La libertà rubata

 In CaseHistory, N. 1 - marzo 2011, Anno 2

La libertà intesa come diritto della persona, valore interiore di responsabilità della propria vita, riconoscimento di sé e rispetto per l’altro, dovrebbe naturalmente fiorire in ogni uomo come parte integrante e innegabile del suo essere e della propria vita. La libertà, di fatto, è spudoratamente sottratta con l’inganno da chi usa tecniche di manipolazione mentale, soggiogando persone per fini illeciti allo scopo di detenere potere e vantaggi personali.

Sono stata vittima di un sedicente mago per dieci anni, da quando ne avevo ventuno.

La mia vicenda cominciò quando un ragazzo del quale mi fidavo, che credevo un amico, mi consigliò di consultare un mago cartomante suo conoscente, descrivendomene doti e affidabilità, insinuandomi il dubbio di essere in pericolo a causa di altre persone. In quel periodo, già da tre anni, stavo inoltre vivendo una situazione di profonda sofferenza dovuta alle gravissime condizioni di salute di mia madre, colpita da vari ictus che l’avevano resa irrimediabilmente paralizzata e priva dell’uso della parola.

Seguii l’invito dell’amico senza valutare il rischio che poteva presentare. Ero allarmata dalla sua preoccupazione, e mi affidai al parere di un sedicente mago che di mia iniziativa non avrei preso in considerazione.

In pochi mesi questo personaggio si pose al centro della mia vita e allo stesso tempo mi convinse che avevo dei nemici in famiglia e tra gli amici più intimi, col risultato di separarmi da loro. Così cominciai a sentirmi profondamente sola, ferita, insicura, circondata da nemici, senza più le certezze di un tempo, abbandonata da tutti, ma non da lui. Lui ribadiva sempre che non dovevo credere in me stessa e a forza di sentirmelo dire, mi sentivo sbagliata. Lui invece era l’unico ad avere la conoscenza e l’autorità di decidere per me e avrebbe senza dubbio agito per il mio bene. Usava la sua abilità manipolatrice per indurmi in un persistente stato di confusione, bersagliandomi con messaggi contraddittori ed emozionalmente forti, senza darmi il tempo di valutarli.

La prima mossa che mise in atto fu una più complessa strategia di condizionamento mentale di cui ogni abile manipolatore si avvale, conosciuta con il nome di love bombing, cioè far sentire in grave pericolo la persona e al tempo stesso assicurarle comprensione e protezione. Il risultato è di creare una confusione emotiva e mentale tale da indurre ad affidarsi totalmente di quella persona.

Il passo successivo della strategia fu stato quello di indurmi al cambiamento della personalità con parole, frasi e regole ripetuti per notti intere fino all’ossessione, in un clima di terrore alternato a rassicurazione che gli era facile produrre. Seguirlo significava raggiungerlo ogni volta che lo ordinava e restarci fino a quando mi dava il permesso per congedarmi. Inizialmente non chiedeva soldi, per rafforzare l’idea della gratuità del suo aiuto. Ma lo fece in seguito, danneggiandomi anche economicamente. Entrare nella sua casa era come chiudere la porta al mondo come lo conoscevo prima ed immergermi nel suo, completamente fuorviante.

La parola è l’arma di persuasione più efficace e attraverso questa mi trasmetteva sensazioni sempre più allarmanti, ripetendo incessantemente le sue regole, associandole a minacce e umiliazioni che radicavano in me un sempre più saldo senso di inferiorità, autosvalutazione, senso di impotenza e dipendenza. Comandava incontri sempre più frequenti durante i quali , ogni volta, rinnovava il trauma.

Ho subìto le peggiori offese e umiliazioni che possa ricevere una donna. Le ho sentite nella carne e nell’anima, in balìa di un ciarlatano che sceneggiava anche impressionanti possessioni spiritiche che duravano ore, durante le quali si definiva colui che è. Prometteva la mia salvezza fisica e spirituale, felicità e benefici per me e mia madre al prezzo di tormento, violenze, abusi fisici e psicologici che lui definiva riti.

La mia storia, che ho scritto nel libro autobiografico Plagiata, pubblicato da Mondadori nel 2008, è inevitabilmente stata traumatica e devastante sotto ogni profilo, ma oggi posso dire di essere fortunata solo per il fatto di esserne uscita e di essere viva.

Desideravo essere libera, ma solo dopo la privazione della libertà ho conosciuto veramente il significato di questa parola.

È proprio della condizione umana avere un punto fragile, non necessariamente lo stesso per tutta la vita. Può dipendere dalle le più svariate ragioni: un dolore che ci si porta dentro o un periodo di cambiamento interiore o condizioni esterne, o la ricerca di risposte spirituali: sono esperienze da integrare che fanno parte della vita stessa e possiamo chiamarle periodi di crisi, o cambiamento, più o meno accentuati. Ed è in questi spazi, intesi come lassi temporali o intime vulnerabilità, comuni a tutti, che fanno breccia gli sfruttatori. Per questo non ci sono caratteristiche costanti utili a definire  la potenziale vittima di un manipolatore. Chiunque può diventarlo se sussistono le giuste condizioni. Una persona diventa più manipolabile quando è raggirata e colpita nel momento e nella zona in cui è facilmente attaccabile.

La vera tragedia delle vittime è l’impossibilità di rendersi conto di essere caduti in una gabbia atroce, mentre il plagio è già in atto. Tanto non se rendono conto da arrivare al punto di tutelare l’aguzzino, perdere ogni senso critico, passo dopo passo fino ad accettare passivamente ogni controsenso, ogni assurdità, ogni abuso, ogni violenza. Con la convinzione che quella sia l’unica strada possibile da percorrere per risolvere i problemi, per un futuro migliore. Un futuro che però non arriva mai.

Una vittima di plagio, anche se maggiorenne, non è libera di pensare liberamente e di scegliere, quindi non è in grado di poter denunciare, mentre è soggiogata. È una persona spenta. Come lo ero io. Come lo erano le altre persone che insieme a me hanno perso anni preziosi della loro vita. Per questa ragione le persone irretite non possono salvarsi da sole e c’è bisogno di una legge che tenga conto di questo aspetto.

La mia è solo una delle tante storie e, se la si guarda da una prospettiva più ampia, è simile a molte altre. Il denominatore comune è il plagio, per il quale, dopo il vuoto normativo lasciato nel 1981 con l’abrogazione della legge 603, non è ancora stato approvato un testo specifico che ne determini il reato.

Così i leader di culti distruttivi hanno avuto trent’anni di tempo per radicarsi nel nostro territorio nazionale, approfittando di questa carenza legislativa e della limitante e sommaria credenza che il plagio attecchisce solo su chi è ingenuo.

Sono sempre più numerose le persone di ogni estrazione sociale ad essere attirate nei culti distruttivi.

Il danno patito dalle vittime è ingentissimo. La sofferenza di questa rottura colpisce, si irradia e si ripercuote in varie forme su ogni membro della famiglia. Chi ha il privilegio di salvarsi, spesso riporta profonde e indelebili cicatrici psicologiche con inevitabili ripercussioni in ambito affettivo, relazionale, professionale, manifestando danni di diversa entità. Nei casi più gravi, irreversibili.

Ho denunciato il mago nel 2003 e contestualmente ho iniziato a scrivere il mio libro. La scrittura è stata mia compagna in un lungo percorso di catarsi e rielaborazione per riallacciare le mie trame più intime con quelle sociali, per capire cosa mi era accaduto e perché.

In seguito alla denuncia, la Polizia svolse accurate indagini e il sedicente mago fu arrestato per sei mesi, ma in seguito scarcerato per decorrenza dei termini, in attesa del processo che doveva ancora iniziare.

Nel 2007 è cominciato il processo e nel maggio 2008 è stata emessa la sentenza di primo grado che condanna l’imputato a quindici anni di reclusione, una pena esemplare tra quelle inflitte per fatti analoghi, confermata anche in secondo grado dalla Corte di Appello di Bologna il 21 gennaio 2010. Nonostante ciò, l’incriminato è ancora a piede libero, in attesa della conclusione del processo con la sentenza in Cassazione che si terrà il prossimo 14 giugno 2011.

La responsabilità della propria vita è sinonimo di libertà, è la cosa cui aspira ogni uomo, ma dopo aver subito un plagio, anche la più difficile da conquistare. C’è un periodo in cui il trauma si moltiplica, durante la presa di coscienza, come una bomba esplosa che prolunga la sua deflagrazione nel tempo.

È penoso riconoscere a se stessi che qualcun altro si è appropriato della propria mente, del corpo, della vita, ma è necessario per ritrovarsi. In questo processo si sviluppa un’eccessiva autocritica che diventa schiacciante, caricata del senso di colpa e svalutazione per non essere stati in grado di impedire la privazione della propria identità. E spaventa, questa responsabilità, perché per anni si è inconsapevolmente delegata ogni scelta a un altro individuo. È come ricominciare a vivere da adulti con gli stessi strumenti di un neonato. Si ha bisogno di certezze, e le uniche che si avevano, anche se dannatamente sbagliate, sono crollate in un istante. Il disorientamento e lo sconforto ti atterriscono e diventa difficile prendere anche la più banale delle decisioni. In un momento così delicato sono fondamentali la rassicurazione e l’affetto incondizionato dei propri cari e degli amici.

Agire legalmente, non significa solo volere giustizia, ma anche sostenere un notevole carico emotivo ed economico. Significa dover ricordare, testimoniare, ripercorrere per anni le tappe di un calvario mentre si vorrebbe solo dimenticare. Significa anche accettare il rischio di minacce ed intimidazioni cui spesso sono sottoposti i fuoriusciti delle sette distruttive, superare la paura e il senso di vergogna che frena ogni stimolo ad esporsi.

Per questi motivi sono rare le denunce rispetto ai reati ed una stima reale del fenomeno è resa imprecisa, per difetto, dal sommerso. Ad ogni modo, qualora la decisione di denunciare venisse presa, una delle prime cose che la vittima di plagio dovrà spiegare è come sia stato possibile restare tanto tempo succubi. Questo punto può essere oggetto di strumentalizzazione da parte degli avvocati della difesa in sede di processo, quando insinuano che il lungo tempo trascorso in tali condizioni senza ribellione o evasione è indice di libera scelta del soggetto che ci rimane.

Ma non è così. Il tempo è a favore dell’aguzzino. In un lungo periodo di sudditanza egli ha, e crea, maggiori occasioni di rinnovare assiduamente e pesantemente il condizionamento, affinché le circostanze di svincolarsi della vittima siano rese vane.

È probabile, inoltre, che intercorra un ulteriore lungo lasso di tempo dal momento in cui la persona comincia un percorso psicologico per ristabilirsi a quello della decisione di agire legalmente. Anche questo può considerarsi fisiologico o, dal punto di vista della vittima, necessario. Sperando, naturalmente, che ciò non torni a vantaggio dell’imputato per quanto riguarda i termini di prescrizione dei reati.

Alla luce di quello che ho vissuto e delle considerazioni che ho fatto, rilevo che il plagio, nella sua varia scala di influenza, sta alla base di molti delitti contro la libertà della persona. Non solo in contesti circoscritti ai culti abusanti, ma anche in ambito di movimenti pseudo-religiosi non riconosciuti, in alcuni ambienti lavorativi, in relazioni di coppia distruttive… solo per fare alcuni esempi.

Manca la conoscenza del plagio, e di conseguenza la prevenzione. Spesso le famiglie imparano a conoscere il problema solo quando ci si imbattono, scoprendo un terreno vischioso, sottostante alla realtà visibile. L’unica mano tesa che possono trovare nell’immediato è data da alcune associazioni che svolgono in questo ambito un ruolo fondamentale di sostegno, ma ora è indispensabile l’intervento dello Stato per tutelare la libertà e l’autodeterminazione, come garantisce la nostra Costituzione negli articoli 2, 3 e 13.

Credere nella Giustizia e affidarsi ad essa è un atto di amore per la verità e chi intraprende la scelta di denunciare ha il diritto di sentirsi tutelato. Per i fuoriusciti da queste situazioni inoltre, è da considerare che la loro denuncia assume nondimeno un rilievo socialmente utile, e quindi sarebbe opportuno il riconoscimento di un sostegno psicologico e legale da parte dello Stato.

Ricordo bene il periodo precedente la mia denuncia. Riflettevo su quello che mi aspettava. Mi chiedevo se sarei stata forte abbastanza per sostenere un processo sotto tutti gli aspetti: psicologico, emotivo, economico, tempistico.

Poi decisi di non dare più ascolto alle paure, comunque sempre presenti, e seguii finalmente il mio cuore. Oggi posso dire di aver preso una delle decisioni più importanti della mia vita. Mi ha ridato forza e libertà.

Qualche mese dopo la pubblicazione del mio libro ho maturato la decisione di parlare a viso aperto, abbandonando i timori di espormi che avevo prima, perché nascondermi per le violenze subìte mi dava la sensazione di vivere a metà. Mostrarmi, ora, mi rende ancor più libera e penso che ciò dia maggiore forza al messaggio di speranza, tutela e aiuto che voglio dare. Oltre a presentare il mio libro, partecipo a conferenze e ho un sito[1] e sono coautrice del film documentario La prigione invisibile, insieme ai registi Lisa Tormena e Matteo Lolletti. Contiamo di farlo diventare uno strumento efficace di conoscenza, divulgazione e prevenzione.

In tutti gli incontri ai quali ho partecipato, ho riscontrato molto interesse da parte dei partecipanti, ciò conferma che l’informazione in questo campo è carente, come lo era stata all’interno della mia famiglia allora.

Perciò ogni giorno rinnovo la mia scelta di condivisione sempre più coscientemente, per dar voce a chi ancora non può parlare e perché ciò che ho subìto non sia inutile.

 


[1] www.claudiav.it

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