Stress e mobbing

 In Psico&Patologie, N. 1 - marzo 2010, Anno 1

Tratto da L’arte della guerra del cinese Sun Tzu, opera che risale a circa 1500 anni fa, questa breve citazione ci immerge in quelle sottilissime dinamiche del fenomeno mobbing: «Senza dare battaglia, cercate di essere vincitori. Prima ancora di combattere, indebolite la fiducia del nemico: umiliandolo, mortificandolo, mettendo le sue forze a dura prova. Corrompete tutto ciò che è di buono con offerte, promesse, vantaggi da precludere in futuro, alterate la sua fiducia spingendo i suoi migliori luogotenenti ad azioni vergognose e vili e non mancate di divulgarle con cura». Pur essendo emerso negli ultimi decenni, come fenomeno e modalità di relazione il mobbing è molto antico perché ha a che fare con i rapporti umani in situazioni di conflitto e tensione. Heinz Leymann ci dice che il mobbing è un’azione comunicativa ostile, diretta in maniera sistematica da uno o più individui principalmente verso un altro che, sottoposto a mobbing, è spinto in una situazione di “mancata difesa”.

La posizione di “mancata difesa” è ciò che caratterizza principalmente la situazione di mobbing, più ancora delle azioni di disturbo e di vessazione, le quali possono essere le più disparate e dipendono dal contesto nel quale il fenomeno si manifesta. La posizione di mancata difesa è il limite, è il confine; è ciò che separa, che divide lo stress lavorativo dal mobbing. La tipologia di azioni di disturbo cambia: sarà diversa in fabbrica, in banca o in uno studio professionale. Quello che non cambia è la percezione, da parte della vittima, della mancanza della capacità di difendersi, derivante principalmente da due fenomeni: 1) scarso significato della singola azione di disturbo, 2) difficoltà a mostrare, a motivare e provare che queste azioni sono deliberate e che sono parte di un insieme più ampio che genera, nel suo complesso, una situazione di mobbing.

È una situazione sfumata, dai contorni non ben definiti e, per questo, contraddistinta da mancata difesa. Ad esempio, in termini educativi, in uno stile autoritario è chiaro il comando, cioè il “come” bisogna comportarsi per obbedire. Quando invece non esiste una definizione chiara in termini di rapporto, si crea una confusione che progressivamente incide sui processi d’autostima personali. È come se la persona si chiedesse: «Sono io…, sono gli altri…, che cosa sta succedendo?». Si pone una serie di domande sfumate che incidono direttamente sul sistema di difesa personale.

Chi è vittima di mobbing patisce conseguenze neurologiche sul piano neurovegetativo, sulla capacità di far fronte allo stress continuo. Ci sono ripercussioni comportamentali perché la persona, spinta in una posizione di non difesa, probabilmente risponde in modo inadeguato con conseguenze fortemente pesanti in campo psicologico, fino a generare dei disturbi dell’umore piuttosto consistenti e ad arrivare, alcune volte, al suicidio. I sintomi che la persona sottoposta a mobbing percepisce possono comprendere disturbi del sistema immunitario, orticaria, dolori muscolari molto forti, tachicardia, tutto quello che riguarda il respiro e il cuore, tremore e sudorazione, somatizzazioni a livello gastrico, attacchi di panico, picchi d’ansia molto rilevanti che, naturalmente, sono la risposta allo stress. Tutti questi sintomi e in più la sensazione altamente sgradevole di non capire cosa sta succedendo, di vaghezza e confusione, confluiscono nell’incapacità sia di distinguere tra malessere personale ed ambientale, sia di cogliere gli eventi che generano queste risposte psicofisiche. Evidenzio dunque questi due aspetti: la sensazione di non capire e la mancanza di difesa come possibili parametri di valutazione e di riconoscimento di situazioni mobbizzanti.

Normalmente la vittima del mobbing si ribella troppo tardi e si ribella male. Quando, alla fine, si ribella lo fa in modo molto aggressivo e non focalizzato; queste reazioni costituiscono un ulteriore motivo di mobbing, perché la risposta che riceve è del tipo: «Ma come, tu sei così sgradevole!». In altre parole, il gruppo lavorativo afferma che la persona vittima di mobbing ha un caratteraccio e che è impossibile avere a che fare con lui. A questo punto siamo di fronte ad un’ulteriore squalifica rispetto alla reputazione nell’ambito sociale, perché il posto di lavoro è un ambito dove le normali consuetudini di rapporto vanno salvaguardate, allora si fa in modo che la persona metta in atto quello che in termini psicologici si chiama acting out: l’uscire dai binari in termini esplosivi, non legati a una situazione. Il mobbizzato è messo alle corde, spinto verso la perdita del suo autocontrollo: perde la possibilità di scegliere “come” reagire in una situazione.

Se una persona è rimproverata ingiustamente per 100 volte, alla 101esima volta è ovvio che “sbotterà”. Ebbene, questo sbottare diventa l’elemento di squalifica della persona. Per evitare questo ciclo improduttivo, chi sospetta d’essere una vittima di mobbing, dovrebbe attivare uno schema mentale da utilizzare come medicina, ovvero, avere gli strumenti per “cogliere” prima la situazione.

Diventa allora importante auto-interrogarsi, diventa essenziale saper riconoscere le proprie caratteristiche personali. Se sono un tipo che “appena mi si tocca salto per aria” vuol dire che fa parte della mia struttura caratteriale ma, se fino a poco tempo prima avevo comportamenti normali negli ambiti sociali e professionali ed ora vedo che cambiano, non vuol dire che io stia cambiando: piuttosto sta cambiando qualcosa nelle relazioni. Questa capacità di lettura diventa non solo la via maestra per uscire dalla posizione di vittima, ma anche per disinnescare la miccia, il detonatore delle situazioni di mobbing prima di farci del male e, in ogni caso, prima che si destrutturino i rapporti all’interno dell’organizzazione in maniera globale.

Anche se il termine “mobbing” è recente, le misurazioni dello stress e della ostilità hanno una lunga tradizione. Le misurazioni possono essere svolte attraverso:

a) misure della tensione accumulata all’interno della persona che si trova in uno stato di disagio;

b) misure di diminuzione della autostima che impedisce il regolare svolgimento del proprio compito;

c) misure della coesione sociale tra i gruppi, delle antipatie e delle simpatie, attraverso mappe sociometriche;

d) misure del comportamento prosociale e collaborativo;

e) misure della distanza psicologica che separa individui o gruppi;

f) misure della ostilità tra i gruppi, latente e manifesta;

g) misure dei pregiudizi;

h) misure degli atti obiettivi di ostilità e di ritorsione;

i)misure delle interruzioni e degli errori;

l) misure della mediazione e della conciliazione.

Insomma, è possibile produrre misurazioni sistematiche della tensione nell’ambiente di lavoro, tese a predisporre interventi terapeutici negli ambiti dove un eccesso di conflitto sociale provoca insoddisfazione e impedisce un funzionamento ottimale della organizzazione.

A questo punto, un accenno importante, merita la responsabilità del datore di lavoro al quale spetta di porre in essere tutti gli espedienti tesi a prevenire e/o evitare situazioni pregiudizievoli della salute psicofisica del lavoratore. Emblematico in tal senso l’art.2087, secondo il quale è posto a carico del datore di lavoro non solo il divieto di compiere qualsiasi comportamento lesivo dell’integrità fisica e della personalità morale del dipendente, ma anche il dovere di prevenire e scoraggiare simili condotte nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa (Boncristiano, 2008).

Le organizzazioni, infatti, non sono solo “sistemiche”, ma anche umane. Il mobbing incide sulla componente più delicata, ma anche più cruciale della organizzazione, composta dagli uomini e dalle donne che vi lavorano, rendendo l’azienda innovativa e competivitiva.

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