Lo sfregio permanente del viso

 In Crimine&Società, N. 3 - settembre 2020, Anno 11

«Chi è risoluto a fare del male, trova sempre il pretesto»
Publilio Siro

 

La legge 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. Codice Rosso) – recante norme in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere – ha introdotto il reato di «Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso» che sanziona, con la reclusione da otto a quattordici anni, «chiunque cagiona ad alcuno lesione personale dalla quale derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso […]» (art. 583-quinquies c.p.), apportando significative modifiche rispetto alla disciplina vigente in materia di lesioni personali. Invero, nell’impianto codicistico originario, il legislatore penale, all’art. 582 c.p., punisce «la lesione personale dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente» specificando, tra le figure biologiche che rendono gravissima la fattispecie semplice, quella della «deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso» (art. 583, co. 2, n. 4 c.p.). In merito al quadro lesivo conseguente, occorre distinguere tra i due eventi: mentre la deformazione comporta un’alterazione della regolarità originaria delle linee del viso capace di produrre sovvertimento estetico-fisiognomico – potendo essere cagionata da mutilazioni o perdite di sostanza; cicatrici vaste, pigmentate e retraenti; esiti di frattura o paralisi dei muscoli facciali (Baima Bollone, 2003) – lo sfregio si traduce in un’alterazione permanente dell’euritmia dei lineamenti facciali; una menomazione dell’estetica di minore severità rispetto alla deformazione del volto, sebbene il giudizio sul carattere sfregiante di una deturpazione non sia sempre così pacifico, spesso incorrendo in una pletora di pareri contrastanti (Macchiarelli & Feola, 1995). Ciononostante, l’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte sul punto appare, da tempo, consolidato: «lo sfregio permanente è un qualsiasi nocumento che non venga a determinare la più grave conseguenza della deformazione, ma importi un turbamento irreversibile dell’armonia, dell’euritmia delle linee del viso» (Cass. Pen., Sez. I, sent. 10 giugno 1978), rimettendo l’apprezzamento della lesione alla sensibilità estetica dell’osservatore. È, difatti, il giudice di legittimità a precisare, testualmente: «integra lo sfregio permanente qualsiasi nocumento che, senza determinare la più grave conseguenza della deformazione, importi un turbamento irreversibile dell’armonia e dell’euritmia delle linee del viso, con effetto sgradevole o d’ilarità, anche se non di ripugnanza, secondo un osservatore comune, di gusto normale e di media sensibilità» (Cass. Pen., Sez. V, sent. 16 giugno 2014, n. 32984). Vero è che «l’equiparazione operata dalla norma tra due forme di danno di grado così diverso risponde all’esigenza di scoraggiare l’uso criminale di marchiare indelebilmente il volto delle vittime con cicatrici dotate di particolare significato in ragione delle loro caratteristiche» (Baima Bollone, 2003, 160), palese il richiamo alla pratica violenta delle lesioni deformanti o sfregianti, diffusa nelle Regioni dell’Italia meridionale a partire dal periodo tardo ottocentesco e sopravvissuta, con modalità pressoché immutate, fino alla metà del secolo scorso.

Entrando nel merito delle aggravanti biologiche, si definisce lesione deformante quella che priva della forma, ossia sfigura e deturpa, ingenerando ripugnanza nell’osservatore: tali sono le cicatrici retratte, cheloidee ed estese dovute ad ustioni, causticazioni o radiazioni; i gravi avvallamenti dell’osso frontale; lo schiacciamento massivo della piramide nasale; l’enucleazione del bulbo oculare; l’asportazione del cuoio capelluto o dell’intero padiglione auricolare; le gravi asimmetrie di un’emifaccia derivanti da esiti di fratture con schiacciamento zigomatico e mandibolare. La lesione sfregiante, per contro, comporta una menomazione dell’estetica del viso di minore gravità rispetto alla deformazione, privandolo del fregio o dell’ornamento e provocando effetto sgradevole nell’osservatore: cicatrici indelebili da ferite da taglio (es. da rasoio); cicatrici colorate di ferite inquinate da corpi estranei ritenuti nel tessuto cicatriziale (es. nerofumo, frammenti di asfalto, vernice di auto); lesioni oculari (ptosi palpebrale, esoftalmo, strabismo, leucoma corneale, ecc.); deviazioni e/o avvallamenti del naso da fratture delle ossa nasali; asimmetrie della rima buccale; asportazione di lobo o di altra parte di padiglione auricolare; perdita degli incisivi, ecc., a mero titolo esemplificativo (Vaglio & Cirfera, 2008). In ogni caso, è pacifico che la lesione sfregiante debba concernere i lineamenti del viso, essendo preclusa qualsiasi interpretazione analogica[1], giusto l’orientamento consolidato della giurisprudenza di merito, la quale ha provveduto a definire i limiti anatomici del viso come segue: la parte anteriore del segmento cefalico delimitata in alto dalla linea d’impianto dei capelli, ai lati dai padiglioni auricolari compresi, in basso dal margine inferiore della mandibola. Altrimenti detto, la parte dell’ovoide facciale che si scorge osservando la persona di fronte (Cass. Pen., Sez. I, sent. 10 maggio 1973, n. 3745). A tal proposito e per dottrina consolidata, la calvizie, comportando arretramento del margine superiore del viso, consente di attribuire rilievo anche alle lesioni localizzate al di sopra dell’impianto frontale originario dei capelli (Vaglio & Cirfera, 2008). Secondo l’orientamento dominante, inoltre, la lesione sussiste anche qualora l’estetica del viso risulti compromessa dall’alterazione delle immediate zone c.d. di contorno, che contribuiscono al completamento dell’immagine facciale, ossia la regione sottomandibolare e quella latero-superiore del collo (Cass. Pen., Sez. I, sent. 8 luglio 1971, n. 0138), come accade nel caso di cicatrice da ustione o da causticazione in regione sottomentoniera, cagionante evidente retrazione dei tessuti molli della cute del volto. Merita precisare come, sul piano della valutazione medico-legale, occorra distinguere tra le due entità dello sfregio permanente – cagione di danno estetico sensibile ed apprezzabile – e del segno permanente, poco visibile e non recante effettivo pregiudizio all’armonia del viso, quale una cicatrice breve, sottile e nascosta, parzialmente o totalmente, da una ruga, visibile solo dopo attenta e ravvicinata osservazione (Canuto & Tovo, 1996). A tal proposito, la letteratura specialistica concorda sulla necessità di porre attenzione agli elementi dell’osservazione morfologica della lesione e del contesto estetico in cui è collocata (i.e. sede, forma, dimensioni, natura, colore, direzione, stato anteriore del viso, presenza di rughe, pigmentazione cutanea, ecc.), tanto che non tutte le alterazioni indelebili dei lineamenti facciali hanno carattere sfregiante, assumendo rilievo, ai fini valutativi, l’età, il sesso e lo stato precedente del soggetto (Vaglio & Cirfera, 2008). In ogni caso, comuni alle alterazioni deformanti e sfregianti appaiono l’elemento fisionomico, che si manifesta nel grave sfiguramento o sensibile danno estetico della vittima; l’elemento topografico, con ciò intendendosi la localizzazione circoscritta al viso; l’elemento cronologico, ossia il carattere di permanenza delle alterazioni mentre, sul piano dell’autore di reato e limitatamente allo sfregio propriamente detto, l’elemento psicologico del dolo specifico, consistente nella coscienza e volontà di ledere la vittima con l’intento di arrecarle un gravissimo danno psicofisico, dati la sede anatomica attinta e i connotati morfologici della lesione medesima.

Il reato di fregio

Sebbene l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale prevalente riconosca alle circostanze aggravanti ex art. 583 c.p. carattere di autonome figure di reato – e non già semplici specificazioni della fattispecie generale della lesione personale contemplata dall’art. 582 c.p. (Baima Bollone, 2003) – a dispetto dell’esplicita enunciazione della rubrica dell’articolo, le recenti vicende relative alla pratica criminosa del c.d. vitriolage hanno indotto il legislatore penale ad una revisione della normativa originaria relativamente alla lesione sfregiante o deformante, tradottasi nell’introduzione di una nuova fattispecie delittuosa – il c.d. reato di sfregio, appunto – con conseguente inasprimento del trattamento sanzionatorio. Meglio noto come acid attack (o acid throwing), il vitriolage costituisce una modalità criminosa altamente lesiva dell’integrità psicofisica della persona, consistente nell’aggressione mediante getto di esogeni caustici (es. acido solforico, nitrico o cloridrico) localizzata principalmente al volto, con intento di sfigurare o mutilare permanentemente la vittima: gli imponenti danni anatomico-funzionali arrecati dal perpetrarsi di tale pratica sono dettagliatamente riportati dalla letteratura medica in materia. Kaur & Kumar (2020) tratteggiano come segue il quadro lesivo riconducibile al vitriolage: «Sulfuric acid is a strong acid/corrosive […] capable of causing bodily injuries leading to damage to mucous membranes, tissues and skin with blindness, burning, and scars often leading to significant disfigurement with temporary or permanent disability». Ciò posto, l’impatto psichico conseguente al danneggiamento anatomico e funzionale dei distretti corporei attinti è incontestabile, tanto da configurare un vero e proprio danno esistenziale a carico della vittima.

L’Associazione inglese Acia Survivors Trust International stima le vittime di causticazione a livello mondiale in oltre 500 mila all’anno, di cui l’80% di sesso femminile, mentre le aree geografiche maggiormente colpite sarebbero i Paesi dell’Asia Meridionale (India, Pakistan, Afghanistan), del Sud-Est Asiatico (Cambogia, Vietnam, Laos, Bangladesh), dell’Asia Orientale (Hong Kong e Repubblica Popolare Cinese), del Corno d’Africa (Etiopia, in particolare), dell’Africa Orientale (Uganda e Kenya), del Sudafrica e dell’America Latina (Colombia, in modo specifico). Recenti episodi di vitriolage registratisi anche in Italia hanno evidenziato l’inadeguatezza della fattispecie di lesione personale gravissima a sanzionare una siffatta condotta delittuosa – tenuto conto dell’impatto psichico dell’alterazione sfregiante sulla vittima – auspicando l’introduzione di una fattispecie di reato autonoma che, nell’ambito dei lavori preparatori del DDL n. 2757/2017, era stata rubricata come «omicidio di identità». In particolare, si era posto l’accento sulla necessità di un corretto inquadramento dell’intento dell’aggressore, finalizzato a cagionare non la morte fisica bensì la c.d. morte civile della vittima: in sostanza, una condotta in cui sarebbe stato ravvisabile un quid pluris rispetto alla fattispecie delle lesioni personali e un quid minus rispetto alla fattispecie omicidiaria propriamente detta. Il Disegno di Legge che ne era scaturito non si presentava, tuttavia, scevro da criticità, a partire da un profilo di incostituzionalità derivante da un palese contrasto con l’art. 3 della Carta Costituzionale, che vieta implicitamente di legiferare a favore o contro categorie soggettive identificate per genere, religione, ceto o altri caratteri individuali: un’impostazione gender oriented che, collidendo con il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione, avrebbe operato una sorta di «discriminazione alla rovescia». Inoltre, la sanzione penale circoscritta a particolari modalità esecutive del fatto-reato – nel caso di specie, la sola lesione prodotta mediante ustione o causticazione – avrebbe escluso dal novero delle azioni penalmente rilevanti tutte le altre condotte potenzialmente capaci di cagionare il medesimo danno anatomico-funzionale ma non riconducibili a quelle tassativamente previste dalla norma. Infine, la frequenza statistica delle condotte sfregianti – per quanto gravissime ed intollerabili nella loro singolarità, giova sottolinearlo con forza – non sarebbe stata tale da giustificare un autentico allarme sociale: il DDL in questione, si è detto, avrebbe tradito una spiccata «impronta emotiva», empaticamente condivisibile ma insufficiente alla configurazione di una tutela penale ad hoc nella forma del c.d. omicidio d’identità. L’introduzione del reato di «Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesione permanente al viso» rappresenterebbe, pertanto, un’equa soluzione di compromesso tra le istanze di tutela delle vittime di condotte criminose abiette e ripugnanti e, un corretto inquadramento criminologico (prima ancora che giuridico) del fenomeno. Le due fattispecie di reato delle «Lesioni personali gravissime» (art. 583, co. 2, n. 4 c.p.) e della «Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso» (art. 583-quinquies c.p.), così come configurate nella legislazione penale vigente, presentano, sul versante medico-legale, identità dell’elemento naturalistico del quadro lesivo mentre, sul versante criminologico, difformità in ragione della specificità dell’intento lesivo dell’autore di reato della novella del 2019, palesemente riconducibile alle dinamiche patognomoniche della violenza di genere.

Excursus storico

Un excursus storico della tematica consente di individuare radici socio-culturali profonde nella pratica delle lesioni deformanti o sfregianti: ignorata dal Codice Napoleonico (1809) e dal Codice del Regno d’Italia (1810), la medesima è, invece, punita dal Codice Austriaco del 1811, il quale prevede che «se la persona ferita è stata sfigurata, le si deve anche un indennizzo, soprattutto allorché è una donna» (Antoniotti & De Petra, 1971), sorprendente riconoscimento del danno estetico ante litteram. In Italia, sarà nel Regno delle Due Sicilie che il delitto di sfregio si configurerà per la prima volta, in ragione delle peculiarità di un contesto storico e sociale in cui la lesione dell’efficienza estetica è concepita come elemento punitivo di stampo criminale o per violazione dell’onore (Vaglio & Cirfera, 2008). Nelle Regioni dell’Italia meridionale, invero, lo sfregio identifica una tipica pratica violenta della Camorra tardo ottocentesca, un gesto rituale ad alta densità simbolica, di cui De Blasio (1897) descrive due differenti tipologie: «‘O sfregio, o tagliata ‘e faccia, o ‘ntacca ‘e ‘mpigna, si divide in due categorie: d’ammore e di cumanno, per modo come viene eseguito dicesi a scippo o a sbalzo». Le modalità esecutive variano in ragione della morfologia della lesione che si intende cagionare alla vittima e, prima ancora, delle motivazioni sottese all’agito criminoso: «lo sfregio d’ammore si mette in pratica con pezzi di vetro o con rasoi affilati, quello di cumanno con rasoi seghettati (sgranati)». Il rituale del primo tipo, ossia «lo sfregio a scippo, che è quasi sempre lieve, si effettua dal camorrista non appena questi si accorge che la ragazza che forma il suo ideale non vuol corrispondere al suo amore. In questo caso la ‘ntaccata ‘e ‘mpigna può considerarsi come l’anello matrimoniale poiché, non appena la fanciulla viene deturpata la famiglia dello sfregiatore e quella della sfregiata si agghiusta ‘o interesse e se combina ‘o matrimonio». Lo sfregio si agisce «anche contro le donne infedeli o semplicemente sospettate tali. Talvolta non ha altro scopo che quello di contrassegnare la donna del proprio cuore, perché qualche don Giovanni di piazza, riconoscendola per la bella del camorrista, smetta qualsiasi velleità di corteggiarla» (De Blasio, 1897). Diversamente, lo sfregio c.d. di cumanno viene riservato a coloro i quali hanno tradito la fiducia del camorrista: più cruento e profondo del precedente, viene compiuto con il rasoio sgranato (a denti), con conseguenze deturpanti di intensità crescente. Comminato a titolo punitivo dai vertici dell’organizzazione criminale, rientra nel novero delle pene previste dal Tribunale supremo della Camorra, tra le quali figurano, appunto, quella di subire una deturpazione al volto con il rasoio sgranato; affilato o sporco di feci (Di Fiore, 2016).

Quella dello sfregio d’amore è considerata una pratica ampiamente socializzata – ossia acquisita per abitudine, secondo il costrutto di Arno Bamme, che vede la persona condizionata nel suo agire dalle variabili di contesto spazio-temporali – tanto che la vittima la ostenta con fierezza: «E, strano pervertimento morale, le donne subiscono lo sfregio con orgoglio, come una prova sicura del forte amore di cui sono l’oggetto, mostrandosi (fenomeno unico in donne volgari) più curanti dell’onore di appartenere ad un camorrista che della propria bellezza» (De Blasio, 1897). Riferita dallo stesso Verga nella sua raccolta di Novelle del 1887[2], sopravvive ancora intorno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso: «Più spesso l’amore, a Napoli, è tacito e fulmineo come uno scatto di coltello […] (Si vedeva) quella sottile riga di sangue sulla bianca guancia, lei che diceva “Non so chi è stato”, e mentalmente baciava la mano sacrilega: anche lo sfregio ci può apparire una cara pazzia, quasi una rossa firma ad una lettera d’amore» (Marotta, 1947). È ancora Verga, da acuto osservatore della realtà, a fornire una doppia interpretazione dello sfregio in chiave criminologica: come epifenomeno della dissezione e del viraggio dell’aggressività[3] e, al contempo, come «puntello» dell’Ego fragile dell’aggressore: «Quando mi vedeva insieme al doganiere del molo, che era un bell’uomo, mi diceva: “Vedi questo temperino arrotato, che io tengo in tasca apposta? Con questo ti taglierò la faccia, e dopo m’ammazzo io.” E mi tagliò davvero. Io gli dissi: “A che serve? Ora che m’avete sfregiata nessuno mi vorrà, e non sarete più geloso”» (Verga, 1887). Pratica, peraltro, piuttosto diffusa all’epoca se i Codici di Parma, Piacenza e Guastalla (1820) contemplano il danno estetico, lo stesso che il Codice Penale Toscano circoscrive alle sole lesioni del volto, anticipando di un secolo e mezzo l’evoluzione giurisprudenziale in materia. Di tenore simile le disposizioni del Codice Penale Piemontese (1859) e di San Marino mentre il Codice Zanardelli (1899) pone la distinzione tra lesione grave (sfregio) e quella gravissima (deformazione); distinzione, quest’ultima, successivamente abolita dal Codice Rocco del 1931, che equipara le due figure biologiche per motivi di politica criminale, con l’intento, cioè, di sanzionare rigorosamente condotte espressive di ambienti malavitosi e comportanti grave danno morale per la vittima, in tal modo esposta al pubblico disprezzo, il c.d. marchio d’infamia (Baima Bollone, 2003).

L’interpretazione criminologia

Da azione simbolica e rituale, caratteristica di particolari sottoculture criminali, a indicatore comportamentale correlabile a specifici tratti caratteriali dell’autore di reato (Picozzi & Zappalà, 2002; Strano, 2003), la localizzazione delle lesioni al volto della vittima può assumere differenti significati sul versante criminologico. A partire dalla classificazione delle tipologie di aggressione proposta da Fesbach (1964) e Toch (1969), in seguito ripresa da Cornell et al. (1996), che differenziano l’agito aggressivo in base alla motivazione, ossia agli scopi e/o ai guadagni dell’offender, è possibile distinguere tra le due categorie Expressiveness e Instrumentality: la prima, detta anche aggressione ostile, come risposta a situazioni di rabbia o rivendicazione indotte (insulti, aggressioni fisiche, fallimenti personali, ecc.), tesa ad arrecare sofferenza alla vittima; la seconda, conseguente ad un sentimento di invidia per lo status della vittima e finalizzata all’impossessamento dei suoi beni materiali (principalmente oggetti e denaro). La ricerca criminologica, sviluppatasi sull’onda lunga della suddetta classificazione, si è concretizzata nella stesura del noto contributo di Salfati & Rathbone (1999) «the nature of Expressiveness and Instrumentality in homicide and its implications for Offender Profiling», riconducibile al costrutto teorico anglosassone della Psicologia Investigativa (IP), i cui esponenti di spicco (Canter e coll., 2000; 1999), muovendo da casistiche internazionali e analisi approfondite delle modalità di interazione tra vittima e aggressore, hanno elaborato un modello centrato su cinque items fondamentali (Five-factors model): Interpersonal Coherence; The Significance of Time and Place; Criminal Characteristics; Criminal Career; Forensic Awarness. Ebbene, sottoponendo a verifica empirica l’ipotesi che, in caso di omicidio, le Crime-Scene Actions possano differenziarsi in ragione delle due diverse tipologie di aggressione a danno della vittima (dicotomia espressivo vs. strumentale), gli Autori hanno esaminato un campione di 247 omicidi risolti e passati in giudicato, nel ventennio 1970/1990, nel Regno Unito, coinvolgenti una singola vittima e un singolo offender, alla ricerca di una possibile correlazione tra il tema dominante nel caso specifico e determinate caratteristiche personologiche e comportamentali dell’aggressore.

Ai fini della presente trattazione, ossia relativamente alle lesioni facciali di natura dolosa, il risultato dello studio in esame è, indubitabilmente, degno di nota: nei c.d. Expressive Acts, difatti, «the victim sustained injuries (stabbing and gunshot wounds) to the torso, head, and/or limbs – very often to a combination of these body parts – suggesting an extreme physical attack» (Salfati & Rathbone, 1999, 100). Nel caso di specie, il quadro lesivo localizzato al volto, riconducibile all’uso di armi da fuoco e strumenti da punta e taglio, si riscontra in una percentuale oscillante tra il 30 e il 50% delle vittime di scene del crimine inquadrabili nel tema c.d. espressivo (Expressive Crime-Scene Action). Inoltre, la costanza di item della Forensic Awareness – con ciò intendendosi qualsiasi elemento suggestivo della competenza dell’offender in merito alle tecniche investigative e alla raccolta delle prove, come l’impiego di guanti o la rimozione di indumenti della vittima per impedire la rilevazione di tracce biologiche che potrebbero facilitarne l’identificazione (Picozzi & Zappalà, 2002) – milita a favore di una conoscenza pregressa tra vittima e aggressore. Testualmente: «each of these behaviors suggests a prior relationship between the two parties, or at least that the offender knew the victim to some extent. The lack of forensic evidence at the scene further points to offenders who need to remove evidence that can link them to the victim, which in turn may indicate that they may not have been strangers» (Salfati & Rathbone, 1999, 100). I risultati dello studio testé citato, evidenziano una frequenza statistica significativa di lesioni facciali sulle vittime di scenari criminosi «espressivi», non ricorrenti nel tema c.d. strumentale che, al contrario, riconosce la prevalenza di lesioni a carico di sedi anatomiche adiacenti e con modalità tipicamente asfittiche, ossia mediante occlusione meccanica esterna delle vie respiratorie (i.e. strangolamento e strozzamento), peraltro, in una percentuale perfettamente sovrapponibile nelle due tematiche [30-50% «Neck Wounds/Manual Wounding» (Salfati & Rathbone, 1999, 103)]. La natura impersonale dell’aggressione, ossia non finalizzata a colpire la vittima in ragione di specifici legami con l’offender, è riferita dagli Autori, secondo i quali, negli Instrumental Acts, «Actions […] suggested that behaviors at the crime scene were not singularly directed at the victim as a person. Rather, the actions were part of a larger theme wherein the offender used the victim to further attain an ulterior aim such as sex or money. The offender in many cases did not come prepared for a personal confrontation, so the victim was attacked manually (strangling, hitting, and kicking) and/or the weapon used was taken from the scene» (Salfati & Rathbone, 1999, 102).

Per contro, nello scenario c.d. espressivo, i reperti oggettivi fanno propendere per un’azione centrata sulla vittima intesa come persona specifica, non casuale: «behaviors in the Expressive theme comprised of behaviors centered on the victim as a specific person» (Salfati & Rathbone, 1999, 100). Trattasi di una vittima infungibile – ossia colei che diviene tale in ragione di una precisa relazione intersoggettiva con l’agente o, in ogni caso, per il determinante influsso che le sue qualità o la sua condotta esercitano sul criminale, secondo gli assiomi della vittimologia (Mantovani, 1984) – se lo studio citato consente di ravvisare, tra le caratteristiche del background dell’offender c.d. espressivo, l’esistenza di una relazione intima, attuale o pregressa, con la vittima medesima [«Percentage Range in Expressive Offender Characteristics: 30/50% Previous Current/Intimate Relationship with Victim» (Salfati & Rathbone, 1999, 105)]. Significativa, inoltre, l’osservazione secondo cui dette caratteristiche assumerebbero una rilevanza pregnante nella struttura del tema Expressive: «characteristics which co-occured in these theme related thematically to personal relationships and emotional issues. The relationship the offender had with the victim is paramount to the structure of this theme» (Salfati & Rathbone, 1999, 105). Rilievi, per giunta, del tutto coerenti con uno degli assunti fondamentali in tema di vittimabilità, secondo il quale la possibilità di vittimazione risulta direttamente proporzionale alla infungibilità della vittima, nel senso di un progressivo aumento del rischio in ragione dell’incremento del ruolo del soggetto passivo nella genesi dell’evento delittuoso (Mantovani, 1984). La circostanza della specificità della vittima in termini relazionali – «in this theme, it is important to offenders that the victim is a particular person[4], not just a body or a representative of a person» (Salfati & Rathbone, 1999, 106) – consente di acclarare l’esistenza di talune analogie con il fenomeno della lesività facciale riscontrabile nella violenza di genere, riconducibili al concetto di aggressione espressiva di Fesbach (1964), principalmente perciò che concerne la relazione pregressa tra soggetto attivo e passivo del reato (intimate relationship), l’ostilità manifesta nei confronti della vittima e il desiderio di arrecarle sofferenza. In entrambi gli scenari, è possibile ravvisare un attacco all’identità della vittima che, nel caso specifico dello sfregio, assume le caratteristiche della lesione dell’efficienza estetica (e, non di rado, funzionale) del viso, cagione di sofferenza psicofisica, posto il gravissimo turbamento emotivo conseguente all’agito criminoso, oltre al danneggiamento permanente delle sedi anatomiche attinte.

Ulteriore elemento comune alle due condotte, quella sfregiante e quella omicidiaria, appare la componente, per così dire, «dimostrativa» insita nell’atto lesivo: i requisiti della regione anatomica danneggiata e della permanenza della lesione, nell’ipotesi dello sfregio; l’assenza di undoing, nell’ipotesi omicidiaria – ossia di deliberata alterazione della scena del crimine, manifestazione di sentimenti di rimorso da parte dell’autore, mediante tentativi simbolici di porre rimedio alle conseguenze del proprio agito (ad es. spostamento del cadavere, ripulitura, disposizione in una posizione meno degradante, mascheramento del viso) (Picozzi & Zappalà, 2002) – riscontrabile, al contrario, nelle Instrumental Crime-Scene Action. L’assenza di resipiscenza dell’offender è ampiamente testimoniata dai reperti di sopralluogo riportati nello studio testé esaminato, secondo cui la quasi totalità delle vittime era stata rinvenuta a volto scoperto, a dispetto della severità delle lesioni inferte dall’aggressore: «these behaviors included the victim’s face not having been hidden at the crime scene (88%)» (Salfati & Rathbone, 1999,100).

In definitiva, l’analisi comparata di due fattispecie criminose differenti sul piano giuridico e criminologico, ma accomunate dall’elemento naturalistico della lesione facciale (su vivente in un caso, su cadavere nell’altro) consente di desumere l’esistenza di tratti sovrapponibili, soprattutto in termini di riconducibilità di entrambe le tipologie delittuose alla medesima matrice della c.d. aggressione ostile teorizzata da Fesbach (1964). L’espressività dell’aggressione postula l’esistenza di una relazione pregressa tra offender e vittima e si palesa nel desiderio di arrecare sofferenza a quest’ultima, unitamente alla componente «dimostrativa» dell’agito violento, accompagnata dall’assenza di resipiscenza da parte dell’autore di reato. In entrambi gli scenari domina la natura infungibile della vittima, colpita nella sua identità e intenzionalmente danneggiata, in vita principalmente, dalla permanenza del carattere sfregiante, la cui eventuale emendabilità chirurgica, con conseguente modificabilità in melius degli esiti cicatriziali (Vaglio & Cirfera, 2008), non appare, tuttavia, sufficiente alla riparazione del danno arrecato da menomazione dell’esistenza (Neri, Bonifacio et al., 1988).

Sposando la tesi di Canter, che individua nell’agito criminoso una transazione relazionale epifenomenica dello «stile abituale e caratteristico di rapporto del reo con il mondo che lo circonda» (Picozzi & Zappalà, 2002, 133), la tipologia di reato, la condotta posta in essere durante l’aggressione e, ancor prima, le modalità selettive della vittima, concorrono a configurare il concetto di interpersonal narratives, con ciò intendendo la storia (inter)personale dell’autore di reato. In senso più ampio, ogni persona (e non soltanto il reo) nella sua evoluzione, nel suo continuo e incessante divenire, costruisce, interpreta e racconta una storia: in sintesi, ogni persona è la sua storia (Veglia, 1999). Da ciò, coerentemente con l’impostazione metodologica della Psicologia Investigativa (IP), scaturisce la necessità di indagare il ruolo che la vittima interpreta nella vita dell’offender – lungi da intenti colpevolizzanti nei confronti della predetta, giova precisarlo – posto che le modalità di interazione tra soggetto attivo e passivo assumono una veste determinante per la comprensione della dinamica autore/vittima, in una dimensione dell’evento delittuoso capace di esaltare entrambi gli attori del «dramma criminale» (Mantovani, 1984, 374). Tanto premesso, nel ventaglio dei potenziali ruoli che la vittima può assumere in siffatti scenari criminosi – i.e. vittima oggetto/veicolo/persona, compatibilmente con il noto costrutto di Canter – il più plausibile appare quello della vittima c.d. persona, nel cui ambito l’offender ritiene, in maniera del tutto arbitraria e distorta, di vantare nei suoi confronti un legame privilegiato: in maniera del tutto analoga, si pensi alla logica possessiva, sottesa alla condotta sfregiante dell’acid attack, «o mia/mio o di nessun altro/altra», che arma la mano dell’aggressore nelle ipotesi riconducibili alla Gestalt criminosa della violenza di genere. In simili contesti di violenza manifesta, preceduta da un’interazione personale con la vittima, è piuttosto frequente l’individuazione di offender mossi dalla rabbia, dal desiderio di vendetta nei confronti della componente femminile, nella convinzione che l’agito violento assicuri loro la sudditanza del soggetto passivo (Picozzi & Zappalà, 2002): dinamiche di dominio e di controllo di consueto riscontro, altresì, negli scenari di violenza domestica e di genere, nei quali il rifiuto di proseguire la relazione o di assecondare la volontà del partner abusante/maltrattante sono idonei a scatenare l’aggressione nei confronti della vittima, con modalità tali da deturparne permanentemente il viso e, simbolicamente, colpirne l’identità.

Il volto, dunque, in ragione del carattere espressivo della persona nella sua totalità, manifesta un elevato coefficiente di vulnerabilità rispetto a specifiche condotte criminose finalizzate alla distruzione dell’individuo, nella sua duplice dimensione, reale e simbolica: epifenomeno di quella pulsione di morte (thanatos), ipotizzata dalla psicoanalisi tra i meccanismi psichici inconsci quale processo costante della natura, tesa a ristabilire lo stato primitivo delle cose (Mantovani, 1984).

 

Bibliografia

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  1. «Fra le previsioni delle aggravanti di cui all’art. 583 c.p. è compreso lo sfregio. Non è consentita una interpretazione analogica per danni estetici diversi dallo sfregio […] per cui una cicatrice alla lesione deltoidea (braccio) anche se vasta, ipertrofica e vistosa non rientra fra le aggravanti» [Pret. Padova, 11 ottobre 1994, cit. da Baima Bollone (2003, 161)].

  2. «“Conoscete da molto tempo l’imputato?” (chiese il giudice alla testimone, una prostituta soprannominata Malerba) “Sissignore. Questo me l’ha fatto lui, tre anni sono.” E indicò fieramente uno sfregio che le segnava la guancia, dall’orecchio sinistro al labbro superiore. “E non ve ne querelaste?” “No. Era segno che mi voleva bene”» (Verga, 1887).

  3. Nel costrutto teorico del comportamento violento sulla persona (CVP) elaborato da Nivoli e coll. (2019), la dissezione, che postula l’aggressività come entità complessa scorporabile in due componenti, ossia autodiretta (es. comportamenti autolesivi, suicidio) ed eterodiretta (es. lesioni personali, omicidio), è prodromica rispetto al viraggio, inteso come lo spostamento dell’oggetto dell’aggressività (da sé ad altri e/o viceversa), configurando la c.d. triade omo-suicidaria (desiderio di uccidere, di essere ucciso e di uccidersi).

  4. Da notare l’etimologia del vocabolo «persona», che è dal lat. persōna, derivante dall’etrusco phersu, indicante la maschera dell’attore teatrale, ossia il volto.

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