L’attualità del prodigo: condanna, tutela o cura?

 In Sul Filo del Diritto, N. 2 - giugno 2021, Anno 12

«Expedit reipublicae, ne quis re sua male utatur»
«È nell’interesse dello Stato che nessuno faccia un cattivo uso dei propri beni»
Giustiniano, Istituzioni, 1,8,2

 

«Papè Satan, papè Satan aleppe!» è il grido rabbioso del demonio Pluto con cui inizia il primo verso del canto VII dell’Inferno, dove i dannati, divisi tra avari e prodighi, sono costretti a spingere con il petto enormi macigni, girando a semicerchio, quasi fino a scontrarsi, rimproverandosi scambievolmente le proprie colpe. Giusta pena del contrappasso, Virgilio condanna gli avari e i prodighi a scontare la stessa pena, come in vita si affannarono ad accumulare o a dissipare ricchezze, così ora si affaticheranno per l’eternità a far ruotare massi di grandezze diverse a seconda della quantità di beni accumulati o sperperati. Non solo nell’Inferno, ma anche nel Purgatorio Dante punisce gli avari e i prodighi per i loro vizi, gli uni accumulando per il piacere del possesso, gli altri per averli profusi irragionevolmente.

Fin dall’antichità, l’avarizia e la prodigalità sono state considerati comportamenti da condannare. Aristotele, nella sua Etica Nicomachea, le riteneva due degenerazioni della generosità: l’avaro è colui che è esageratamente attaccato al denaro, colui che non spende né per sé né per gli altri, mentre il prodigo è colui che spende e dona senza misura, vittima di uno smodato desiderio di sperperare la propria ricchezza.

L’avarizia, secondo il filosofo greco, è più connaturata agli uomini rispetto alla prodigalità, perché è nella natura dell’uomo l’avere più che il dare, più il possedere ed accumulare piuttosto che il distribuire agli altri.

Effettivamente, l’avarizia ha ispirato tanti scrittori che hanno voluto caratterizzare così i loro personaggi, basti pensare a Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare o ad Arpagone di Moliere. Diversamente, il prodigo non ha ottenuto lo stesso successo letterario, né ha attirato tanta attenzione, probabilmente perché la prodigalità è socialmente più accettata, forse addirittura ostentata. Comunque, di certo, sia l’avarizia che la prodigalità sono modalità non equilibrate di rapportarsi alle cose e alle persone, comportamenti molto lontani dal concetto di generosità.

Sebbene abbia suscitato, contrariamente all’avaro, una modesta attenzione letteraria e, un ancor più marginale interesse caricaturale con connotazioni tanto bizzarre da essere messe in rilievo, la figura del prodigo merita una riflessione. In realtà, dal punto di vista del Legislatore, in dottrina e giurisprudenza, essa concreta una fattispecie ben precisa ed adeguatamente disciplinata, seppur con plurime e distinte (ancorché, per tal versi, affini o concettualmente assimilabili) modalità.

A partire dall’antichità, l’interesse verso tale figura da parte di chi legiferava non era irrilevante; difatti, già nel Diritto Romano, le XII Tavole, contenenti regole di diritto privato e pubblico, stabilivano che ai prodighi «la cui condotta li faceva assimilare agli insensati, davasi loro parimenti un curatore; ma onde far luogo alla deputazione di questi la medesima legge voleva che fosse loro interdetta l’amministrazione dei propri beni: il che non poteva avere luogo salvo in forza di un giudizio[1]». In sostanza, nel Diritto Romano (ordinamento, questo, per certo non scevro da garantismo o tutela dei diritti cd. personalissimi), il prodigo veniva ritenuto privo di ogni volontà, guardato come soggetto affetto da patologia, equiparato a colui che è privo di senno e quindi, a seguito della pronuncia del giudice, da interdire.

Secondo, infatti, i principi individuati dalle leggi romane, «la prodigalità è quella passione che conduce un individuo a dissipare l’aver suo in varie largizioni e in folli spese senza alcun scopo utile né per lui né per la società[2]».

Fin dalle origini del Diritto Romano, la condizione del prodigo era stata oggetto di discussione; ad esempio si ragionava dell’eventualità di assoggettare i prodighi, al pari «dei furiosi e dei mentecatti[3]», alla cura degli agnati, cioè dei parenti, e se quindi dovesse essere loro interdetta l’amministrazione dei beni ex lege, ovvero senza una sentenza di un giudice; ciò perché si trattava «di quei difetti che a primo aspetto non possono riuscir conti a chicchessia[4]» ed inoltre, poiché «potrebbe accadere che il cittadino cui non è noto tal vizio venga leso ingiustamente quando s’accosta a contrattare con un uomo peccante di prodigalità[5]». Ulpiano chiarisce che, al di là delle più disparate elucubrazioni, le leggi romane stabilivano come il prodigo venisse assoggettato alla cura della famiglia solo quando fosse stata espressamente pronunciata contro di lui l’interdizione alla disposizione dei beni. Va, inoltre, aggiunto, che il Diritto Romano prevedeva che il decreto di interdizione del prodigo avesse officio iudicis valore retroattivo, dando per implicita la notorietà della prodigalità: infatti, ogni «contratto dovrà in favore della pubblica utilità tenersi in conto di nullo e sortire nessun effetto[6]» e ciò «perché il prodigo colla stessa facilità con cui non bada se i contratti riescono utili o dannosi ai suoi interessi, egli approva e ratifica i contratti medesimi[7]». Non solo, quindi, al prodigo veniva applicata l’interdizione per decreto del giudice, ma essa aveva valore retroattivo e in tutto lo Stato.

Compiendo un “salto temporale” di diversi secoli, la figura del prodigo riemerge disciplinata nel Codice Civile Parmense. Tale Codice, pubblicato nel 1820, fortemente voluto da Maria Luigia d’Austria, duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla, ebbe una grande importanza per la storia del Diritto Italiano ed analizzò con particolare attenzione la figura di interesse, precisando che: «La Prodigalità è lo sconsigliato scialacquamento e dispendio delle proprie sostanze[8]». Il Codice Parmense circoscriveva i comportamenti integranti la prodigalità e stabiliva che «Lo stato di tutela è quello, in cui sono costituite le persone di proprio diritto, le quali per […] prodigalità […] non potendo provvedere a se stesse ed ai loro beni, vengono sottoposte all’autorità e amministrazione di un altro. Quegli, che esercita tale autorità o amministrazione, è il tutore[9]». Tuttavia, sebbene il Codice Civile Parmense risentisse dell’influenza del Codice Napoleonico, per ciò che concerne la regolamentazione del prodigo vi erano, fra le suddette normazioni, non trascurabili differenze. In effetti, oltralpe, la giurisprudenza francese dei primi dell’Ottocento stabiliva che «può essere proibito ai prodighi di stare in giudizio, di transigere, di prendere denari a prestito, di riscuotere capitali e di rilasciare la liberazione, di alienare e di aggravare i loro beni d’ipoteche senza l’assistenza di un consulente che lorio è deputato dal tribunale[10]». Sostanzialmente, veniva delimitato lo spazio d’azione del prodigo che, per gli atti espressamente previsti dalla legge, doveva essere assistito da un consulente giudiziario. Nella Francia dell’epoca, infatti, lo Stato non aveva interesse ad interdire il prodigo, in quanto l’entità statuale non veniva danneggiata dallo sperperare ricchezze del prodigo, che veniva interdetto essenzialmente dal solo diritto di fare testamento. Oltralpe, in considerazione dell’interesse nazionale, la prodigalità era ritenuta addirittura meno dannosa dell’avarizia dal momento che, con il passaggio della proprietà dei beni da un soggetto all’altro, veniva messo in circolazione quello che l’avaro avidamente conservava. Paradossalmente, per il Legislatore francese, il prodigo acquisiva una funzione di “utilità sociale” laddove, secondo il Codice Napoleonico, «la vera prodigalità dissipa senza oggetto: ella non produce che disordini e scandalo[11]» ed era questa a dover essere condannata. L’antecedente e ben più datata norma d’Oltralpe, rifacendosi alle leggi del Diritto Romano, prevedeva l’interdizione del prodigo anche quando si trattasse semplicemente di un agire poco prudente. A titolo meramente esemplificativo, va ricordata una sentenza di un magistrato di Blois, la quale stabiliva che «le vedove le quali stringerebbero un secondo o un ulterior matrimonio con delle persone indegne della loro qualità o condizione, per esempio i loro domestici, dovessero venire interdette[12]». Certamente si trattava di casi particolari, perché la norma prevedeva che potesse essere dichiarato prodigo, e quindi sottoposto ad interdizione, colui che «avesse alienato o dissipato almeno il terzo dei suoi beni in vane spese[13]». Di fatto, il Legislatore francese dell’Ottocento, prendendo le distanze dal Diritto Romano, riteneva che lo Stato dovesse valorizzare la funzione sociale del prodigo, a scapito degli interessi della persona. Pensiero questo che, se sorprende chi scrive, di converso, non appare troppo distante dalla politica dei consumi che il pensiero economico del XIX secolo ha supportato.

Dunque, fin dall’antichità, è stata riservata particolare attenzione alla figura del prodigo, o meglio alla disciplina della prodigalità, proprio in considerazione dei seri nocumenti che possono derivarne. Il comportamento del prodigo, infatti, sebbene apparentemente possa essere considerato una dimostrazione di altruismo e suscitare, quindi, riconoscenza e consenso, da sempre viene ritenuto il presupposto dei gravi pregiudizi economici che il medesimo può causare a sé stesso e alla sua famiglia. A tutt’oggi, viene sottostimata la natura problematica della prodigalità, forse perché confusa con estrema generosità: se ne ignorano le dinamiche e, spesso, ad essa non si pone rimedio se non quando ha arrecato serie difficoltà economiche e sociali.

È bene ricordare, a tal proposito, come nel nostro sistema legislativo, laddove la prodigalità abbia a perdurare nel tempo, tanto da essere considerata il comportamento abituale del soggetto, così da incidere sulla capacità del soggetto stesso di provvedere alla cura dei propri interessi, si prevede una duplicità di strumenti di tutela giuridica: l’inabilitazione e l’amministrazione di sostegno. Tali istituti giuridici stabiliscono l’ambito in cui il Giudice, in base alla capacità del singolo, debba assicurare la più ampia protezione possibile della persona del prodigo e dei suoi familiari.

L’inabilitazione è prevista per soggetti che versano in condizioni di parziale infermità mentale, il cui stato non sia così grave da dar luogo all’interdizione, nonché per coloro che per prodigalità, uso di bevande alcoliche, stupefacenti, espongano sé o la propria famiglia a gravi pregiudizi sociali ed economici. Con il provvedimento di inabilitazione, il Giudice nomina un curatore con il compito di assistere l’inabilitato negli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione; in taluni casi, tuttavia, l’Autorità Giudiziaria competente può autorizzare il compimento di alcuni atti di straordinaria amministrazione da parte dell’inabilitato senza l’assistenza del curatore. L’inabilitato, pertanto, potrà compiere autonomamente – ossia senza controllo alcuno da parte del curatore – solo gli atti di ordinaria amministrazione.

L’Amministrazione di Sostegno, invece, è una figura (fortemente voluta e promossa dal Prof. Paolo Cendon, eminente giurista) introdotto con la legge 9 gennaio 2004, n. 6, il cui carattere innovativo risiede, ad avviso di chi scrive e come si avrà a comprendere in prosieguo, nell’ottica di supportare (e non solo limitare) l’agire del soggetto amministrato nella sua vita quotidiana. Sul piano processuale, l’attivazione dell’istituto è subordinata all’emanazione di un decreto ad hoc del Giudice Tutelare, con cui viene nominato un amministratore di sostegno a beneficio della persona che, per effetto di una infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, come, per esempio, colui che è dedito a condotte prodighe. L’Amministrazione di Sostegno è, quindi, un istituto che si prefigge di salvaguardare le persone prive, in tutto o in parte, di autonomia nelle attività della vita quotidiana, limitando il meno possibile la loro capacità di agire. Il beneficiario mantiene, infatti, la piena capacità di agire – ancorché assistito, ma non minorato, dalla presenza della figura dell’Amministratore di Sostegno – per il compimento degli atti della vita quotidiana e, in generale, per tutti gli atti che non siano riservati alla competenza esclusiva o all’assistenza dell’amministratore di sostegno.

È, quindi, un innovativo strumento, indubbiamente apprezzato da chi scrive, per il supporto di coloro che versano in condizioni di disagio, psichico o esistenziale, poiché consente loro di agire sostenendone le capacità psico-fisiche residuali. A differenza dell’interdizione o dell’inabilitazione, che si traducono, nella “compressione” (pur in misure diverse) di poteri e diritti ovvero di capacità d’agire del soggetto, l’Amministrazione di Sostegno valorizza la centralità della persona e il principio di autodeterminazione, legittimando il giudice a modulare i compiti del gestore a seconda delle specifiche esigenze e/o carenze del beneficiario, le quali dovranno essere dallo stesso gestore evidenziate (laddove necessario, anche mediante sollecitata audizione dell’interessato da parte del giudice).

In conclusione, ben lontano dall’immagine del prodigo duramente condannata dal Sommo Poeta, nel pensiero di chi scrive, vi è l’apprezzamento per la “maturità” dimostrata dal Legislatore nell’avere affiancato, alla figura d’interesse, il supporto, per sua natura forse più adeguato, dell’Amministratore di Sostengo. Va, però, segnalato che, essendo la prodigalità frutto, evidenza o acme di un disagio individuale, ai fini di una opportuna e, probabilmente, necessaria riabilitazione del soggetto, occorrerebbe sempre affiancare all’Amministratore di Sostegno la figura professionale del terapeuta, psicologo o psichiatra, in ragione della peculiarità del malessere o della patologia eventualmente sottese alla condotta depauperativa.

 

Bibliografia

Società d’Avvocati (1838), Manuale forense ossia confronto fra il Codice Albertino il Diritto Romano e la legislazione anteriore. Tipografia F. Ardacia e Comp. e Giuseppe Pomba e Comp.

Cendon, P. (2008), L’Amministratore di Sostegno. Guida pratica per le famiglie e gli operatori sanitari. Cesvot

Sitografia

Treccani (1970) Enciclopedia Dantesca: www.treccani.it/enciclopedia/avari-e-prodighi

Università degli Studi di Brescia, Facoltà di Giurisprudenza, Codice Civile per gli Stati di Parma Piacenza e Guastalla: www.antropologiagiuridica.it

https://divinacommedia.weebly.com/avari-e-prodighi.html

https://divinacommedia.weebly.com/purgatorio-canto-xxii.html

http://www.profcanale.it/lezioni/div_com_sintesi/quarto_cerchio.html#:~:text=Sono%20divisi%20in%20due%20schiere,tal%20punto%20da%20renderli%20irriconoscibili.

http://ciropersico.altervista.org/studenti/divina_commedia/struttura/cinferno.htm

http://www.sandrogindro.it/site/1993/05/01/psicoanalisi-contro-n-1-la-diagnosi-e-la-persona-sezione-quarta


  1. Manuale Forense ossia confronto fra il Codice Albertino il diritto romano e la legislazione anteriore (LIB I, TIT X, pag. 413).

  2. Manuale Forense ossia il confronto fra il codice Albertino il diritto romano e la legislazione anteriore (LIB I, TIT X, pag.413).

  3. ibidem

  4. ibidem

  5. Manuale Forense ossia il confronto fra il codice Albertino il diritto romano e la legislazione anteriore (LIB I, TIT X, pag. 414).

  6. Manuale Forense ossia il confronto fra il codice Albertino il diritto romano e la legislazione anteriore (LIB I, TIT X, pag. 415).

  7. ibidem

  8. Codice Civile per gli Stati di Parma Piacenza e Guastalla (LIB 1, art. 158, pag.36).

  9. Codice Civile per gli Stati di Parma Piacenza e Guastalla (LIB 1, art.154, pag.35).

  10. Manuale Forense ossia il confronto fra il codice Albertino il diritto romano e la legislazione anteriore (LIB I, TIT X, pag.417).

  11. Manuale Forense ossia il confronto fra il codice Albertino il diritto romano e la legislazione anteriore (LIB I, TIT X, pag. 428).

  12. Manuale Forense ossia il confronto fra il codice Albertino il diritto romano e la legislazione anteriore (LIB I, TIT X, pag. 418).

  13. ibidem

 

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