Moralità e aggressività minorile

 In FocusMinori, N. 2 - giugno 2021, Anno 12

Sono molte le teorie ed i contributi empirici che hanno analizzato l’influenza della moralità su condotte aggressive, immorali o più in generale antisociali. Nel presente articolo, è stato preso in considerazione solo il legame tra moralità e comportamento aggressivo e non il costrutto multidimensionale dell’antisocialità, la quale comprende condotte aggressive, illegali, delinquenziali, oppositive, provocatorie ecc., che sono tra loro affini, ma non sovrapponibili (Bacchini, 2011). Dopo una breve descrizione delle dimensioni dello sviluppo morale e dell’aggressività, si analizzerà l’influenza della moralità sulle condotte aggressive e la distinzione tra pensiero morale e azione morale (Bandura, 1986), descrivendo il concetto di disimpegno morale.

Il concetto di moralità

Generalmente, la moralità è intesa come un insieme di principi che permettono di distinguere tra ciò che è giusto (morale) e ciò che è sbagliato (immorale). Per definire il termine «moralità» si impiegherà la definizione, più strettamente psicologica, di Cassibba e Coppola (2003), secondo cui «la moralità di ogni individuo è costituita dall’insieme delle convinzioni, in cui si crede fermamente e rispetto alle quali si conforma il proprio modo di agire, che riguardano il modo in cui tutti gli esseri umani dovrebbero comportarsi nella società[1]».

Lo sviluppo morale è una importante dimensione della maturazione socio-emotiva (Di Pentima & Ramelli, 2020). Esso si inserisce all’interno del più ampio percorso evolutivo che conduce il bambino da una condizione di eteroregolazione, in cui ha bisogno di essere controllato dall’esterno, a forme sempre più evolute di autoregolazione, in cui diviene sempre più capace di controllare autonomamente il proprio comportamento (Cassibba & Coppola, 2003). Nel complesso costrutto del funzionamento morale, sono coinvolti processi psicologici di ordine cognitivo, emotivo e motivazionale: esso è, inoltre, influenzato dai fattori sociali, ovvero dalle esperienze maturate nei contesti di vita (Caravita & Gini, 2010).

Dal punto di vista cognitivo, è importante lo sviluppo dei processi psicologici implicati nella comprensione del significato delle norme, dei valori e dei ruoli sociali, ovvero la capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato (Di Pentima & Ramelli, 2020). Dal punto di vista emotivo, sono coinvolte le emozioni che promuovono o seguono la messa in atto di un’azione morale: da ciò la rilevanza dell’acquisizione di competenze emotive specifiche, come le capacità empatiche nel riconoscere gli stati affettivi altrui nonché la capacità di provare emozioni associate ai propri comportamenti, come il senso di colpa o la vergogna (Hoffman, 2000). Nel percorso evolutivo è. inoltre, coinvolta la motivazione ad agire nel modo ritenuto moralmente corretto (Caravita & Gini, 2010).

Con riferimento ai fattori sociali, merita precisare che il comportamento morale è sempre socialmente situato (Caravita & Gini, 2010), ossia l’agire morale si compie all’interno di relazioni interpersonali che sono il prodotto dell’interazione tra processi individuali e influenze sociali (Bandura, 1999). Soprattutto in età adolescenziale, il gruppo dei pari è una risorsa fondamentale: pertanto, è opportuno considerare anche l’influenza delle norme del gruppo sul comportamento morale o immorale dell’individuo. Esiste, infatti, una relazione significativa tra il comportamento del soggetto, le norme di gruppo e l’accettazione al suo interno, di cui è necessario tenere conto sia a fini preventivi che valutativi.

L’attenzione degli studiosi che si sono occupati dei processi psicologici connessi alla moralità si è focalizzata, di volta in volta, su dimensioni diverse, privilegiando inizialmente il pensiero e il ragionamento (Piaget, 1972; Kohlberg, 1976), per poi ampliare gli studi alla sfera emotiva (Hoffman, 2000) e, più recentemente, esaminandone le connessioni con le strutture neurali dell’essere umano (Caravita & Gini, 2010). Il pensiero morale include quindi, non solo i processi di interiorizzazione delle norme, ma anche l’acquisizione di criteri in grado di valutare il proprio comportamento (Di Pentima & Ramelli, 2010). L’insieme dei principi morali è il risultato dell’avvenuta interiorizzazione delle norme e dei valori, propri dello specifico contesto sociale in cui l’individuo è inserito e, in alcuni casi, di principi condivisi universalmente, come non ledere i diritti degli altri o non arrecare loro un danno (Cassibba & Coppola, 2003).

L’interiorizzazione non è un processo automatico e passivo bensì un apprendimento lento, che impegna i primi anni dell’infanzia del bambino, il quale, attraverso le informazioni che gli vengono trasmesse dall’ ambiente in cui è inserito, comincia a costruire un modello di norme interiori, idoneo ad indirizzarne il comportamento successivo (Cassibba & Coppola, 2003). In questa fase iniziale dello sviluppo, l’adulto rappresenta una sorta di «regolatore esterno», il cui compito è quello di creare situazioni quotidiane nelle quali il bambino abbia poche possibilità di agire comportamenti inadeguati, come l’aggressione fisica, e orientarne la condotta, ad esempio attraverso interventi sanzionatori (proibizioni, punizioni) nel caso di comportamenti scorretti o premi e rinforzi positivi a sostegno di azioni corrette (Di Pentima & Ramelli, 2020). Con la crescita, l’adulto associa alle sanzioni la spiegazione delle ragioni per cui è importante attenersi a determinate regole di comportamento (Di Pentima & Ramelli, 2020).

Tramite questo processo di socializzazione, il bambino inizia a strutturare un pensiero morale, che include le norme, ma anche la preoccupazione per le conseguenze delle proprie azioni sugli altri (Di Pentima & Ramelli, 2020). Sarebbe questo tipo di pensiero morale, centrato sull’empatia piuttosto che sulla paura delle sanzioni sociali, a favorire lo sviluppo di una capacità di autoregolazione. Man mano che i criteri morali vengono interiorizzati cominciano ad assumere il ruolo di guida e deterrente rispetto alla condotta. Infatti, quando il bambino viola questi criteri personali di condotta possono insorgere emozioni spiacevoli quali senso di colpa e vergogna, che quindi fungono da deterrente alla messa in atto di azioni scorrette (Campos, Frankel & Camras, 2004).

Lo sviluppo morale è quindi un percorso evolutivo che procede dall’infanzia all’adolescenza fino all’età adulta e può influenzare, ma non sempre determinare, il comportamento umano (Graziani & Palmonari, 2014). Già a partire dai tre anni, il bambino diventa non solo capace di comprendere le regole sociali e di conformare il proprio comportamento in relazione ad esse, ma anche capace di verbalizzarle e di esigere il rispetto da parte degli altri (Cassibba & Coppola, 2003).

Tuttavia, lo stesso concetto di regola assume un significato diverso durante le varie fasi dello sviluppo: se all’inizio il bambino sembra rispettare le regole per paura delle punizioni o per ottenere un premio, solo successivamente riesce a comprenderne la funzione sociale (Graziani & Palmonari, 2014). Bambini e adolescenti si pongono, quindi, diversamente di fronte alla relazione tra regole e moralità. L’evoluzione dello sviluppo morale assume rilevanza in fase adolescenziale, per due principali motivi: innanzitutto, perché durante l’adolescenza si sviluppa una forma di ragionamento più articolato ed astratto (ipotetico e deduttivo), che permette di comprendere le conseguenze delle violazioni in termini di equità e giustizia. In secondo luogo, la moralità gioca un ruolo importante in una fase della vita in cui l’adolescente si trova ad affrontare il compito di sviluppo più delicato, ovvero riorganizzare e ridefinire la propria identità; condizionato anche dal supporto sociale su cui il medesimo può contare. I valori morali rappresentano una base importante per giungere alla definizione di sé; inoltre, più le norme morali fanno parte della definizione di sé e più sono predittive del comportamento (Graziani & Palmonari, 2014).

Il concetto di aggressività

Circoscrivere in maniera univoca il comportamento aggressivo non è semplice: tuttavia, una delle definizioni maggiormente condivise è quella di Anderson & Bushman (2002, In Capri & Fabio, 2020), che qualifica come aggressivo «qualsiasi comportamento emesso con l’intento immediato di causare danno all’altro[2]». In essa, emergono due aspetti fondamentali per considerare un’azione aggressiva: il primo è costituito da un danno, a livello fisico o psicologico, che la condotta mira a provocare; il secondo è dato dall’intenzionalità ovvero dalla volontà di provocare un danno al destinatario dell’atto. L’intenzionalità presuppone quindi l’aspettativa che quel determinato atto provochi un particolare effetto.

La capacità di controllare le espressioni dell’aggressività è un’importante conquista dello sviluppo morale, che dipende sia dalla interiorizzazione delle norme di condotta sociali e morali, sia dallo sviluppo dell’empatia, che porta con sé la conseguente volontà di non danneggiare gli altri. Dalla letteratura emerge che i comportamenti aggressivi durante l’età evolutiva si manifestano con modalità e frequenza differenti in base all’età della persona, così come il significato del comportamento aggressivo cambia durante lo sviluppo. La letteratura di riferimento ha mostrato l’esistenza di fattori cognitivi, genetici ed emotivi, che influenzano l’aggressività (Markel’, 2018; Ramirez & Andreu, 2006). I diversi stimoli, combinati con tipi diversi di processi mentali e fisiologici, creano diverse forme di aggressività (Capri & Fabio, 2020). Dal punto di vista delle manifestazioni comportamentali, l’aggressività può assumere diverse forme: quelle maggiormente ricorrenti in letteratura richiamano la distinzione tra aggressività diretta e indiretta (Buss, 1961; Gendreau & Archer, 2005). L’aggressività diretta comprende attacchi aperti e manifesti e le forme che può assumere sono riconducibili all’aggressione fisica e a quella verbale. Nell’aggressività indiretta l’attacco è perpetrato attraverso vie meno esplicite, più subdole, che non richiedono necessariamente la compresenza di vittima e aggressore nello stesso luogo. Sono esempi di aggressioni indirette i comportamenti come pettegolezzi o calunnie, agiti con lo scopo di mettere in imbarazzo o denigrare, oppure la manipolazione delle relazioni, come l’esclusione dalle interazioni sociali.

Nel periodo infantile, l’aggressività si manifesta dapprima in forma fisica, presto affiancata da quella verbale (Cairns, 1979). Già in età prescolare la frequenza di aggressioni di tipo fisico tende a diminuire e l’aggressione verbale è preferita a quella fisica; tuttavia, durante la scuola dell’infanzia sono ancora poco presenti le forme di aggressione indirette, le quali richiedono competenze socio-cognitive più elevate (Caravita & Gini, 2010), riconducibili ad abilità di teoria della mente, che si sviluppano a partire dai quattro anni. Durante gli anni della scuola primaria, i bambini cominciano ad utilizzare sempre più l’aggressione indiretta: alcuni studi mostrano, infatti, un deciso aumento nella frequenza delle aggressioni indirette tra gli 8 e 11 anni, seguito da un progressivo declino fino ai 18 anni (Caravita & Gini, 2010).

Durante l’età scolare, la frequenza delle condotte disfunzionali nella popolazione generale tende a diminuire (Olweus, 1996), perché i bambini imparano a tenere sotto controllo gli impulsi aggressivi, sebbene in una minoranza di soggetti essa diventi problematica per i genitori, gli insegnanti ed i coetanei (Loeber & Hay, 1993). L’età scolare rappresenta, quindi, un periodo sensibile, in cui iniziano ad emergere, in una piccola percentuale di bambini, situazioni critiche, caratterizzate da un ricorso più frequente all’aggressione, in particolare diretta (Caravita & Gini, 2010). Tali situazioni sono ad elevato rischio di avvio di un percorso caratterizzato da un’alta frequenza di comportamenti aggressivi e antisociali, che diventeranno particolarmente evidenti durante gli anni dell’adolescenza (Dodge et al, 2006).

L’aggressività viene, altresì, classificata in ragione della funzione cui essa assolve. La letteratura (compresa quella relativa alla psicologia forense) considera importante la distinzione fra aggressività reattiva e proattiva o strumentale (Feshbach, 1970; Miller & Lynam, 2006). L’ aggressività reattiva è impulsiva, spesso esplosiva e incontrollata (Fagiani & Ramaglia, 2006) ed è riconducibile alla tendenza a reagire con violenza ad uno stimolo percepito come minaccioso. Capri e Fabio (2020) affermano che «in questo caso c’è una forte reazione del sistema nervoso autonomo scatenata da emozioni quali rabbia e paura; questa reattività si caratterizza per alti livelli di arousal, ovvero dello stato fisiologico di attivazione dell’organismo[3]». Al contrario, l’aggressività proattiva, è messa in atto per raggiungere un obiettivo desiderato, «è dominata da componenti cognitive e intenzionali e caratterizzata da bassi livelli di arousal, cioè da un atteggiamento più freddo[4]» (Fagiani & Ramaglia, 2006). Dal punto di vista motivazionale, la letteratura di riferimento ritiene che l’aggressività reattiva sia l’effetto di un’incapacità ad utilizzare modalità riflessive per fronteggiare frustrazione e paura (Fagiani & Ramaglia, 2006), mentre l’aggressività strumentale si caratterizza per il fatto che l’obiettivo principale dell’aggressore non è danneggiare la vittima, ma realizzare un tornaconto personale. Infatti, generalmente, l’intensità di questa tipologia aggressiva diminuisce una volta cessate le ricompense.

Il progressivo sviluppo cognitivo del bambino comporta un maggiore controllo del comportamento, il quale è influenzato, in modo crescente, dall’interpretazione personale degli eventi (Shaffer, 1998). Dodge e Petit (2003) sostengono che i soggetti aggressivi, nella raccolta di elementi di comprensione delle altrui intenzioni, ricercano meno informazioni rispetto ai soggetti non aggressivi. I bambini reattivi, pertanto, agirebbero aggressivamente in risposta alla loro percezione delle intenzioni degli altri; dal punto di vista emotivo, infatti, la difficoltà a regolare le proprie emozioni li indurrebbe ad essere altamente reattivi, con un aumento di probabilità di assumere comportamenti di acting out (Caravita & Gini, 2010). Dati di ricerca hanno confermato la presenza di difficoltà socio-cognitive nei bambini con aggressività reattiva, relative soprattutto alla codifica e all’interpretazione degli stimoli sociali. Anche i bambini con aggressività proattiva presentano difficoltà socio-cognitive in riferimento alla risoluzione di conflitti, ma in processi di elaborazione delle informazioni sociali diversi. Inoltre, dal punto di vista emozionale, hanno bassi livelli di reattività, di empatia e disagio emozionale nel rispondere alle reazioni emotive degli altri (Little & Card, 2007). La distinzione tra aggressività reattiva e proattiva assume rilievo anche in riferimento allo sviluppo di interventi preventivi, i quali dovrebbero tenere in considerazione le differenze implicate nella predetta classificazione.

Moralità e aggressività minorile

Il nesso tra sviluppo morale e comportamenti aggressivi o, più in generale, antisociali, risulta più complesso rispetto al legame tra cognizioni ed emozioni morali e comportamento prosociale. Come precedentemente affermato, la capacità di controllare le espressioni dell’aggressività è un’importante conquista dello sviluppo morale, che dipende sia dalla interiorizzazione delle norme di condotta sociali e morali, sia dallo sviluppo dell’empatia, implicante la volontà di non danneggiare gli altri. Giova, quindi, sottolineare la rilevanza del coinvolgimento dei processi psicologici di ordine cognitivo, emotivo e motivazionale, oltre all’influenza dei fattori sociali. La relazione tra regole morali e agire morale è complessa, in primo luogo, perché lo stesso concetto di regola assume un diverso significato nel corso dello sviluppo – all’inizio i bambini sembrano rispettare le regole per paura delle punizioni o per ottenere un premio, una ricompensa, solo successivamente sono in grado di comprenderne la funzione sociale – in secondo luogo, perché la comprensione di ciò che è giusto non determina necessariamente l’adozione di un comportamento congruente.

In particolare, Bandura (1986), nel formulare la sua teoria socio-cognitiva, distingue tra il pensiero morale e l’azione morale: il primo riguarda i principi etici progressivamente interiorizzati dal bambino mentre la seconda è costituita dalle condotte messe in atto. Secondo il modello teorico proposto da Bandura, l’acquisizione dei principi morali non garantisce, per ciò solo, la moralità del comportamento conseguente. Infatti, alcuni meccanismi cognitivi – denominati di disimpegno morale (Bandura, 1991) – possono neutralizzare i processi di controllo interno e le auto-sanzioni, come ad esempio, il senso di colpa. In particolare, attraverso processi cognitivi di giustificazione del proprio comportamento, l’individuo viene preservato dai sentimenti di auto-biasimo, che costituiscono il deterrente alla messa in atto delle condotte immorali (Di Pentima & Ramelli, 2020).

Nel comportamento aggressivo, alcuni meccanismi inducono il soggetto a disimpegnarsi moralmente, ovvero a creare una separazione tra le conoscenze morali e il comportamento agito. Nel suo modello Bandura (1991, 2002) ha identificato otto meccanismi di disimpegno morale:

  • La Giustificazione Morale: si tratta di un meccanismo che consente di attivare un processo di ricostruzione cognitiva del significato della condotta censurabile. Un’azione immorale viene resa personalmente e socialmente accettabile presentandola al servizio di valori etici superiori, come difendere il proprio onore oppure la reputazione dei propri cari.
  • L’Etichettamento Eufemistico: consente di definire positivamente un comportamento negativo, facendolo apparire meno grave di quello che è in realtà, oppure presentandolo in modo migliore.
  • Il Confronto Vantaggioso: un proprio comportamento negativo viene posto a confronto con un comportamento più grave che si sarebbe potuto attuare, al fine di rendere il primo più accettabile.
  • Il Dislocamento della Responsabilità: la responsabilità di un’azione negativa viene attribuita non a colui che ha compiuto tale comportamento, ma a soggetti esterni (amici, famiglia, ecc.).
  • La Diffusione della Responsabilità: consiste nell’attribuire la responsabilità di un’azione immorale a tutti gli individui che ne sono coinvolti, attenuando così il senso di responsabilità personale. Ciò può dar conto della ragione per cui, in contesti di responsabilità di gruppo, gli individui tendono a comportarsi in modo più crudele rispetto a contesti individuali, in cui si ritengono responsabili delle proprie azioni in prima persona.
  • La Distorsione delle Conseguenze: permette di minimizzare le conseguenze di un’azione negativa, facendola apparire meno grave sul piano degli esiti. Questo meccanismo inibisce il senso di colpa dell’individuo quando la sofferenza della vittima viene minimizzata, negata o distorta.
  • La Deumanizzazione: è un meccanismo attraverso cui la vittima viene percepita dall’autore dell’azione come “sub-umana”. La vittima è svalorizzata come persona, perdendo le sue caratteristiche umane, quali sentimenti, speranze, motivazioni, cosicché divenga più facile renderla oggetto di un attacco aggressivo. La perdita della connotazione umana fa scemare ogni reazione di comprensione empatica nei confronti della vittima.
  • La Colpevolizzazione della Vittima: la vittima viene ritenuta colpevole del comportamento aggressivo esercitato nei suoi confronti. Si ritiene che a causare l’attacco aggressivo sia un comportamento oppure una caratteristica della vittima: in tal modo, chi agisce la violenza non si sente in colpa.

Dai dati di ricerche condotte in infanzia e in adolescenza, è emersa non solo l’esistenza di una relazione positiva tra disimpegno morale e condotta aggressiva (Caprara et al, 1996; Caprara et al, 1995), ma anche rispetto a reiterate vessazione nei confronti dei pari (Gini, 2006; Hymel, Rocke-Henderson & Bonanno, 2005). In riferimento al disimpegno morale, è interessante riportare brevemente alcuni risultati sul fenomeno del bullismo, considerato una forma di comportamento aggressivo: nei soggetti bulli sono stati riscontrati sia deficit nella capacità di assumere il punto di vista dell’altro e nella motivazione morale (Gasser & Keller, 2009), sia meccanismi di disimpegno morale che, ostacolando emozioni di rimorso, consentono il perpetuarsi di condotte aggressive (Menesini et al., 2003; Caravita et al, 2014; Di Pentima & Ramelli, 2020).

Rispetto al comportamento aggressivo in adolescenza, le differenze individuali nel disimpegno morale sono state analizzate in uno studio longitudinale di Paciello et. al (2008), condotto su adolescenti italiani di età compresa tra 14 e 20 anni. Gli Autori teorizzavano che il disimpegno morale potesse costituire uno dei meccanismi in grado di spiegare il processo di cronicizzazione dei comportamenti aggressivi e violenti nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Lo studio ha messo in luce l’esistenza di quattro differenti traiettorie evolutive nell’associazione tra meccanismi di disimpegno morale e condotte aggressive. Un primo gruppo di adolescenti (37.9%), con iniziali bassi livelli di disimpegno morale, mostra nel tempo un ulteriore e significativo declino, che si registra anche in un secondo gruppo (44.5%), con moderati livelli iniziali di disimpegno morale. Un terzo gruppo (6.9%), invece, inizia con elevati livelli di disimpegno morale, che sono seguiti da un significativo incremento da 14 a 16 anni e poi da una successiva riduzione da 16 a 20 anni. Infine, un quarto gruppo (10.7%) presenta alti livelli di disimpegno morale, che mantiene elevati nel tempo e che si rivela il più a rischio di manifestare in adolescenza e mantenere anche nella prima età adulta, comportamenti aggressivi e antisociali (Paciello et al, 2008). Dagli studi emerge, quindi, che il disimpegno morale risulta un fattore di rischio per la messa in atto di azioni aggressive, in quanto aumenta potenzialmente la tolleranza verso la violenza (Caravita & Gini, 2010).

Dalla letteratura emerge anche un altro elemento significativo, ovvero che, in chi si percepisce come efficace nelle relazioni sociali, la tendenza a disimpegnarsi è minore (Bandura et al., 2001). Infatti, la tendenza ad attuare comportamenti aggressivi è correlata ad una minore autoefficacia, la quale sembra determinante nel gestire i comportamenti individuali (Caprara et al., 1998; Caprara et al, 2002). Il disimpegno morale è, inoltre, correlato all’aggressività in quanto i bambini hanno più difficoltà ad assumersi le responsabilità del proprio comportamento (Bandura, Caprara, Barbaranelli & Pastorelli, 1996; Capri & Fabio, 2020).

Conclusioni

Le ricerche affermano l’importanza di inquadrare l’aggressività nell’ambito di specifici momenti evolutivi, rispetto ai quali si evidenzia un periodo sensibile, in cui la manifestazione di eventuali comportamenti aggressivi tende progressivamente a ridursi nella maggior parte dei bambini, diventando, invece, problematica per una minoranza di soggetti. Ciò alimenta l’elevato rischio di avviare un percorso caratterizzato da un’alta frequenza di comportamenti aggressivi e antisociali, destinati ad acuirsi particolarmente durante il periodo adolescenziale. Al riguardo, sarebbe interessante analizzare il più ampio costrutto dell’antisocialità e dell’influenza della moralità su di essa: il nesso tra aggressività e moralità è certamente complesso e richiederebbe l’approfondimento di ulteriori aspetti della tematica in oggetto. Comprendere questo nesso è di utilità pratica, posto che il contrasto alla diffusione di comportamenti aggressivi, violenti e illegali è tra le principali preoccupazioni di genitori, insegnanti e operatori sociali, oltre che uno dei principali obiettivi delle politiche sociali (Bacchini, 2011).

Nel 1996 l’Organizzazione Mondiale della Sanità «ha adottato una risoluzione che definisce il tema della violenza come un problema globale che investe la salute dei bambini e dei giovani e ha invitato tutti i paesi membri ad affrontare con urgenza questo problema (PMS 49.25) [5]» (Menesini et al., 2017). Benché gli studi e gli interventi su questa tematica siano aumentati in modo esponenziale negli ultimi anni, è necessario implementare l’area della ricerca, al fine di evitare che eventuali dinamiche disfunzionali presenti sin dall’infanzia, seppure limitatamente ad una minoranza di soggetti, possono perpetuare i propri effetti deleteri sul percorso evolutivo della persona.

 

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