E fra le braccia niente

 In CaseHistory, N. 2 - giugno 2014, Anno 5

Come sono tristi le giornate in questo buco di soffitta dove il freddo d’inverno ti entra nelle ossa e il caldo d’estate ti arrovella il cervello. Ore e ore a rimuginare quanto può essere crudele la vita. Una vita trascorsa a faticare.

Avevo dodici anni quando, con una valigia di cartone in una mano e un pezzo di pane e formaggio nell’altra, assieme alla mia famiglia, emigrai al nord. Con il cuore gonfio di lacrime guardavo la mia terra scomparire veloce attraverso il finestrino di un treno. Una terra fatta di mare, una terra fatta di sole. Era freddo al nord e un cielo cinereo raggomitolava cose e persone, ma qui il sudore della fronte almeno portava il “pane” a casa.

Una casa modesta ma dignitosa la nostra, e un solo desiderio nella testa: tornare una volta all’anno al paese nativo per respirare, di nuovo, il sapore del mare e per sentire sulla pelle, di nuovo, il calore del sole. Fu così che conobbi Carmela. Ero appena arrivato sull’isola, dopo un interminabile anno di lavoro in fabbrica. Camminavo lungo il sentiero che, snodandosi nella pineta, dal mare portava verso il paese, quando distrattamente urtai una bicicletta provocando la caduta del suo cavaliere, e che cavaliere. Pelle di cioccolata e occhi grandi, lucenti come il riverbero del sole sulle onde del mare. “Mi scusi, si è fatta male?” farfugliai mentre le tendevo una mano per aiutarla a rialzarsi. “Stia più attento accidenti!” rispose stizzita. Ma la conoscenza fu presto fatta e dal quel giorno sulla spiaggia non ci perdevamo mai di vista.

La mia vacanza si consumò più in fretta del solito quella estate e presto giunse il giorno degli addii. “Tornerò, te lo prometto”. L’anno che seguì fu un anno di valige, stazioni e treni. Ogni due mesi circa tornavo al paese per starci due o tre giorni al massimo e i soldi dello stipendio a malapena riuscivano a coprire le spese. Un anno di questa vita e la decisione fu presa. Ci sposammo. Lei mi seguì al nord. Non passò però molto tempo che la solitudine e la nostalgia per la sua famiglia e per la sua terra generò l’infame nemica: la depressione. Una figlia piccola da accudire e interminabili giornate in casa. Da sola.

Io non c’ero quasi mai, lavoravo e lavoravo, ore ed ore di straordinario per far quadrare il bilancio. Alla seconda gravidanza Carmela abortì. Voleva, si, un’altro figlio, ma non certo qua, al Nord, dove si sentiva sola e abbandonata e dove l’asma la stava distruggendo. Si, perché Carmela da un po’ di tempo aveva cominciato ad avere frequenti attacchi d’asma di origine ignota. Presi allora in seria considerazione la possibilità di tornare giù al sud. Conti alla mano, facendo ulteriori sacrifici, e con un po’ di aiuto da parte dalla mia famiglia, in pochi anni, forse, saremo riusciti a costruire una casa al paese natale.

Gli anni intanto passavano e le cose non andavano certo per il verso giusto, l’asma di Carmela andava sempre peggio come del resto la sua depressione. Dopo sette lunghi anni di stenti e privazioni la casa al paese fu finalmente pronta. Mi licenziai e ci trasferimmo giù. Io del paese conservavo quel ricordo un po’ romantico di tutti coloro che, costretti ad abbandonare la propria terra da ragazzetti, la idealizzano. E il ritorno annuale, da turista, non faceva che incrementare in me quella visione ideale. Vivere e cercare lavoro in un piccolo paese di provincia è però ben altra cosa. Lì, chi sa a chi rivolgersi riesce sempre a sistemarsi, gli altri si arrabattano per un tozzo di pane. E per chi, come me, era fuori dal meccanismo, restava solo la nera miseria, perché se riuscivo a lavorare quattro mesi all’anno dovevo ritenermi fortunato. Avevo è vero una bella casa di trecentocinquanta metri quadrati, ma non si mette a tavola un pezzo di mattone.

Intanto un secondo figlio era in arrivo. Carmela per tutto il tempo della gravidanza dovette stare a letto. Lei a letto e io, senza un lavoro fisso, facevo il casalingo. Unica nota positiva, mia moglie sembrava guarita completamente dalla depressione, e anche l’asma come per incanto era sparita. Ma mentre lei guariva io mi ammalavo. I germi della depressione ora iniziavano a manifestarsi in me. Per amore di Carmela cercai di resistere, ma alla fine dovetti prendere una decisione. “Carmela devo andare. Devo tornare al nord. Se non vado via da qui impazzisco. Perché quando un uomo è senza lavoro e non sa come mantenere la famiglia si deprime”. Telefonai a mia sorella chiedendogli di trovarmi un alloggio di fortuna. Partii da solo.

Ancora una volta un treno mi portava lontano dalla mia terra e dalle persone che amavo. Nel cuore, ancora una volta, la speranza: trovare al più presto un lavoro e un’abitazione decorosa per la famiglia, e poterli riavere di nuovo con me. Vengo nuovamente riassunto presso la mia vecchia fabbrica e riesco, col tempo, a trovare una casa, un po’ fuori città, ma decente. Finalmente, dopo interminabili lunghi mesi, mia moglie mi raggiunge con i figli.

La mia vita riprese a scandire il suo vecchio ritmo. Lavoro, ore di straordinario. Andavo via la mattina presto e tornavo la sera tardi. Lei di nuovo in casa con i figli. Sola.

Una sera al mio rientro a casa Carmela entusiasta mi raccontò che, qualche settimana prima, due signore avevano bussato alla porta. Le due donne le avevano mostrato dalla Bibbia il proposito di Dio per la terra e il genere umano. Ed era un proposito meraviglioso. Famiglie immensamente felici su una terra paradisiaca. “Sai è come se Dio stesso avesse bussato alla nostra porta. Lui vuole che anche la nostra famiglia possa godere delle benedizioni che presto, anzi, prestissimo porterà su questa povera martoriata terra”. Le due donne le avevano offerto anche delle riviste. Lei le aveva lette e le aveva trovate “illuminanti”. Tanto che le visite delle due signore da quel giorno si erano fatte regolari. Io non diedi molta importanza alla cosa, pensavo nella mia ignoranza che tutto sommato una religione valesse l’altra. E poi, era la prima volta, dopo tanto tempo, che rivedevo Carmela felice, eccitata, tanto che ero perfino contento che avesse trovato delle persone per bene con cui parlare di cose profonde come la Bibbia e la religione. Avrei imparato a mie spese, più tardi, che le cose non stavano proprio così.

Ma intanto i mesi passavano e anche quell’anno arrivò il Natale. A cena, quella sera di vigilia, a casa nostra c’era mia sorella e la sua famiglia. Nessuno di noi ancora sapeva che quella sarebbe stata l’ultima vigilia passata insieme. Si avevo notato in Carmela un po’ di rigidità al momento del brindisi di auguri, ma sul momento non ci detti peso. Particolare irrilevante di una serata serena. Ma non il suo epilogo.

Molti erano gli eventi a me ancora sconosciuti di quella notte infausta: il fato era in agguato e noi suoi ignari protagonisti gli stavamo cadendo nelle fauci. Era passata da poco la mezzanotte, e mi appressavo ad riportare mia sorella a la sua famiglia a casa, ero già per le scale quando Anna, mio figlia, mi grida dietro: “Papà aspetta vengo con te”. “Ok muoviti ti aspetto”. Risposi. Ancora oggi quella frase mi rimbomba nella testa: “Ok ti aspetto”. Quanto avrei voluto che mia figlia quella notte fosse rimasta al sicuro. A casa. Non potevo sapere. Agli uomini non è concesso vedere in anticipo il dispiegarsi degli eventi: come la macchina che, come un siluro lanciato a folle velocità, si schiantò su di noi. L’urto fu così violento che mia sorella morì sul colpo, seppi poi. Ci vollero ore prima che i pompieri riuscissero ad estrarci da quell’inferno fatto di lamiere aggrovigliate. Ovattato e sperduto è, ancor oggi, il ricordo dell’odore delle lamiere bruciate dal calore della fiamma ossidrica, come lontano e fievole è nella memoria il suono della sirena dell’ambulanza che ci portava via.

Mi risvegliai in una anonima corsia di ospedale senza ancora aver ben chiaro né come ci fossi arrivato né quello che era successo realmente. L’unica sensazione certa, paurosa, era che non riuscivo a muovermi. Niente del mio corpo riusciva a muoversi. Non capivo. Le mie gambe, le mie braccia. Cercavo con la mente le parti del mio corpo, ma esse erano come se mancassero all’appello. Quando istintivamente provai a chiamare aiuto il terrore si impadronì di me. La mia bocca non si muoveva, qualcosa le impediva di aprirsi. Unica cosa certa è che ero disteso in un letto di ospedale e che la vista come l’udito erano le sole cose su cui potevo ancora contare: vedevo il soffitto della mia stanza e percepivo gli inconfondibili i rumori della corsia di un ospedale.

Una voce mi ridestò dal torpore nel quale ero ricaduto. Era il medico di turno. “Signor Vincenzo, lei ha avuto un bruttissimo incidente, dove ha riportato diciassette fratture, di cui cinque gravi. Ha entrambe le braccia ingessate come del resto la gamba destra, la sua bocca è stata chiusa da feruli per le varie fratture alla mandibola e anche il suo setto nasale è rotto”. Già, l’incidente, vagamente i ricordi cominciavano a farsi strada. “Mio Dio, Anna”. Il suo ricordo mi esplose come una bomba atomica nel cervello. Atterrito, mugolando con gli occhi cercavo il viso del dottore, volevo sapere Anna come stava, se era viva. “Mio Dio fai che Anna sia viva”. Mi ripetevo. La faccia di Carmela finalmente apparve davanti ai miei occhi. Fu da lei che seppi che Anna, la nostra Anna, era in prognosi riservata per un grave trauma cranico, mentre mia sorella purtroppo in quell’incidente c’era morta. Mio cognato, anch’egli in ospedale, aveva una spalla ed entrambe le gambe rotte. Vengo dimesso dall’ospedale dodici giorni dopo. Mia figlia, invece, resta ricoverata per ben quaranta.

Le due signore della Bibbia, saputo del grave incidente, si misero subito a completa disposizione. Mi venivano a prendere a casa e mi accompagnavano in ospedale a trovare mia figlia. E quando mia figlia finalmente uscì dell’ospedale, le loro visite si fecero frequenti a casa nostra. La loro “disinteressata amicizia” faceva crescere in me un senso di gratitudine, così quando ci invitarono alle loro riunioni, anche se per la verità non ero molto interessato, non me la sentii proprio di rifiutare. Non potrò mai dimenticare la cordialità e calore con il quale siamo stati accolti, accoglienza che consolidò in mia moglie l’idea che quello era veramente il “popolo scelto da Dio”. Cominciò a frequentarli tutte le domeniche portando con sé anche i figli. Preludio di un vincolo che sarebbe stato totale e totalizzante. Ma io ancora non lo sapevo. Il tempo passa e io riprendo faticosamente, tra un’operazione e un’altra, a lavorare.

Una sera rientrando a casa, come al solito dal lavoro, trovo la tavola apparecchiata solo per me. Lei e i figli avevano già mangiato e erano già pronti per uscire. Meta l’adunanza. Carmela mi spiega che non era sufficiente andare alle riunioni solo la domenica, perché Dio aveva stabilito una serie di adunanze, cinque per l’esattezza, per “dispensare il salvifico cibo spirituale ai suoi leali servitori”, perciò per chi voleva fare la volontà di Dio necessario si faceva frequentarle tutte. “Le adunanze servono per addestrare il popolo di Dio a fare la sua volontà in questo tempo della fine perché il Regno di Dio e vicino. Solo conoscendo la verità si può meritare la vita eterna nel prossimo paradiso terrestre”. Ritornello imparato a memoria. Ripetuto ogni volta che replicavo per la sua assenza. Adesso che aveva capito il volere di Dio lei era determinata ad ubbidire. Punto. Quella fu la prima di una lunga serie di cene solitarie. Già mi ero rassegnato a passare la domenica da solo, unico giorno che potevamo passare tutti assieme.

Una sera mentre mi infilavo il pigiama il mio sguardo per caso cadde sul muro a capo del letto, al posto del solito quadro della Madonna con il Gesù Bambino in braccio, adesso c’era appeso un poster con tanto di cascate e prati in fiore. Incuriosito e un po’ seccato chiamai Carmela per farmi spigare cos’era questa novità e, con mio grande sconcerto, lei, con l’aria più innocente che si possa immaginare mi spiga che, siccome la Bibbia vieta di farsi immagini di Gesù, della Madonna o di altri Santi aveva ritenuto giusto obbedire a questo comando e disfarsi di tutte le immagini Sacre. Comprese le madonnine e i crocifissi delle catenine d’oro dei nostri figli. La discussione accesa che ne seguì non arrivò a capo di niente, lei imperterrita restò sulle sue posizioni: “Io in questa casa ci vivo e io l’accudisco e perciò quelle ‘cose’ per casa non ce le voglio”. Poco importava che molte di quelle ‘cose’, come adesso le chiamava lei, fossero preziosi ricordi di persone care che ormai non erano più fra noi. Così, mentre ogni riferimento della religione Cattolica scompariva dalla nostra casa, le pubblicazioni della sua cosiddetta “vera” fede iniziavano a riempire ogni spazio disponibile, come d’altronde, ormai facevano anche le nostre discussioni.

Carmela si era messa in testa di convertirmi. E ogni occasione era buona. Il telegiornale dava la notizia di un furto, dell’uccisione di qualcuno piuttosto che un cataclisma naturale o un evento disastroso, bene, quelli erano tutti segni predetti dalla Bibbia che dimostravano chiaramente che il modo stava vivendo i suoi “ultimi giorni”, e che quindi io avrei fatto bene a sbrigarmi a mettermi a posto con Dio se volevo sopravvive alla catastrofe che Egli fra breve avrebbe portato sulla terra. Ogni sera la stessa solfa. E anche quando si mostrava affettuosa e premurosa alla fine inevitabilmente dietro alla sua disponibilità si celava la richiesta che io accettassi di studiare la Bibbia con i suoi, ormai considerati, “fratelli”. Gli unici detentori della “verità”.

L’argomento di battaglia di Carmela, come un disco rotto, era sempre lo stesso: “non vedi, adesso sono finalmente serena, e questo lo devo a loro. È grazie a loro che ho conosciuto la ‘verità’, ma per causa tua la mia felicità non è completa, perché la mia famiglia non è unita ‘nella pura adorazione’. Quando la fine di questo mondo arriverà io ti perderò perché sarai distrutto da Dio, poiché sei un’infedele”. Già un’infedele. Questo ero adesso io per mia moglie. Uno che pur avendo la possibilità di conoscere la volontà di Dio preferiva restare nell’ignoranza e indugiare nelle credenze pagane e demoniache della Chiesa Cattolica: la diretta antagonista di Dio e del suo Regno. Dimostrazione, questa, del mio cuore insensibile e corrotto da Satana. Come del resto pagane e quindi sataniche adesso erano considerate da Carmela tutte le feste comandate. Natale, Pasqua, Carnevale, compleanni, insomma ogni celebrazione era bandita dalle nostre mura domestiche. Per non parlare dell’imbarazzo che ogni volta provavo nel declinare l’invito di un parente che ci invitava a casa sua per festeggiare qualche ricorrenza. L’alternativa? Andarci da solo. Ma come si fa a spiegare che Carmela e i figli non sono voluti venire per non partecipare a una festa in onore di “Satana il governate di questo mondo”. E non era tutto. Ogni volta che a scuola di nostra figlia veniva organizzata una festicciola scattava l’investigazione di Carmela: “Anna, dimmi, ma che cosa si festeggia domani a scuola tua, per caso qualcuno dei tuoi compagni di classe finisce gli anni?” E puntualmente Anna restava a casa. E poco importava se io ero d’accordo o meno. Imperativo era non contaminarsi con le pratiche di questo mondo satanico.

Intanto si avvicinava la prospettiva del risarcimento da parte dell’assicurazione per l’incidente avuto. Un giorno dissi a Carmela: “Sai, con i soldi del risarcimento, mi piacerebbe tanto lasciare il lavoro in fabbrica e aprire assieme a te un attività commerciale. Pensa potremo passare finalmente più tempo insieme”. La sua risposta fu lapidaria: “Prima Dio e dopo tutto il resto. La cosa non mi interessa, se veramente vuoi aprire un’attività commerciale ti trovi una donna, la paghi e ti fai aiutare”. Non credevo alle mie orecchie. Aveva passato ogni limite logico. Fu qui che decisi di capirne di più su questa organizzazione. In ritardo lo ammetto. Adesso lo so. Decido di procurarmi dei libri che trattino il gruppo.

Ogni istante libero dal quel momento lo passavo a leggere. Più leggevo e più la preoccupazione cresceva. Ma ancora mi illudevo che bastasse far leggere a Carmela quelle informazioni chiarificatrici sulla loro storia e sulla loro dottrina: come sono nati, come si sono sviluppati nei vari Paesi, i loro continui mutamenti dottrinali. Insomma tutte quelle contraddizioni che attraverso un analisi attenta dei loro scritti saltavano chiaramente agli occhi. Niente. Pia illusione. Di esaminare quei libri Carmela non voleva neanche sentirne parlare. “È sicuramente materiale apostata perciò io non ci penso nemmeno a guardarlo. E faresti bene a non guardarlo neanche te. Se proprio vuoi conoscere la verità invece di riempirti la testa di quella spazzatura faresti bene a studiare la “Bibbia” con noi. E se proprio vuoi continuare sulla strada della distruzione eterna fai pure. Ma di quella robaccia tu non me ne devi nemmeno parlare, perché io non voglio ascoltare nemmeno lontanamente le insinuazioni velenose degli apostati in combutta con i preti cattolici”. Non è possibile. È impazzita, mi dissi. E in preda alla disperazione più nera le urlai “Bene! Ho capito che tu in realtà non vuoi un confronto serio e onesto, ma cerchi solo di trascinarmi con te nello stesso baratro nel quale stai precipitando. Ma io non ci sto!” E in un impeto di rabbia presi tutta la letteratura, tutte le riviste del suo gruppo e le buttai nel cassonetto della spazzatura. Telefonai alle due signore che ancora facevano lo studio della “Bibbia” a Carmela dicendogli che non erano più gradite a casa mia. Ero disperato, non sapevo cosa fare. L’unica casa che riuscivo a pensare era di allontanare quelle persone dalla mia famiglia il più presto possibile. Successe il finimondo. Ero diventato il male assoluto. Per un bel po’ di tempo Carmela si chiuse in un mutismo ostinato. Poi un giorno mi chiese se ero disposto ad andare con lei da un consulente matrimoniale. Quelle parole riaccesero in me un barlume di speranza e accettai immediatamente. Speranzoso attesi il giorno dell’incontro. Forse, mi dicevo, se uno specialista le spiega come stanno le cose, per la mia famiglia ci può essere ancora un futuro accettabile. Altra pia illusione. Il consulente ascoltato le nostre istanze, fece del suo meglio per spiegare che la rigidità con la quale mia moglie aveva interpretato questa “verità” dottrinale non avrebbe certo giovato al rapporto di coppia, ma le sue parole furono parole gettate al vento. Carmela non intendeva mettere in discussione nemmeno una vergola della sua adesione. Lei sarebbe diventata una fedele “sorella” con tutto quello che ne poteva derivare. Con me o senza di me. E questo era quanto.

Liti, zuffe, dispetti. L’argomento era sempre lo stesso. La tensione fra noi era diventata così esplosiva che la sera, dopo il lavoro, ogni scusa era buona pur di rimanere il più possibile fuori casa. Non sopportavo l’idea di rientrare a casa e inesorabilmente iniziare l’ennesimo litigio. Dopo tre mesi di inferno Carmela mi comunicò che voleva il divorzio. “Io non voglio separarmi da te – farfugliai – ti prego, ragioniamo non gettiamo via il nostro matrimonio, la nostra famiglia”. “Più fai così e più ti odio. Lo vuoi capire che non mi importa, che tu voglia o no”. Fu la risposta. Secca, affilata. In quei giorni dovevo fare un delicato intervento al gomito.

Dal giorno dell’incidente diverse erano le operazioni alle quali regolarmente dovevo sottopormi e quella al gomito era fra queste. Ricordo come se fosse ora la tristezza di quel giorno. Solo mi incamminai verso l’ospedale e solo tornai a casa tre giorni dopo. Non una visita, non una telefonata. Carmela non si fece ne sentire ne vedere. A casa l’unica cosa in attesa era l’appuntamento dell’avvocato. Dove venne deciso per una consensuale. Al ritorno, appena superata la porta di casa, Carmela prese il telefono e comunicò a parenti e conoscenti la nostra separazione. Il tono della sua voce, la sua espressione, tutto di lei trasmetteva un moto di vittoria, di rivalsa. Non ci potevo credere. Ma erano tante ormai le cose a cui non avrei mai potuto credere. Quella là che trionfante e concitata parlava al telefono non era la mia Carmela. Non era la Carmela che, bella e luminosa come un raggio di sole mi aveva fatto innamorare. No. Questa Carmela io non la conoscevo. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Finito il giro di telefonate mi disse che intendeva partire, con i figli, al più presto e tornare giù, al paese. Sapeva bene che a causa dell’operazione al gomito con la conseguente immobilizzazione del braccio, destro per di più, io avrei avuto molta difficoltà a vestirmi a mangiare, insomma non sarei stato proprio autosufficiente. “Te ne vai e mi lasci da solo in questo stato?” Cercai di farla desistere facendo leva sul suo senso di responsabilità. “Carmela ragiona, quale moglie lascerebbe suo marito in queste condizioni da solo?” “Ex moglie, prego”. Fu la sua risposta. Da premettere che eravamo andati dall’avvocato solo per chiedere istruzioni per la separazione e che niente di fatto era stato compiuto.

Due mesi. Tanto Carmela restò al paese. Io, solo, cercai di arrangiarmi come potevo. Rassegnazione, smarrimento misti a rabbia e indignazione erano i sentimenti che si contorcevano nelle mie viscere come serpenti in quei giorni fatti di solitudine e disperazione. Dal giorno dell’incidente, con le conseguenti interminabili operazioni di ricostituzione delle fratture subite, mi sentivo sempre più rilegato nel ruolo dell’invalido bisognoso di aiuto. E Carmela spesso pareva approfittarsi di questa mia inabilità per ricordarmi di quanto lei faceva per me, mentre io, l’ingrato, neanche una cosa ero disposto a fare per lei. Come per esempio conoscere la “verità”. Unica cosa che a lei premeva veramente. Il suo ritorno a casa fu foriero di nuovi scontri. Carmela aveva deciso che era ora che io mi trovassi un altro alloggio perché lei non era più disposta a vivere assieme a uno che non accettava Dio. E per di più con uno che non era più suo marito. Peccato gravissimo. Perché, secondo lei, anche se non avevamo neanche iniziato le pratiche per la separazione eravamo già separati, per il solo fatto che decisione era stata presa. Da lei sola naturalmente.

Trovo un alloggio di fortuna. Vi risparmio il resoconto dei miei pensieri in quei giorni. Giorni amari. Pochi mesi dopo sono di nuovo in ospedale per l’ennesima e delicatissima operazione. Pochi minuti prima dell’operazione cedo alla tentazione di chiamarla. “Carmela sono in ospedale tra un po’ entro in sala operatoria”. “E allora, cosa vuoi da me?” Mi rispose affettata. “Niente – risposi – ti chiedo soltanto di farmi gli auguri”. Lei, per tutta risposta. “E perché dovrei, non siamo più niente”. E questo dieci giorni prima della sentenza effettiva della separazione. Separazione dove viene specificato che per quanto riguarda il figlio minore gli aspetti relativi alle scelte religiose spettano solo al papà. Mia figlia, più grande, ormai aveva seguito la via della madre e quando mi incontrava per strada neanche mi salutava. Col tempo anche il minore, in barba a tutte le disposizioni, ha intrapreso lo stesso itinerario.

Un tempo avevo una moglie. Una moglie che amavo e che mi amava. Un tempo avevo una famiglia. Un tempo avevo una vita. Adesso sono un uomo solo e amareggiato. Voglio ancora bene a mia moglie ma non posso fare niente per lei. Il senso di impotenza mi devasta e mi arrovella il cervello. Si, quanto sono tristi adesso le giornate. Giornate passate da solo a ricordare come era dolce la mia Carmela prima che un “male oscuro” travestito da “amore fraterno e verità assoluta” la trasformasse in un essere che non riconosco più.

Tolleranza

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