rispondendo positivamente alle richieste fisiche, psicologiche e sessuali degli adulti.

Quando un bambino vive in un ambiente familiare dove subisce abusi, può diventare disponibile a soddisfare i bisogni patologici degli adulti, sia per non correre maggiori rischi, sia per continuare ad essere amato dai genitori. La psicologa Pat Crittenden (1985) ha osservato come i bambini imparino presto che è possibile “placare” una madre disturbata e potenzialmente violenta, essendo costantemente attenti ai suoi desideri. Quella che in psichiatria viene definito “sindrome di adattamento” comporta, quindi, non solo che il bambino si conformi alle richieste patologiche dei genitori, ma che utilizzi, in seguito, l’esperienza emotiva disfunzionale appresa nella vita di relazione. Se il contesto di apprendimento prevede, come “marche”, il maltrattamento fisico e la conflittualità, il bambino non introietterà direttamente la specifica violenza subita, ma la modalità relazionale violenta di rapportarsi, con un alto rischio di diventare un genitore abusante, qualora venisse a mancare un’elaborazione psicologica dell’esperienza traumatica. Infatti non è l’abuso in sé a creare quadri psicopatologici nel minore, ma la rigida utilizzazione di quei meccanismi di difesa che vengono messi in atto per proteggersi dall’angoscia, dalla depressione, dall’ansia e da tutti i sentimenti sgradevoli legati al trauma.

Francesco Montecchi (1998) afferma che un bambino deve sostenere, in caso di abuso, forti livelli di:

  • angoscia (per la ripetizione dei maltrattamenti);
  • depressione (per l’assenza delle garanzie affettive di cui ha bisogno);
  • senso di colpa primario (per il fatto di non venir trattato in modo adeguato: non capendo la ragione dei maltrattamenti il bambino riversa le colpe su di sé, considerandosi un essere immondo e cattivo);
  • senso di colpa secondario (il bambino prova rabbia, odio e ira che non può manifestare contro i genitori per la strutturazione superegoica);
  • vergogna (per la sensazione di non avere dei genitori adeguati).

Poiché il bambino non può esprimere agli adulti, e neanche a se stesso, le emozioni che sperimenta nel contesto abusante, sarà costretto ad utilizzare dei meccanismi di difesa – come la rimozione, la negazione, la scissione, l’idealizzazione e l’identificazione proiettiva – per proteggersi dai sentimenti spiacevoli e salvare il legame con i genitori.

Uno dei meccanismi di difesa ricorrente nei bambini abusati è l’identificazione con l’aggressore. Per liberarsi dall’angoscia suscitata dal comportamento del genitore il bambino assimila e normalizza l’immagine dell’adulto, divenendo come lui. Ma un bambino abusato, prima di diventare a sua volta un potenziale abusante, riattualizzando quelle condotte violente apprese nelle relazioni verticali (padre-figlio), può ri-proporre, durante l’età evolutiva, ed anche in fasi successive, modalità di rapporto maltrattanti nelle relazioni orizzontali: i compagni di classe, i commilitoni della caserma, i colleghi di lavoro.

Un intervento efficace e preventivo deve prevedere un lavoro integrato che coinvolga non solo il bambino abusato e la sua famiglia, ma anche la scuola e tutte le agenzie formative in cui i bambini si confrontano, giocano e si divertono. Identificando l’obiettivo prioritario di tale intervento nella sollecitazione di modalità non violente dello stare insieme. É altresì possibile operare interventi di prevenzione rimuovendo i fattori di rischio familiari e sociali connessi con l’abuso all’infanzia, identificando precocemente sintomi, atteggiamenti e comportamenti preoccupanti, attraverso i quali i minori segnalano il bisogno di aiuto. Da qui deriva la necessità, da parte degli operatori socio-sanitari, di conoscere e saper riconoscere indicatori di rischio e sintomi dell’abuso. A ciò si aggiunge un ulteriore problema: la maggior parte dei casi di abuso vengono seguiti contemporaneamente da operatori appartenenti a servizi diversi con conseguenti difficoltà nella concertazione di un progetto di intervento. Accade, pertanto, che una serie di soggetti istituzionali vengano attivati in modo non coordinato ma frammentato, ciascuno con il proprio specifico obiettivo professionale.

Le diverse finalità perseguite, talvolta perfino in conflitto tra loro, hanno come conseguenza il fatto che, quegli stessi servizi che avevano il compito di tutelare il minore diventino “abusanti” producendo un ulteriore forma di iniquità conosciuta con il nome di abuso istituzionale.

L’abuso sui minori nelle istituzioni

Gli Stati hanno il dovere di promuovere lo sviluppo dei minori, di garantire loro salute fisica e mentale ed uno standard di vita dignitoso. Devono inoltre proteggerli da ogni forma di violenza fisica o psicologica che possa provenire loro da familiari, tutori legali o altre persone che se ne occupano.

In realtà, molti minori subiscono maltrattamenti in istituti, orfanotrofi, scuole, cioè da parte di quelle stesse persone che si dovrebbero prendere cura di loro. In alcuni Stati, alle istituzioni riconosciute viene accordata una bassa priorità e fondi insufficienti. Presentano, perciò, molti problemi strutturali, fra cui il personale poco addestrato e sottopagato e una cronica mancanza di risorse. I minori che vi si trovano rinchiusi possono quindi essere soggetti a condizioni crudeli, inumane e degradanti o rischiare la vita per abusi o negligenza.

Il rapporto di Amnesty International: “Scandalo nascosto, vergogna segreta[1]”, prende in considerazione la condizione dei minori in vari Paesi del mondo. Per la Cina, vengono riportate le conclusioni di uno studio condotto da un’Organizzazione Non Governativa, la Human Right Watch, che si occupa della difesa dei Diritti Umani.

Secondo l’associazione umanitaria più del 90% dei decessi avvenuti in istituti statali per i minori era dovuto a crudeltà, abusi e gravi negligenze. Il governo cinese contestò questi risultati, ma le sue stesse statistiche dimostravano che i minori ospitati negli orfanotrofi avevano meno del 50% di possibilità di sopravvivere nel primo anno; in alcune province tale probabilità si riduceva ulteriormente. Resoconti di testimoni oculari e relazioni mediche provenienti da uno dei più prestigiosi orfanotrofi della Cina, lo Shanghai Children’s Welfare Institute, hanno rivelato che gli orfani venivano deliberatamente ridotti alla fame, sottoposti a torture e ad abusi sessuali tali da farne morire più di mille solo dal 1986 al 1992. Personale addetto all’assistenza avrebbe selezionato neonati non voluti e bambini e li avrebbe intenzionalmente fatti morire di fame e di sete. Questo sistema è noto come “risoluzione sommaria” dei bambini con gravi problemi di salute.

In Russia, sempre secondo il rapporto di Amnesty International, più di centomila minori all’anno vengono lasciati all’assistenza dello Stato. Il trattamento di alcuni di questi ragazzi evidenzia un grave livello di crudeltà e negligenza. I bambini di pochi mesi affidati alle istituzioni statali classificati come disabili, sono relegati in isolamento, cambiati e nutriti saltuariamente. Le eventuali forme di disabilità riscontrate alla nascita, si aggravano a causa di mancanza di contatti umani, visivi e uditivi e della grave deprivazione di affetti e di giochi. A quattro anni i bambini vengono nuovamente sottoposti a visite di controllo e coloro a cui viene diagnosticato un grave ritardo mentale sono condannati a trascorrere il resto della loro vita isolati e rinchiusi in reparti neuro-psicologici, dove continuano ad essere deprivati di stimolazioni e di cure mediche. Sono saltuariamente nutriti e lavati adeguatamente. Anche i bambini “normali” subiscono trattamenti brutali, comprese percosse e abusi sessuali, talvolta vengono rinchiusi in stanze gelide anche per giorni: un bambino, rinchiuso in una piccola cassa di legno, era stato fatto penzolare da una finestra. I ragazzi più grandi vengono incoraggiati a picchiare, minacciare ed intimidire i più piccoli. Non hanno mezzi né possibilità di protestare contro i maltrattamenti e gli abusi subiti da parte dello staff o degli altri compagni.

Le punizioni corporali sono permesse nelle scuole di molti Paesi. I ragazzi possono essere presi a schiaffi, picchiati con cinture o canne dai loro insegnanti per cattivo comportamento, scarsi risultati scolastici e a volte senza un motivo preciso.

In Kenia le punizioni corporali possono essere utilizzate per un gran numero di infrazioni scolastiche anche di poco conto: ritardo nell’entrare a scuola, l’uniforme scolastica sporca ecc. Le punizioni possono anche essere inflitte all’intera classe. Se una scuola non ha buoni risultati agli esami nazionali, può essere picchiata un’intera classe senza alcuna considerazione per i risultati individuali. Un esempio emblematico è quello delle madrasas scuole religiose del Pakistan che accolgono quasi tredicimila studenti troppo poveri per rivolgersi alle scuole statali. Sempre secondo informazioni in possesso di Amnesty International, queste scuole spesso attuano veri e propri indottrinamenti religiosi e politici. Si ritiene che molti studenti delle madrasas si siano uniti ai Talebani in Afganistan senza il consenso dei genitori.

Nel 1994 la Commissione per i Diritti Umani del Pakistan ha denunciato che in alcune scuole gruppi di 4-5 bambini venivano incatenati a blocchi di legno per impedire loro di fuggire: alcuni bambini sarebbero rimasti incatenati per oltre un anno. A marzo del 1996, un blitz della polizia liberò sessantaquattro studenti in catene in una madrasa vicino a Multan. Il capo della scuola si giustificò dicendo “Quando i genitori ci lasciano i figli ci chiedono di incatenarli per fargli perdere l’abitudine di guardare la TV satellite”. Muhammad Azam Dogra, un ragazzo di quattordici anni, rimase ucciso nel settembre del 1997 mentre cercava di liberarsi dalle catene. Scappato da scuola, aveva deciso di appoggiare i ferri sui binari, ma il treno passando lo travolse.

In conclusione, l’essere umano, pur dotandosi di leggi e Convenzioni sui diritti dell’Infanzia non riesce a arginare l’annoso e insoluto dramma della violenza e dell’abuso verso i minori. Inadeguatezza delle istituzioni, disfunzioni e patologie relazionali famigliari, costituiscono il fulcro del sorgere e il perpetuarsi degli abusi e delle violenze. Nonostante questo famiglia e istituzioni rappresentano il tessuto indispensabile per una corretta e sana crescita personale e sociale. Il dilemma è certamente etico, morale, giuridico, volendo religioso, ma sempre dilemma rimane.

 

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[1]www.amnesty.it/educazione/formazione/mainstreaming/bambini/istituzioni.html

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