Vite Sospese

 In Editoriale, N. 4 - dicembre 2021, Anno 12

«C’è un tempo e un luogo perché qualsiasi cosa abbia principio e fine…»: così recita Miranda, una delle protagoniste della celebre pellicola di Peter Weir Picnic at Hanging Rock (1975), che narra l’inquietante vicenda della scomparsa di un gruppo di studentesse di un prestigioso collegio femminile, misteriosamente inghiottite dalla dimensione atemporale dischiusasi nella roccia di uno dei complessi geologici più affascinanti al mondo, il Monte Diogene, nello Stato australiano del Victoria centrale. Tra la realtà dell’imponente monolite e il mito aborigeno del Mondo Perduto – un’età antica, in cui uomini e Dei vivevano insieme – aleggiano le vite sospese delle giovani donne, svanite nel nulla e mai più ritrovate.

Partorita dalla fervida fantasia di Joan Lindsay, Autrice dell’omonimo romanzo (1967), forse ispirata dalle angoscianti leggende locali, la vicenda evoca il dramma dell’esistenza interrotta delle persone scomparse e dei loro familiari, di un tempo smarrito tra pessimo e speranza, di vite poste tra parentesi. Un’attesa dilatata, prolungata all’infinito, in una dimensione ipertrofica e mai passiva poiché densa di ricerche, spasmodiche, talvolta infruttuose, pur sempre alimentate dalla fiducia in un esito fausto, che interrompa quella sospensione e sciolga ansie, dubbi, timori.

«Sospensione» è la parola-chiave: dal latino suspensio – onis, derivato di suspensus (part. pass. di suspendĕre), la sua etimologia tradisce il riferimento a ciò che pende, ovvero che è sostenuto in alto e trattenuto dal cadere a terra ma anche, metaforicamente, a ciò che rende dubbioso e lascia nell’incertezza[1]. L’incertezza dell’attesa, foriera di ansia per l’umana riflessione, pregna com’è di rischi e pericoli: soggetta a fattori estranei al proprio controllo e su cui l’individuo non può influire, se non parzialmente e con risultati dall’esito incerto, essa rivendica la sua natura di variabile indipendente, al pari delle precipitazioni atmosferiche.

L’I Ching[2] – o Libro dei Mutamenti, antichissimo testo della cultura cinese, di Autore sconosciuto e datato intorno al X sec. A.C. – ha un esagramma specifico che indica l’Attesa: il quinto segno, SÜ. Il segno racconta il momento in cui si raccolgono le nuvole piene di pioggia, necessaria e desiderata, ma ancora non piove: bisogna attendere. Segno ricco di elementi positivi ma anche di rischi. Il simbolo è costituito dal creativo al di sotto, che rappresenta la forza, e dall’acqua al di sopra, simbolo del pericolo. Dinnanzi al pericolo, chi è forte non agisce impetuosamente ma sa aspettare, mentre chi è debole agisce in maniera irrazionale e precipitosa. Degna metafora dell’attività di ricerca di persone scomparse, orientata all’impiego razionale delle risorse umane e tecnologiche, (co)ordinate in un apposito piano di intervento, implicante l’individuazione di scenari ipotetici ma, contrariamente all’attesa, necessitante di azioni repentine e opportunamente pianificate.

Sospesa, innanzitutto, è la vita della persona scomparsa, a seguito della cessazione temporanea di una condizione dinamica per sua natura, l’esistenza umana, appunto. Sul piano etimologico, la parola «vita» evoca, infatti, la crescita, la volontà di presenza, la capacità di rendersi eterni nell’avvicendarsi delle generazioni: una forza che muta ma non cessa, destinata a non esaurirsi, se non mediante l’intervento della morte, suo letale ed incoercibile contrario. Energia vitale, il cui fluire è inarrestabile: una vita sospesa ha l’essenza dell’ossimoro, un’immagine antitetica, inaccettabile, innaturale. L’ingresso in un limbo vago, incerto, una «terra di mezzo», che ospita, al contempo, «chi svanisce nel nulla e chi resta ad aspettare»[3].

Sospeso è colui che si trova in uno stato di incertezza, di quell’ansiosa attesa finemente descritta dal Sommo Poeta «Io era tra color che son sospesi»[4], ossia nel Limbo, laddove le Anime vivono nel desiderio, che mai sarà esaudito, di vedere l’Onnipotente. Similmente sospesi sono i familiari degli scomparsi, in uno stato di costante apprensione, dove speranza e disperazione si rincorrono in un tempo vuoto, quello della mancanza, della solitudine, del dolore per una sorte avvolta in una notte senza fine, che soltanto l’alba di un ritrovamento in vita può schiarire.

«E mi inoltro sospeso, entro nell’ombra, dubito, mi smarrisco nei sentieri (…)»[5] di un paesaggio aspro e tetro, incessantemente corroso dal vento e attraversato da ombre fugaci, dove si consuma la ricerca assillante della connessione tra l’Essere e il Divenire, bramoso di lenire la penosa insensatezza del vivere. Sono versi struggenti quelli con cui Mario Luzi descrive le miserie della condizione umana nelle Primizie del deserto (1952) ma anche così sfacciatamente evocativi dell’inquietudine di chi si è smarrito e di coloro che ne sono alla ricerca.

Paradossalmente, nel fenomeno della scomparsa, l’assenza della persona cara impedisce l’elaborazione del lutto, che è simbolico, non reale, imbrigliato nelle more di un percorso esistenziale interrotto, impossibilitato, sospeso: perché se il lutto comporta la rinuncia all’oggetto amato, implicante un disinvestimento affettivo dalle rappresentazioni ad esso legate[6], ciò che rende impossibile quel processo fisiologico successivo alla perdita è proprio la mancanza dell’evento morte, irreversibile punto di arresto dal quale prendere le mosse per comprendere quella perdita ed accettarla. Laddove la vita rimane sospesa neppure la morte ha diritto di cittadinanza.

La perdita, per essere correttamente metabolizzata, deve essere percepita come irriducibile e definitiva, una sentenza senza appello: una sentenza di morte, appunto. La scomparsa non è nulla di tutto ciò: essa è transitoria e potenzialmente sanabile, è l’assenza nell’attesa di un ritorno, talvolta dilatata all’infinito. Inevitabile l’indagine delle cause, della dinamica, dei possibili sviluppi. Interrogativi che si agitano nella mente dei familiari, alimentandone, non di rado, sensi di colpa – gravosi fardelli che appesantiscono una quotidianità già vuota, opaca, priva di significato – legati al timore di una corresponsabilità nell’evento o di un’inefficienza nelle successive ricerche. Angoscia, smarrimento, vulnerabilità, un senso di impotenza che scarnifica progressivamente l’esistenza di coloro che vivono quell’attesa.

La condizione di afflizione, sebbene orientata verso un esito propizio, richiama alla mente la simbologia della tradizione tarologica, qui rappresentata dalla carta dell’Appeso[7] (la dodicesima degli Arcani Maggiori), la cui posizione – quella di un’antica forma di supplizio, consistente nella sospensione alla trave dalla caviglia, con la legatura dei polsi dietro alla schiena – trasmette l’idea del sacrificio, delle avversità da sopportare in vista di un obiettivo, la richiesta di rinunce e sforzi imponenti, il superamento di prove difficili con mestizia e rassegnazione. La figura reca in sé uno stato di apparente immobilità, giustificata, tuttavia, dalla consapevolezza della natura temporanea della condizione sfavorevole: l’Appeso, infatti, mostra un’espressione imperturbata, propria di colui che patisce impassibilmente il dolore, certo di una prossima risoluzione delle avversità. È, al contempo, l’Arcano della fede e della dedizione, del sacrificio altruistico, dell’analisi della situazione alla ricerca di nuove prospettive, lontane dalla rigidità degli schemi e delle convenzioni, delle potenzialità di riuscita nel proprio intento: non è, forse, ciò che si richiede ai familiari e a quanti sono impegnati nelle attività di ricerca di persone scomparse?

La carta dell’Appeso è, anche, l’immagine che chiude la storia dell’Orlando pazzo per amore, nell’opera di Italo Calvino Il Castello dei destini incrociati (1969)[8], in cui il paladino, impazzito e già rappresentato dall’Arcano Maggiore del Matto, viene legato a testa in giù e, recuperato il senno, afferma: «Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all’incontrario. Tutto è chiaro» …dall’inversione di prospettiva, dall’abbandono dei comuni schemi mentali può scaturire una differente interpretazione delle cose, in cui l’esperienza della solitudine e del dolore divengano presupposto per l’accettazione e la trasformazione della realtà circostante, nell’attesa, sempre viva, di quel ritorno…

 


  1. Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani (2012).

  2. Plilastre, P.L. (1999). I Ching. Il Libro dei Mutamenti della Dinastia Tsheou. Edizioni Mediterranee.

  3. Pozza Tasca, E. & Placidi, A. (2018), Scomparsi. Le vite sospese di svanisce nel nulla e di chi resta ad aspettare. Sperling & Kupfer.

  4. Alighieri, D. (1472). La Divina Commedia, Inferno, Canto II, v. 52.

  5. Luzi, M. (1952). Primizie del deserto, Invocazione, vv. 108-109. Schwarz.

  6. Freud, S. (1917). Lutto e Melanconia.

  7. L’Appeso nei Tarocchi. Significato e interpretazione, in https://www.templumdianae.com/l-appeso-tarocchi/

  8. Calvino, I. (2016). Il Castello dei destini incrociati. Mondadori.

 

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