Proteggere i minori nel web

 In PrimoPiano, N. 1 - marzo 2019, Anno 10

Giovanni Falcone ha scritto, a proposito della mafia, che essa “ci rassomiglia”. Con ciò intendendo dire, come egli stesso spiegherà, che “Cosa Nostra non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano”, avendo trovato humus fertile nella nostra società e nei nostri ambienti.

Ebbene, credo che la stessa chiave interpretativa vada utilizzata per descrivere il quadro, allarmante per dire il meno, che emerge dalla lettura dei dati relativi alla diffusione della pornografia tra i minori, al cosiddetto cyberbullismo, e non solo.

I dati del MIUR relativi ai minori vittime delle condotte persecutorie, realizzate per il tramite del web, registrano, negli ultimi anni, un costante ed inesorabile aumento: si è passati dal 6% nel 2010 a più del 13% nel 2017 e l’andamento ascendente non accenna a diminuire. Pochi riflettono sul fatto, però, che questi numeri descrivono una realtà a due dimensioni, se non tridimensionale.

Accanto, infatti, alle vittime, occorre leggere quel dato siccome necessariamente riferito anche agli autori delle condotte persecutorie, che sono minori anch’essi. E la terza dimensione è rappresentata da coloro, sempre minorenni, che, pur non essendo gli ideatori e i materiali esecutori dell’azione, ad essa in qualche modo cooperano, consentendole di raggiungere l’effetto programmato, ovvero la diffusione sui social media. Si tratta di un’ampia platea, fatta del 19% dei ragazzi fra i 9 e i 17 anni, dei quali solo poco meno della metà risulta aver cercato di aiutare la vittima.

L’esperienza investigativa e giudiziaria mostra, poi, un’ulteriore, significativa, evoluzione (o, per meglio dire, involuzione).

Si parte, in genere, con condotte che hanno la finalità di dileggiare la vittima, fino ad arrivare, con il progredire dell’età, ad azioni dai connotati sempre più violenti, dove la causale legata al sesso assume rilievo spesso primario.

Diventa, perciò, fatalmente breve il passo verso il compimento di veri e propri reati a sfondo sessuale.

A tale ultimo riguardo, meritano di essere segnalati alcuni dati statistici relativi ai minori autori di tali crimini.

Va, in primo luogo, rilevato che, a differenza delle altre fattispecie criminose, per le quali i minori di nazionalità straniera concorrono per quasi la metà dei delitti (su un totale di 23.143 fatti delittuosi commessi da minorenni in carico agli Uffici del servizio sociale per i minorenni, per l’anno 2018, 10.808 risultano commessi da minori di nazionalità straniera; con punte particolarmente significative per i reati contro il patrimonio dove, su un totale di 10.372 delitti, ben 6.175 sono stati realizzati da mano non italiana), i reati a sfondo sessuale sono una prerogativa dei minori di nazionalità italiana, dal momento che solo nel 17% dei casi l’autore è uno straniero.

Ancor più significativa è il profilo del giovane criminale: nel 47% dei casi egli ha un’età compresa fra i 14 e 15 anni e nel 52% fra i 16 e 17 anni; il 64%, poi, ha concluso la scuola secondaria di primo grado ed il 17% quella secondaria di secondo grado.

Il nucleo familiare di provenienza non presenta svantaggi economici nel 56% dei casi, né si trova in situazioni di isolamento sociale, geografico o culturale per il 60%.

Una prima, amara, conclusione sembra, pertanto, evidente: si tratta di minori che non provengono da contesti socialmente degradati né risultano sforniti di adeguata scolarizzazione; sono, insomma, il prodotto delle nostre famiglie e delle nostre scuole.

Vi è, inoltre, un aspetto che spesso viene messo in risalto fra quelli che maggiormente spiegano la sottovalutazione degli effetti connessi alle condotte persecutorie o a sfondo sessuale commesse mediante il web, ed è quello relativo alla cosiddetta tecno mediazione. In altre parole, il fatto che per compiere la condotta basti l’uso di una tastiera e di uno schermo, anche di uno smartphone, il fatto cioè che non si ha dinanzi la vittima in carne ed ossa, tutto ciò si ritiene integri un contesto senza dubbio di maggiore facilitazione verso la commissione di queste azioni. A ciò si somma, per le condotte prevaricatorie a sfondo sessuale, l’estrema facilità di accesso ai siti pornografici, anche in giovanissima età.

Si tratta di un contesto tecnologico che spiega molto, ma non tutto.

Non riesce, in particolare, a spiegare la reiterazione delle condotte, l’indifferenza di molti minori dinanzi agli effetti talora devastanti delle azioni compiute, l’assenza di denunzie e la ritrosia collaborativa verso gli inquirenti nonché l’insensibilità degli autori per le sanzioni alle quali si espongono.

C’è evidentemente altro; che attinge il modo stesso di essere di molti minori.

C’è una condizione che accomuna in particolare i giovani (ma non solo) ed è stata espressa da taluno, in modo molto efficace, nel presentismo. Essi vivono racchiusi entro i confini angusti del presente dove conta non la memoria né la ragione ma solo la volontà: “se mi va, perché non posso farlo?” Tutto ciò che verrà, poiché non fa parte del presente, per definizione non esiste; come non esiste sul web, dove la dimensione virtuale fa vivere in un eterno presente, e dove l’assenza della corporeità non pone alcun limite ai desideri e, dunque, è il terreno ideale per il dispiegarsi di una volontà senza limiti.

E c’è poi una mentalità diffusa, radicata, ostentata, riassumibile in una domanda che non attende, a cui non interessa la risposta: “che male c’è?”

E se questa mentalità è allignata fra i giovani è perché, in fondo, è la nostra stessa mentalità, di noi genitori ed educatori (d’altronde, il profilo del minore delinquente sopra illustrato è prova di questo); di una società che ha preferito barattare la ricerca del vero e del giusto con la melassa buonista del politicamente corretto, che non appassiona nessuno, men che meno i giovani. Giovani che, invece, hanno bisogno di risposte forti, di motivazioni in grado di dare un senso pieno alla vita, che finiscono con il ricercare in questa dimensione virtuale vissuta in modo estremo. Per quale ragione, infatti, se non per la noia di una vita senza senso, molti giovani hanno deciso di affidarsi sul web a soggetti sconosciuti –i cosiddetti curatori– che li hanno guidati verso gesti che richiedevano sprezzo del pericolo, fino ad arrivare a pratiche autolesionistiche e dall’esito suicidiario (come, ad esempio, nel caso del cosiddetto blue whale)?

Vi sono fenomeni criminali che rappresentano lo specchio di un’epoca.

Come le organizzazioni criminali di stampo mafioso attecchiscono in quei territori ed in quelle comunità che presentano le condizioni più favorevoli per l’incistarsi della mentalità e della pratica mafiosa, così la diffusione della pedo-pornografia e, più in generale, delle condotte di prevaricazione e persecuzione per finalità di sfruttamento sessuale o, lato sensu, di affermazione egoistica sull’altro, a prescindere dall’età e dalle condizioni di quest’ultimo, sembra il frutto avvelenato, ma del tutto coerente, di una mentalità narcisistica oramai divenuta parossistica e inarrestabile.

A ciò non può non aggiungersi l’effetto di ulteriore disorientamento che discende da scelte del tutto contraddittorie delle pubbliche istituzioni.

Mi riferisco, in particolare, alla decisione, per un verso, condivisibile, di sottrarre i figli ai genitori mafiosi, perché ritenuti incapaci di trasmettere loro un’educazione sana, ed a quella, per altro verso, di legalizzare l’uso delle cosiddette droghe leggere. Se la prima decisione sembra ispirarsi all’esigenza, imprescindibile, di ribadire che i giovani hanno bisogno di una cornice di valori oggettivi, conformi a giustizia, entro i quali far scorrere la propria vita, l’altra, invece, non ha nulla di giusto ed è l’ennesimo frutto avvelenato di un relativismo aggressivo, disposto a chiudere gli occhi dinanzi agli effetti devastanti dell’uso della cannabis, pur di non abdicare all’idea di una libertà senza limiti.

Da pratico del diritto e soprattutto da strenuo difensore dei limiti della giurisdizione in quanto condizione per evitarne il suicidio, non ho suggerimenti da rivolgere al legislatore in tema di tutela dei minori dalle condotte prevaricatorie, soprattutto commesse tramite il web.

Le norme ci sono e gli inquirenti, soprattutto quelli della Polizia Postale e delle Comunicazioni sono davvero bravi. Anche la giurisprudenza, per vero, al riguardo è particolarmente rigorosa; e lo dico senza compiacimento ma quasi con amarezza, perché si cerca spesso di recuperare sul piano degli effetti quel rigore che spesso viene smarrito sul piano dei principi, laddove si aprono varchi immensi ad un soggettivismo assoluto attraverso il nuovo mito dell’autodeterminazione (se la nuova norma fondamentale è il diritto ad autodeterminarsi, che è la nuova porta verso la felicità, in base a quale superiore principio porre dei limiti?).

Al più, si potrebbe intervenire imponendo maggiori restrizioni ai providers ad ai gestori dei servizi telefonici e telematici, ad esempio ampliando il termine di conservazione dei dati, oppure sollecitando opportune intese con gli stati interessati dirette ad ottenere una maggiore e più sollecita collaborazione investigativa da parte dei titolari delle piattaforme digitali.

Si può ragionare sull’introduzione di un livello, sia pure grandemente attenuato, di responsabilità penale anche per gli infra-quattordicenni, se la sanzione può servire come un salutare richiamo a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni; la questione viene sovente sollevata con riferimento ai giovanissimi partecipi delle paranze camorriste, ma bisogna riconoscere che oramai già da qualche tempo il modo di atteggiarsi e di pensare di questi rampolli delle famiglie camorriste non è poi molto dissimile rispetto a quelli dei cyber bulli allevati nelle famiglie della cosiddetta società-bene.

Si può, ancora, riflettere su un aggravamento delle responsabilità di coloro che assistono a tali condotte e rimangono inerti, soprattutto se rivestono qualificate posizioni di garanzia, dai genitori agli educatori: ed in tal senso, purtroppo, anche l’esperienza giudiziaria più recente mi fa dire che in alcuni casi si sarebbe probabilmente evitato il peggio se vi fosse stata una sollecita iniziativa di docenti o compagni di classe delle vittime.

Ma non basta.

Quello che occorre è davvero un cambiamento di mentalità, o meglio, l’abbandono di una mentalità relativistica che ha fallito in tutto, contribuendo in modo determinante alla corruzione morale dei nostri giovani.

Si tratta di un’operazione che va fatta soprattutto fuori le aule parlamentari, certo.

Ma al legislatore spetta il compito –oggi come non mai- di fare argine al narcisismo dilagante.

Come?

Impedendo che ogni desiderio si trasformi fatalmente in diritto, ribadendo che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche moralmente lecito e quindi giuridicamente assentibile.

In conclusione, e cercando di dare una risposta alla domanda d’esordio: difendere i minori da chi?

Direi, soprattutto da sé stessi, oltre che dagli adulti.

Ma sarei un pessimo investigatore se mi fermassi all’esecutore materiale di un omicidio, senza interrogarmi –come ho cercato di fare– su chi ha armato la mano dell’assassino o su cosa lo ha psicologicamente determinato.

A maggior ragione se si tratta di istigazione al suicidio, che è senza dubbio il delitto perfetto di questa postmodernità.

Ed allora, direi che il principale nemico dal quale i giovani vanno protetti è proprio dalla delusione disperante della menzogna di una libertà che pretende di fare a meno di ogni limite.

Perché è proprio questa la peggiore pornografia del nostro tempo.

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