La donna di ‘Ndrangheta: un’indagine di ricerca preliminare
Per delineare il ruolo della figura femminile nel mondo criminale si può partire da un breve excursus storico che presenta in Lombroso, Pollak, Konopka ed Adler gli studiosi che elaborano le prime teorie sulla donna criminale.
Per Cesare Lombroso (1893) la donna apparteneva al “sesso inferiore”, le donne criminali erano tali in quanto possedevano caratteri mascolini ed ovvero maggiore intelligenza, maggiore attivismo e vivacità delle altre, che viceversa erano mediamente inferiori al maschio in tutti gli aspetti della vita, crimine incluso.
Dal suo punto di vista, Lombroso vedeva la “donna normale” come una “semi-criminale innocua”, mentre la prostituta era una regressione della donna normale e la donna criminale un fenomeno “mostruoso”, in quanto attingeva alle peggiori qualità della psicologia femminile: l’inclinazione alla vendetta, l’astuzia, la crudeltà, la passione per il vestiario, la menzogna, il rancore e l’inganno, dando adito a diversi tipi di malvagità che potevano toccare l’estremo.
Nello studio intitolato La criminalità della donna (1961), Pollak riconosce l’importanza dei fattori sociali ma focalizza l’attenzione sul carattere “mascherato” della criminalità femminile, puntando a scoprire la reale entità e natura dei reati commessi dalle donne. Parla, infatti, del cosiddetto “numero oscuro” (Zara, 2005), intendendo come il numero di reati sui quali la polizia fa luce costituisca in realtà soltanto una piccola percentuale di quelli denunciati, riportati oppure scoperti. Pollak spiega tale natura mascherata in tre modi:
- la criminalità femminile è occultata dalle frequenti omissioni di denuncia;
- il tasso di incriminazioni femminili è comparativamente più basso di quelle maschili;
- polizia e tribunali dimostrano ancora maggiore clemenza rispetto agli uomini per l’esistenza di un senso di cavalleria maschile verso la donna, ritratta in modo idealizzato quale essere docile, pura, inoffensiva e bisognosa di protezione.
Altresì, Pollak sostiene che le donne, vivendo quasi tutta la loro esistenza nella sfera del privato, abbiano maggiore possibilità degli uomini di nascondere i loro crimini tra l’intimità della casa e “il rispettabile ruolo di Madre”. Sostiene che all’interno delle organizzazioni criminali possano essere i “cervelli”, le vere istigatrici di crimini, e che strumentalizzando gli uomini nella commissione dei reati riescano ad evitare il proprio arresto. La spiegazione è da ricercarsi nella loro natura “biologicamente ingannevole”.
Ancora, la studiosa Konopka Gisela (1966) considera la criminalità femminile una forma di disadattamento individuale alla cui base vi è una causa psicologica, in particolare la mancanza di amore nella vita privata familiare, mentre i fattori sociali vengono considerati solo come aggravanti. La studiosa ritiene infatti che le donne abbiano speciali ed intensi bisogni personali che, se non soddisfatti, portano a comportamenti antisociali o criminali.
Tra le teorie moderne troviamo quella della sociologa statunitense Freda Adler (1975), che spiega come possa esistere un rapporto tra emancipazione femminile e criminalità femminile. Infatti, se consideriamo che il crimine è da sempre di dominio maschile, la parità dei sessi e quindi la mascolinizzazione della donna porterebbe ad un incremento della criminalità femminile e pertanto, al successo dei movimenti di liberazione delle donne farà da contraltare anche un incremento dei tassi di criminalità.
Secondo la Adler quindi, il basso tasso di criminalità femminile è da imputare ai ruoli tradizionali assunti dalle donne e non concede altri sbocchi: la donna si evolve solamente unificando il suo modello comportamentale con quello dei maschi, escludendo, pertanto, la possibilità di un’emancipazione come ricerca autonoma e originale da parte del mondo femminile. Freda Adler quindi sostiene che la rapida crescita nella criminalità femminile altro non è che il lato negativo della “liberazione”: le donne liberate si affretterebbero ad emulare gli uomini.
Si delinea così una visione della donna criminale i cui tratti distintivi sono così descritti:
- Donna sottomessa, schiacciata dal volere della famiglia di appartenenza;
- Donna deprivata dell’individualità e relegata al ruolo di madre-moglie esemplare;
- Donna ignara delle condotte criminali degli uomini della famiglia (omicidi, traffici illeciti);
- Donna istigatrice di violenza e soprattutto di vendetta.
Tutte caratteristiche che portano quindi a sottovalutare la donna nell’ambito criminale, a farla sparire dai processi e dagli atti giudiziari e a relegarla come semplice moglie di un mafioso.
Donne di ‘Ndrangheta: l’altra metà del cielo
Andiamo ad inquadrare la figura femminile nell’organizzazione criminale presa in esame, ovvero la ‘Ndrangheta, mafia calabrese il cui nome deriva dal sostantivo greco andragathòs, che si traduce in forza, virilità, valore. È una mafia definita da molti come “liquida” per lo straordinario potere di penetrare in ogni ambito del sociale ed estendere i propri confini ben oltre il territorio calabro.
Fondata sullo stretto ed indissolubile vincolo di sangue, la struttura interna della ‘Ndrangheta viene suddivisa in due livelli: la “Società Minore”, di cui fanno parte picciotto, camorrista e sgarrista, e la “Società Maggiore” che prevede “doti” di santista, vangelo, quartino, quintino e associazione.
Più cosche, legate tra loro, danno vita al “Locale”, che costituisce l’unità fondamentale di aggregazione mafiosa su un determinato territorio, quasi sempre coincidente con un villaggio o con un rione di una città. Per la costituzione del “Locale” è necessaria la presenza di almeno 49 affiliati. Ogni locale è diretto da una terna di ‘ndranghetisti, detta copiata, quasi sempre rappresentata dal capobastone, dal contabile e dal capocrimine.
L’adesione alla “carriera” ‘ndranghetista avviene, come vuole il rigido cerimoniale, l’ultimo sabato del mese, durante il tramonto e comunque approssimativamente tra le ore 17 e le 18. Si parla del rituale per eccellenza della cultura ‘ndranghetista, denominato “Battesimo”, nome e rituale dalla forte carica suggestiva per il suo richiamo alla tradizione cristiana, dove il battesimo introduce il neonato o la persona in generale ad una nuova condizione di vita, pura, senza peccato originale. In egual modo il battesimo ‘ndranghetista introduce il postulante in una nuova condizione di vita, anche se le aspettative comportamentali sono ben altre. Per ottenere lo status di appartenenza durante le fasi di questo rito, l’aspirante affiliato, deve giurare che con la sua condotta, non contravverrà mai alle regole dell’onorata società, e mai si sottrarrà dal compiere delitti, anche a discapito della famiglia d’origine. In seguito, si pungerà il dito o il braccio con un ago o con un coltello, facendo cadere qualche goccia di sangue sull’immagine di San Michele Arcangelo protettore della ‘Ndrangheta, santino che poi verrà dato alle fiamme, in ossequio a una suggestiva simbologia tesa a garantire fedeltà e rispetto del vincolo di assoggettamento alla cosca.
Non ci sono nomi femminili all’interno di questa ferrea gerarchia ma tutti coloro che ne fanno parte hanno in comune un tratto distintivo: sono figli di madri che hanno insegnato e trasmesso loro il codice culturale mafioso. Ecco infatti il ruolo cardine della donna. Un ruolo attivo, estremamente importante a cui fa seguito l’incitamento alla vendetta, il traffico di droga (il settore economico-finanziario più redditizio) ed attività di collegamento e di gestione del potere. A questo status attivo, nell’interno del quale ella deve mantenere alto l’onore della famiglia con un comportamento impeccabile, se ne affianca un altro assai meno dinamico, anzi passivo che è quello e la vede merce di scambio nelle “politiche” matrimoniali: intrecci di famiglie importanti per rafforzare il potere dei clan. Condizione, della donna, questa fortemente contraddittoria perché presenta contestualmente aspetti di connivenza e di vittimizzazione.
La mafia nel sociale
Da diverso tempo, molto proficui sono stati gli studi sulla rappresentazione sociale delle organizzazioni di stampo mafioso (Di Maria & Lavanco, 1993a e 1993b; Di Maria & Lavanco, 1995; Di Maria, 1998; Lo Verso, 1998; Lo Verso et al., 1999; Pomilla & Glyka, 2010). Infatti esse, le rappresentazioni sociali, risultano molto utili poiché sono «sistemi di interpretazione che sorreggono le nostre relazioni con il mondo e con gli altri, orientano ed organizzano i comportamenti e le comunicazioni sociali» (Jodelet D., in Doise W, 1989). Nel caso della mafia, l’appartenenza al clan, soddisfa il bisogno del singolo di acquisizione di identità, esercizio del potere e profitto economici.
L’oggetto della rappresentazione sociale, elemento che acquista particolare significato in rapporto alla mafia, va visto e scritto in un contesto attivo, mobile, giacché è concepito dalla persona o dalla collettività come collegato anche ai propri atteggiamenti e sistema di valori, e si configura in parte attraverso ed in funzione dei mezzi e dei metodi che permettono di conoscerlo: questo processo di reciprocità sottintende una non definibile separazione tra universo esterno (chi non fa parte del gruppo) e universo interno, di appartenenza al clan e interiorizzato in questo modo dal singolo.
Si sviluppa così quello che viene definito il sentire mafioso, un particolare reticolo di miti, con costante conferma dei codici di appartenenza alla “famiglia” intesa come matrice di conoscenza. Possiamo ritenere che il sentire mafioso sia un “pensiero inconscio o preriflessivo automatico” (Di Maria, 1998), che si iscrive non ai livelli superficiali della struttura psicologica dell’individuo, quanto piuttosto a livelli mentali molto primitivi ed arcaici. Riuscire a svincolarsi da questo complicato intreccio di vincoli emotivi e cognitivi non è certamente impresa facile: profondi conflitti e gravosi sentimenti di colpa, solitudine e talora pesanti punizioni, sono il prezzo che è costretto a pagare colui che intende “abbandonare”.
Il sentire mafioso spiega il processo di adesione inconscia a comportamenti criminali (Di Maria, pag. 41, in Lo Verso, 1998). La cultura mafiosa si consolida con la continuità di valori che, non tollerando il cambiamento, si offrono come garanzia di una rete comunicativa piuttosto che accettare forme criminali, delitti e forme organizzative di potere (Lo Verso, 1998). Il sentire mafioso diventa quindi la modalità di pensiero dominante che satura il pensiero riflessivo, offrendosi come unica struttura di significazione del rapporto con la realtà (Pomilla & Glyka, 2010).
La donna di ‘Ndrangheta: la ricerca
In virtù degli studi sopra segnalati, oggetto d’indagine è stato l’esplorazione della percezione e delle caratteristiche che delineano la figura femminile ‘ndranghetista secondo i vissuti della collettività sociale. Considerando l’indagine di natura descrittivo-esplorativa, è stata utilizzata una breve intervista semi-strutturata in quattro domande aperte di base, sulle quali poi sviluppare eventuali approfondimenti del tema, così da lasciare agli intervistati la possibilità di rispondere con assoluta libertà agli item proposti.
Si è provveduto a svolgere interviste dirette alla popolazione naturale, in diversi contesti sociali quotidiani (per strada, nei bar, alle fermate dei bus, nei negozi, etc.), con registrazione audio e successiva trascrizione ai fini della tabulazione dei risultati.
Il campione complessivo, pari a 140 soggetti, è suddiviso in due gruppi: il “sotto-campione calabrese”, per il quale la somministrazione ha interessato quattro paesi della provincia di Reggio Calabria (Laureana di Borrello, San Pietro di Caridà, Rosarno e Palmi); ed il “sotto-campione romano”, reclutato nell’area urbana della città di Roma.
Relativamente alla descrittiva delle caratteristiche anagrafiche dei soggetti a campione abbiamo:
- Identità di genere: 49% e F. 51% (Tabella 1. Sottogruppo romano: M. 47% e F. 53%. Sottogruppo calabrese: M. 50% e F. 50%).
- Età: range 18-29 (32%); range 30-50 (47%); range 51-80 (21%) (Tabella 2. Sottogruppo romano età media di 37,98 anni. Sottogruppo calabrese età media 40,54 anni).
- Stato civile: celibe/nubile 50%; coniugato/a 44%; separato/divorziato 4%; vedovo 2% (Tabella 3. Sottogruppo romano: celibe/nubile 50%; coniugato/a 37%; separato/divorziato 9%; vedovo 4%. Sottogruppo calabrese: celibe/nubile 50%; coniugato/a 50%; separato/divorziato e vedovo 0%).
- Titolo di studio: licenza media 14%, diploma 53%, laurea 33% (Tabella 4. Sottogruppo romano: licenza media 14%; diploma 54%; laurea 32%. Sottogruppo calabrese: licenza media 13%, diploma 51%, laurea 36%).
Andando ad indicare i risultati ottenuti dalle interviste effettuate, considerando il campione generale, si indica intanto il pieno assenso alla conoscenza della presenza delle figure femminili all’interno dell’organizzazione ‘ndranghetista. Il 100% del campione c onferma che si tratta di un fenomeno assolutamente non estraneo alla collettività sociale, un’inclusione (quella delle donne all’interno delle cosche mafiose) nota a tutti.
Si chiedeva, inoltre di indicare “quanto incide” la presenza delle donne all’interno dell’organizzazione mafiosa. Il campione ha indicato le seguenti percentuali di risposta: 19% poco; 43% abbastanza; molto 24%; 14% moltissimo (Tabella 5 – Domanda n. 2).
Tabella 5 – Domanda n. 2 “Secondo lei quanto incide la figura femminile all’interno di un’organizzazione come la Ndrangheta?” (campione generale)
Vediamo quindi come, per più della metà del campione (57% da “moltissimo” + “molto”), emerga nella percezione collettiva la presenza di una forte impronta segnata dalla figura femminile all’interno dell’organizzazione mafiosa.
Alla terza domanda, il campione fornisce come risultati l’87% di “No” ed il 13% di “Si” (Tabella 6).
Tabella 6 – Domanda n. 3 “La stupisce apprendere dai mass-media di coinvolgimenti e/o arresti di donne di Ndrangheta?” (campione generale)
L’elevata percentuale dei “No” spazza via il disincanto di una visione idilliaca della donna dedita al focolare domestico ed alla cura e alla crescita dei figli, e nuovamente consacra la sua partecipazione agli affari malavitosi della cosca, con una presa di consapevolezza che ormai non stupisce più.
Infine, veniva chiesto al campione di esprimersi in merito alla scelta, tra quattro aggettivi, dei due maggiormente rappresentativi della “donna dell’‘ndragheta”. I risultati esprimono la seguente prevalenza di scelta: 36% “spavalda”; 36% “manipolatrice”; 14% “manipolata”; 14% “sottomessa” (Tabella 7).
Tabella 7 – Domanda n. 4 “Scelga due dei quattro aggettivi che secondo lei caratterizzano la donna di ‘ndrangheta: manipolata; sottomessa; spavalda; manipolatrice” (campione generale)
Le risposte riflettono la più specifica percezione del campione sulle caratteristiche proprie della personalità femminile ‘ndranghetista: gli aggettivi proposti, opposti tra loro per significante e significato, rappresentano un netto spartiacque per specificare il coinvolgimento della donna nelle attività mafiose.
L’elevata percentuale delle risposte “spavalda” e “manipolatrice” mette in luce una percezione collettiva tutt’altro che marginale: sebbene effettivamente esistano casi di donne “manipolate e sottomesse” (da notare che entrambi gli aggettivi ottengono la stessa percentuale di rilevanza), diviene chiaro che, per la collettività, la donna detiene un ruolo importante e significativo all’interno dell’organizzazione criminale.
Nello specifico, l’aggettivo “manipolatrice” fa difatti supporre che, sebbene sia l’uomo a mostrare il proprio potere e ad agire nelle varie situazioni, l’impronta della donna è determinante; l’aggettivo “spavalda” descrive invece una sorta di specifico modus vivendi, ovvero lasciata la riservatezza che forse prima le apparteneva, oggi ostenta, in maniera appunto spavalda il proprio status.
Gli aggettivi “sottomessa” e “manipolata” volevano indicare l’esistenza di un potere maschile dispotico che vede la donna subire, senza alcuna possibilità di scelta, ogni decisione del marito e della famiglia di appartenenza. Le percentuali di risposta indicate dal campione mostrano come tale visione sia ormai largamente superata, eccetto che per rari casi riportati dalla cronaca che, quasi sempre, hanno avuto come epilogo la morte della donna in questione.
Desiderando illustrare anche i risultati specifici ottenuti dai due sottocampioni, nello specifico abbiamo che:
- per entrambi, il fenomeno della donna di mafia è pienamente conosciuto e riconosciuto: non emergono dunque sostanziali differenze in termini di percezione sociale tra un territorio cui il fenomeno mafioso è tradizionalmente ascritto ed uno che, “tradizionalmente”, ne sembra privo, considerando che alla figura femminile ‘ndranghetista in entrambi i casi viene attribuito un ruolo rilevante all’interno della compagine criminosa (Sottocampione romano: sommando “molto” e “moltissimo” otteniamo il 53%. Sottocampione calabrese: sommando “molto” e “moltissimo” otteniamo il 63%) (Tabella 8 e 9);
- per entrambi, la donna ha un ruolo attivo ed un atteggiamento spavaldo, quest’ultimo ancor più sentito nel territorio di appartenenza. Si hanno difatti lievi differenze percentuali nella rilevanza degli aggettivi: per il sottocampione romano 35% “manipolatrice”, e 33% “spavalda”; per il sottocampione calabrese 37% “manipolatrice”, e 40% “spavalda” (Tabella 10 e 11).
Conclusioni
L’indagine ha dimostrato, in definitiva, come l’appartenenza territoriale non sembri essere più di tanto discriminante in merito alla percezione sociale del fenomeno criminoso oggetto di indagine, e ben emerge come la figura femminile ‘ndranghetista sia ampiamente riconosciuta nel suo ruolo attivo di partecipazione alle attività criminali, con assunzione di atteggiamento sostanzialmente privo di reticenza e timore. È percezione collettività che, al di là della più “classica” e forse rassicurante immagine della donna sottomessa al volere maschile e manipolata dalle sue scelte, che senz’altro ancora esiste, oggi la donna manifesta e impone sempre più la propria personalità, anche nell’appartenenza mafiosa.
Il silenzio della donna di ‘ndrangheta è sempre stato carico di parole, i suoi gesti ed i suoi comportamenti hanno spesso condizionato l’agire degli affiliati uomini e si sono sostituite ad essi in maniera egregia, con una ferocia ed un piglio inimmaginabili per i più, ma considerate le risposte ottenute dall’indagine, non è rimasto indifferente alla collettività. Questa, adesso ha iniziato a riconoscere non solo in Calabria ma anche fuori regione, il vero volto ed il vero ruolo di donna di ‘Ndrangheta.
Nel corso degli anni si è vista l’evoluzione del suo agire, passando da un ruolo più “riservato”: donna moglie e madre, a donna boss, riuscendo a sfruttare al meglio la situazione dei propri uomini che, latitanti, detenuti in carcere o uccisi, non potevano detenere le redini del potere.
L’indagine qui presentata e descritta rappresenta un primo passo verso l’approfondimento della tematica trattata, certi che la donna criminale, nella cultura ‘ndranghetista, non abbia che soltanto iniziato la sua ascesa verso quello che è il “potere” nell’onorata società.
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