L’autorità infantile

 In FocusMinori, N. 1 - marzo 2019, Anno 10

Le parole “bullismo” e “cyberbullismo” sono termini noti. Se ne parla, se ne discute tanto. Di vicende di bullismo ne trattano i giornali, è argomento di programmi televisivi, di interviste ad esperti e professionisti. E’ una parola – “bullismo” – utilizzata dai bambini, dagli adolescenti, dagli adulti. Esiste il bullismo tra i più piccoli, non manca tra i ragazzi, fino a sfociare in veri e propri comportamenti aventi rilevanza penale, quando ad assumere atti provocatori non sono più gli adolescenti. Parlare di questi episodi non è mai banale, perché essi nascondono tante sfumature, sono inevitabilmente collegati a dinamiche sociali e giuridiche, che s’ignorano. Non tutti possono conoscere, nello specifico, argomenti di natura strettamente legale e di diritto. Ma ogni atto che si compie nella vita quotidiana instaura meccanismi automatici da cui non ci si può sottrarre. Ci si rispecchia con tematiche sconosciute solo quando, purtroppo, se ne è protagonisti. “Purtroppo” perché quando si è coinvolti in un atto di bullismo – quale autore o vittima, genitore o educatore – non è mai una bella esperienza di vita.

Il “bullo” è sempre esistito. Chi di noi non ricorda a scuola o nei luoghi di aggregazione il ragazzino o la bambina più prepotente degli altri, con difficoltà a farsi degli amici, se non col raggiro dell’intimidazione. A volte il bulletto o bulletta erano proprio i più “grandi” – esteticamente parlando –, quelli che crescevano oltre la media dei bambini della loro età, e che pertanto erano convinti di essere più forti, di potersi imporre, con il loro carattere aggressivo ed utilizzando forme subdole per colpire i più fragili. Mi smentisca chi non ricorda che in classe, sin dalle elementari, si creavano sempre almeno due gruppetti. C’era la comitiva dei più “furbi”, dei più “carini”, dove i ragazzini più ambiti facevano squadra e le bambine più “cresciute” rispetto alla loro età, iniziavano a sentirsi belle e attraenti. C’era poi il gruppetto di quelli che tutti definivano “gli sfigati”, quelli con l’apparecchio, quelli con gli occhiali, quelli che prendevano bei voti a scuola ed erano sempre apprezzati dalle maestre, poco ricercati dai compagni. Nel mezzo si trovavano sempre, però, quei pochi che si guardavano attorno, che non sentivano di appartenere né a un gruppo, né all’altro. Che non avevano le caratteristiche giuste per entrare nella cerchia dei “fighi” e non erano sfigati abbastanza per far parte del gruppo degli “emarginati”. C’era poi chi si emarginava da solo. Il bullo però non era mai solo. C’è sempre stato chi era pronto a schierarsi con l’apparentemente più in gamba. Il bullo difficilmente agiva da solo; forse difficilmente agisce da solo. Istiga. Induce il suo “gruppo” a fare, a dire, a deridere.

Di pane e bullismo siamo cresciuti tutti. Si pensi a Cenerentola, l’emarginata dalle sorellastre, bullizzata. Si pensi a Dumbo, piccolo elefantino con le orecchie grandi, per questo deriso e oggetto di vessazioni. Si pensi al Gobbo di Notre Dame, bambino deforme, cresciuto nell’isolamento, evitato da tutti. Tra i più recenti Monster e Co, piccolo mostro preso in giro perché incapace di spaventare. Shreck, orco che vive in solitudine, che sceglie di isolarsi dalla società per via dell’aspetto che la natura gli ha riservato. Le trame di queste fiabe hanno tutte un perché, i racconti cercano sempre di sollecitare l’attenzione e la curiosità dei più piccoli su argomenti della vita comune.

I genitori, a volte, relegano a queste storie il mero compito di “intrattenere”, di “divertire”. Non è solo questo. Fin dal momento in cui il bambino ha la capacità di comprendere il significato di quel che vede e sente, delle storie che ascolta, l’intrattenimento non è più fine a sé stesso. È bene chiedersi il perché in queste, come in altre fiabe, troviamo il prepotente di turno, in realtà quasi sempre il protagonista, ma chi poi diviene l’idolo della storia è il più debole, quello inizialmente deriso, che tutti però alla fine ricordano.

Nella vita reale, non sempre la vittima iniziale riesce poi a riscattarsi. Purtroppo in diversi casi la vittima non riesce a farsi coraggio, non acquisisce la capacità di superare quei momenti di debolezza, quelle circostanze da cui vorrebbe fuggire. In alcuni casi la vittima cede. Preferisce non affrontare, mettere tutto a tacere, tacere la sua vita stessa.

Ma i genitori. Nei racconti dove sono? In Cerentola, il padre che sposa la matrigna e adotta così anche le sue due figliastre, è una figura totalmente assente. Nella vita reale i genitori del bulletto si rendono conto delle condotte del proprio figlio? Si riduce il tutto alla semplice spiegazione: “sono ragazzi”, “era solo uno scherzo”, o forse no, c’è chi si accorge di quel che accade, ma non riesce a prendere in mano la situazione, ad imporre la giusta educazione, ad impartire i dovuti insegnamenti. Ci sono, infatti, quei genitori che fanno del loro meglio, che provano a seguire i consigli degli esperti in materia anche tra grandi difficoltà. Ci sono però anche quei genitori che sembrano eterni Peter Pan, che difendono a spada tratta il proprio figlio e che a prescindere dai fatti si schierano contro maestre, insegnanti ed altri genitori.

Ci sono, ancora, quei genitori che, diciamolo, sono un pessimo esempio per i loro figli.

Mi riferisco a quelle tifoserie di mamma e papà che vanno ad assistere alle partite dei propri figli e poi accade che l’allenatore sia costretto a sospendere la partita di basket per gli insulti inaccettabili dei genitori nei confronti dei ragazzi e dell’arbitro, che di anni ne aveva solo 13.

Ci sono poi gli insegnanti, figure educative importantissime nella vita dei bambini. Già da piccolini vanno agli asili nido, scuole materne, scuole primarie e secondarie, dove altri adulti diventano insieme ai genitori persone di riferimento per loro. Anche in questo caso ci sono educatori ed educatori, perché sono persone e come tali, diverse. Non tutte le sensibilità hanno il giusto peso per affrontare situazioni complesse.

I bambini sono proprio questo, un divenire di eventi, perplessità, dinamiche, complicazioni. È complicato stargli dietro, comprenderli, riuscire a cogliere ogni sfumatura del loro atteggiamento oppositivo, o anche solo del loro bisogno impellente di un abbraccio e consolazione. A volte è difficile cogliere l’essenza della felicità e dei sorrisi che trasmettono i ragazzi. Ancora più gravoso comprendere i loro disagi. Ecco. Genitori ed educatori dovrebbero riuscire in tutto questo. Non è sicuramente compito facile. Perché così come esistono quei genitori inadeguati a ricoprire questo difficile mestiere, in cui per scelta o per occasione, ci si trova a lavorare h24, senza ferie né ore di riposo, bisogna rendersi conto che esistono anche gli educatori che non hanno gli strumenti e le attitudini per farlo.

Quegli insegnanti che seppur ottimi divulgatori della cultura e del sapere, difettano però di quello spirito critico e di quella sensibilità che consente loro di saper interagire con gli adolescenti, di saper cogliere le differenze, di sapersi guardare attorno con attenzione. E si arriva così come per i genitori a giustificare la mancata segnalazione di un episodio di bullismo, con un mero “andava tutto bene” – “non ce ne siamo accorti”. Non è facile.

Il bullismo, molto spesso, si maschera, ma avviene comunque. Chi lo compie sottovaluta il proprio gesto. Chi lo ignora ne sottovaluta le conseguenze.

Allora no. Qualcosa non va negli adulti, prima ancora che nei bambini. È forse sfuggito un passaggio importante alla società attuale, dove tutti conoscono o pensano di sapere: educare e vigilare.

Un progetto educativo deve necessariamente coinvolgere più attori. Genitori ed educatori devono interagire, confrontarsi, conoscere, chiedere aiuto ed essere aiutati. Forse sarebbe più efficace lavorare su parole che hanno bisogno di essere recuperate, salvaguardate. Una volta acquisito il concetto di “bullismo” ciò che rappresenta, come si articola e si manifesta, allora, sarebbe opportuno, impegnarsi a far riemergere il significato di concetti come “educazione” e “vigilanza”.

Su uno dei dizionari della lingua italiana si legge:

Educare: far crescere e maturare qualcuno, dal punto di vista morale e intellettuale; sviluppare, affinare con l’insegnamento determinate facoltà fisiche o spirituali.

Vigilare: fare attenzione, badare a qualcuno; esercitare vigilanza su qualcosa.

Può essere significativo, dunque, iniziare a discutere di culpa in educando e culpa in vigilando partendo ad esempio da una Sentenza del Tribunale di Roma, Sezione XIII, sentenza 4 aprile 2018, n. 6919, da cui si desumono alcuni importanti concetti: a) i genitori sono pienamente responsabili per i comportamenti persecutori posti in essere dai figli minori; b) è affermata la responsabilità insegnanti e dirigenti scolastici, dunque del Ministero dell’Istruzione, poiché seppur a conoscenza degli episodi di bullismo non hanno adottato i provvedimenti richiesti per porre fine alle vessazioni; c) i genitori e l’Istituto scolastico sono tenuti al risarcimento dei danni (fisici, esistenziali e relazionali).

Questa la parte in fatto: un alunno ha perseguitato un suo compagno per mesi e mesi, nella completa indifferenza degli adulti. Ha mortificato il proprio compagno aggredendolo verbalmente nel quotidiano, offendendolo all’interno della classe e fuori. Un giorno tra tanti lo ha aggredito fisicamente, procurandogli la rottura del setto nasale e della ragione orbitale.

La responsabilità dei genitori, dei tutori, precettori e maestri d’arte è sancita dall’art. 2048 c.c. ove si afferma che «Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela che abitano con essi». Ciò che è contestata è l’inadeguatezza dell’educazione impartita ai figli e la mancanza di vigilanza o insufficiente riguardo all’età del minore, che se attuata nel modo giusto avrebbe impedito il compiersi di azioni scorrette.

E non è compito facile dimostrare al contrario l’adeguatezza dell’impegno educativo e del sufficiente controllo. La Cassazione più volte ha affermato la responsabilità per “culpa in educando” ex art. 2048 c.c. dei genitori degli autori dei fatti illeciti poiché tali condotte sono risultate lesive di interessi attinenti la sfera della persona, costituzionalmente rilevanti e protetti dall’art. 2 della Costituzione, quali il diritto alla riservatezza, alla reputazione, all’onore, all’immagine. Tali comportamenti comportano l’obbligo per i genitori dei cyberbulli (sul presupposto del loro mancato assolvimento dei propri obblighi educativi e di controllo sui figli) di risarcire i danni non patrimoniali conseguiti dalla vittima e dai suoi familiari.

In alcune sentenze si parla addirittura di inadempimento dei doveri di educazione e di formazione della personalità del minore, in termini tali da impedirne l’equilibrato sviluppo psico-emotivo, la capacità di dominare gli istinti, il rispetto degli altri e tutto ciò in cui si estrinseca la maturità personale.

Può ricorrere anche una responsabilità dei genitori personale ed oggettiva per culpa in vigilando, per violazione dei doveri relativi all’esercizio della responsabilità genitoriale ex art. 147 c.c. con la conseguenza concernente l’onere probatorio in capo al «genitore che deve fornire la prova in senso positivo, ossia aver fornito una buona educazione in conformità alle condizioni sociali, familiari, all’età, al carattere e all’indole del figlio minore, come sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria».

La responsabilità dei genitori ricorre anche nell’ipotesi in cui un genitore non coabiti con il figlio se viene dimostrata la carenza di educazione; inoltre, nel caso in cui i genitori siano separati la responsabilità è di entrambi[1].

Riguardo agli insegnanti e ai dirigenti scolastici, ai sensi dell’art. 28 Cost. si legge testualmente che: «I funzionari ed i dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili ed amministrative, degli atti compiuti in violazioni di diritti. In tali casi la responsabilità si estende allo Stato ed agli altri enti pubblici». L’art. 2048, 2° comma c.c. prevede che: «I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza».

Nel caso in cui l’evento dannoso si verifichi in orario e luogo scolastico, si è in presenza di una responsabilità degli insegnanti e dei dirigenti scolastici per culpa in educando e per culpa in vigilando (essendo soggetti titolari del dovere di educare e controllare gli studenti) aggravata poiché la presunzione di colpa si può superare solo previa dimostrazione di aver vigilato bene o del caso fortuito.

Si precisa che per prevalente giurisprudenza della Cassazione al fine di superare la prevenzione, la scuola dovrebbe dimostrare di adottare “misure preventive” atte a impedire situazione antigiuridiche, non essendo sufficiente la sola dimostrazione di non essere stati in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva tutte le misure disciplinari od organizzative idonee ad evitare il sorgere di situazioni pericolose. Indispensabile l’adeguata vigilanza degli spazi che i ragazzi frequentano. Corretto seguire le prescrizioni in tema di contrasto al bullismo e cyberbullismo suggerite dalla legislazione corrente[2].

Ho chiesto a una ventina di studenti di seconda e terza media, dai dodici ai quattordici anni, cosa per loro è bullismo e cyberbullismo.

Queste sono alcune loro definizioni: «Prendere in giro i compagni deboli». «Per me il bullismo è offendere, picchiare persone che non si possono difendere». «Il bullismo è un modo per sembrare più grandi e più forti. È una forma che può far male a persone che sono chiusi in se stessi e si chiudono ancora di più». «È un aggettivo per definire il bullismo è autorità infantile».

É su quest’ultima definizione che intendo soffermarmi. Ovvero sull’espressione “autorità infantile”. Se pensiamo bene a cosa potrebbe aver inteso il ragazzo che ha utilizzato questi termini, ne desumiamo che il bullo è visto come un qualcuno che assume potere, che si sente superiore, che si attribuisce prerogative che non gli appartengono e non gli sono dovute.

Cosa è l’autorità. Secondo la lingua italiana è autorità: il potere determinante che la volontà di un soggetto esercita sulle altre persone.

Cosa significa “infantile”: che è proprio dell’infanzia, ovvero di chi ancora non ha sviluppato mentalità ed intelligenza rispetto all’età.

Quel ragazzo ha accostato due termini cosi distanti tra loro definendo in maniera a mio avviso esaustiva quello che è effettivamente il bullismo: il potere e la supremazia di un soggetto infantile nei confronti di un altro. Il ragazzo parla di “aggettivo”. Ora, volendo ragionare a larghe vedute il suo “infantile” è l’aggettivo che associa al bullo, che lui definisce “autorità”. Ma l’autorità il bullo come se l’è guadagnata?

L’autorità è l’investitura di poteri e funzioni voluta da altri, dal riconoscimento di altre persone ad un soggetto determinato per le proprie competenze, doti, impegno e valori.

Il bullo quell’autorità la pretende, la ottiene con l’intimidazione, con il raggiro, con la prepotenza. Ma è un’autorità infantile. Come tale soggetta all’inevitabile sviluppo dell’intelligenza, della capacità di comprensione, dell’attitudine a capire con spirito critico il valore delle proprie azioni e le conseguenze dei propri comportamenti. È un’autorità messa in discussione. Sempre. Un’autorità non esente da rimproveri e condanne. È un’autorità che se mal esercitata produce conseguenze gravissime.

Il bullo perderà quell’autorità nel momento in cui nessuno darà più valore alle sue azioni.

Nel momento in cui quell’autorità passerà nelle mani di tutti gli altri, che alzeranno la testa e faranno valere i loro diritti. Noi adulti dobbiamo recuperare quell’autorevolezza che è propria del ruolo di cui siamo investiti, ossia il ruolo di educatori, che è riconosciuta alle Istituzioni. Ed allora quell’autorità, che in questo caso non sarà “infantile”, sarà un giusto strumento tra le mani di chi può agire, di chi può fare e non deve restare lì a guardare, a rendersi complice di un atto di bullismo o cyberbullismo, che come si è visto non coinvolge solo i ragazzi, ma la società intera.

 

Sitografia

Virelli, Responsabilità civile per atti di cyberbullismo, in diritto.it , 31 maggio 2018, https://www.diritto.it/responsabilita-civile-atti-cyberbullismo

 


  1. Virelli, Responsabilità civile per atti di cyberbullismo, in diritto.it , 31 maggio 2018.

  2. Cfr. Virelli, 2018.

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